Attacco alla magistratura e sovversione permanente

Nello scontro con la magistratura romana sul caso delle deportazioni dei migranti nei centri detentivi in Albania, il governo di Giorgia Meloni ha dimostrato e dimostra il suo tratto...

Nello scontro con la magistratura romana sul caso delle deportazioni dei migranti nei centri detentivi in Albania, il governo di Giorgia Meloni ha dimostrato e dimostra il suo tratto più singolarmente distintivo: l’assolutezza delle decisioni. Una ispirazione autoritaria che, formalmente, intende rispettare le istituzioni repubblicane e la separazione dei poteri, mentre, più privatamente, in una condivisione di ancestralismi post-missini, rinverdisce proprio le accentazioni eversive della supremazia dell’esecutivo rispetto al resto dello Stato e della Repubblica.

I toni contano e non si dimenticano: dalle parole dei singoli deputati a quelle del Presidente del Senato. Da quelle dei ministri e viceministri fino al ritwittare della Presidente del Consiglio che taglia un lungo testo scritto da un magistrato e lo conforma al teorema dimostrante la faziosità dei giudici e, quindi, il complotto in atto per arginare i legittimi poteri di Palazzo Chigi e, magari, creare i presupposti per la caduta del governo medesimo. Se di questo si trattasse, sarebbe qualcosa di molto simile ad un colpo di Stato.

Ma così non è e non è mai stato. Soprattutto ai tempi di Berlusconi. Semmai era vero l’esatto opposto: per difendere interessi privati mediante l’acquisizione di altissime cariche pubbliche, gli esponenti dei governi di centrodestra avevano tentato ogni strada per imbrigliare l’agibilità costituzionale della magistratura. Non era di certo colpa dei giudici se corruzione, evasione fiscale, frodi di ogni tipo erano uno stile di portamento (anti)istituzionale delle destre. Facevano quasi rimpiangere i tempi del secondo Pentapartito, quelli poi ingloriosamente finiti sotto il lancio delle monetine all’indirizzo di Bettino Craxi.

Oggi, invece, il governo sente di avere il vento favorevole dalla sua parte e di poter navigare in acque sicure, nonostante le tante contraddizioni che vive e che non sono estinguibili con qualche mero esercizio dialettico o comparsata televisiva o propaganda giornalistica. Ed i sondaggi, effettivamente, registrano un consenso stabile per la maggioranza, anche nelle prossime elezioni regionali: anzi, in alcuni casi, i voti crescono e le percentuali pure. Ma il rischio vero è dato dalla vulnerabilità dell’opinione pubblica.

Tanto mutevole quanto, appunto, imprevedibile. E, nonostante gli scandali pregressi su decine di milioni di euro sottratti alle casse pubbliche per interessi di partito; nonostante la plateale incapacità di questa classe dirigente di avere chiaro il rapporto tra arte di governo e interesse pubblico, popolare, civile, sociale e persino culturale; nonostante l’impronta palesemente (post)fascista e autoritaria che gli viene da un passato che non passa; nonostante sia chiarissimo il combinato disposto per sovvertire l’ordine democratico e fare dello Stato un presupposto per una gestione arrogante del potere, il consenso delle destre non decresce.

Il fatto deve interrogarci sui motivi strutturali che inducono una parte (ma pur sempre importante) della popolazione a preferire tutte queste retrività ad un governo invece democratico, costituzionale, che si rifaccia al sentimento resistenziale e antifascista a tutto tondo e che non abbia alcun tentennamento nel saldare diritti sociali a diritti civili ed umani, preservando il Paese da qualunque tipo di esacerbazione delle diseguaglianze nel nome di un autoctonismo iperetnico e neonazionalista.

Lo scontro tra Palazzo Chigi e la magistratura non è un effetto di un biennio solamente meloniano: è una delle essenzialità che caratterizzano il DNA di una destra che oggi ritrova, nella pienezza della legittimazione che anche il centrosinistra le ha ampiamente concesso nel corso di decenni e decenni, una rabbiosa grinta celata dietro le quinte di una prassi e un galateo istituzionale che non può essere messo completamente da parte. La maggioranza degli italiani, di fronte ad un evidente torsione autoritaria, probabilmente reagirebbe compattamente e, a quel punto, con scioperi e manifestazioni di piazza rovescerebbe la situazione.

Ma si tratta di mere ipotesi, perché oggi le certezze sul comportamento di una popolazione invasa da una serie di reali, grandi problematiche sociali, sono davvero molto poche: si può ritenere che il mordente costituzionale abbia una certa presa anche su una buona parte di coloro che sono troppo disillusi per andare a votare ma che, nonostante tutto, non vorrebbero vedere scivolare la nazione in un regime antidemocratico. Ma il tragico della situazione odierna è nella valutazione dei tempi unitamente alla concretizzazione delle politiche eversive fatte dal governo. Siamo già in una fase di transizione dalla democrazia costituzionale alla democrazia autoritaria.

Il DDL 1660 ne è la dimostrazione più lampante e allarmante al tempo stesso. Ogni atto dell’esecutivo non mira all’espansione dei diritti universali, ma alla particolarizzazione degli stessi, alla critica delle minoranze, alla vessazione e coercizione per coloro che escono dalla “norma” e che, soprattutto, si comportano al contrario di quello che il governo pretende si faccia, si dica, si pensi. La politica meloniana e salviniana, per quanto sia formalmente rispettosa delle prerogative costituzionali, è improntata a combinare, per l’appunto con disposizione, la riforma regionalista dell’autonomia differenziata con il premierato e tutto questo con la fine dell’equipollenza tra i poteri dello Stato.

Il che fa il paio esattamente con il diritto da parte dell’esecutivo di esercitare dei poteri di vigilanza che comprimono le libertà di espressione, di manifestazione, di critica e di organizzazione della stessa in modo pacifico e dentro i limiti previsti dalla Costituzione della Repubblica. Restano tre bastioni di difesa da questo attacco costante e quotidiano contro l’uguaglianza, la civiltà democratica e le libertà e i diritti civili: il Quirinale, l’opposizione parlamentare e quella popolare, diffusa ma confusa, vera maggioranza del Paese ma a tratti troppo silenziosa e mesta.

La destra non ha ragione quando fa delle differenze un presupposto di implementazione delle diseguaglianze. E siccome questo paradigma è uno degli architravi della politica di governo, ne consegue che, per difendere i privilegi dei poteri economici e finanziari cui la maggioranza è prona per opportunismo e per ideologismo iperliberista, ogni atto di Palazzo Chigi va nella direzione dell’interesse non comune ma particolare, dando adito alla considerazione del privato piuttosto che del diritto comune alla difesa esplicita dei beni comuni.

Tradotto su un terreno istituzionale e costituzionale, questo principio di esclusività uniforma da un lato e criticizza dall’altro i rapporti tra i poteri dello Stato che, se rispettosi del dettame della Carta del 1948, non possono non entrare in conflitto con il governo. Perché i presupposti sono sbagliati e tutto ciò che ne consegue va nella direzione di dare a Palazzo Chigi un ruolo preminente rispetto all’architettura repubblicana nel suo complesso. Nel momento in cui le sentenze dei giudici sono valutate come esercizio di una sorta di militanza politica, si va oltre la polemica.

Si è già nel pieno di uno scontro che un Parlamento svuotato del suo centrale e indispensabile valore legislativo non può gestire, seppure indirettamente, ma che la Presidenza della Repubblica prende su sé stessa con un’autorevolezza che le è riconosciuta da una fiducia molto più ampia rispetto al consenso elettorale delle forze di governo. Questo non significa che debbano venire meno i diritti e i doveri, quindi i poteri legittimi, dell’esecutivo. Ma esiste la necessità di riportare entro gli argini una prassi di collaborazione non meramente formale.

Il governo Meloni trabocca di tracotanza proprio dove avverte la sua maggiore debolezza: non poter esercitare un ruolo preminente rispetto alla terzietà magistratuale, la cui peculiarità è proprio l’indipendenza rispetto agli altri poteri dello Stato. Le polemiche emerse e gli attacchi manifestati apertamente contro i giudici sono la quintessenza di una sofferenza che sedimenta da oltre trent’anni nelle formazioni di una destra geneticamente indisponibile al principio democratico, all’uguaglianza dei diritti, allo spirito resistenziale della Costituzione.

Il disegno di trasformazione della Repubblica da parlamentare a premieristica, da regionalista a confederazione di venti staterelli con enormi disparità di considerazione e trattamento tanto dei diritti quanto dei doveri dei cittadini, delle imprese, del mondo del lavoro, della scuola, della sanità e delle infrastrutture, diviene qualcosa di più della premessa di uno scontro apertis verbis tra le anime dello Stato: unitamente alla poca considerazione che il governo ha degli altri poteri, finisce per decretare uno svilimento anche per il proprio ruolo.

Nel momento in cui si erge a dominus dell’azione politica, amministrativa, gestionale e propriamente esecutiva delle leggi e dei decreti, unifica in sé stesso una serie di ruoli che alterano la struttura costituzionale affidata a Palazzo Chigi. Nell’apostrofare la magistratura, tentando di ridurne il ruolo anche critico che deve poter esercitare nel pieno delle libertà costituzionali, il governo riconsidera i propri perimetri di azione e, pensandosi come centro del potere, finisce con l’assumere su di sé un portato gravoso cui rischia di non poter far fronte davanti ad una serie di somme di contraddizioni che non possono non essere evidenti.

La centralità del Parlamento deve poter tornare ad essere il fulcro dell’essenza istituzionale, sociale, civile, morale e culturale della Repubblica. Il governo deve rispondere alla Camere del suo operato e non pensarsi ed essere autonomo e quasi indipendente rispetto a questo esercizio giudicante dei rappresentanti della nazione. Va, per questo, rivista la legislazione elettorale in senso fortemente proporzionale. Perché senza un ritorno ad una composizione parlamentare delle compagini di maggioranza, continuando sulla via dell’alternanza tra poli, prevarrà sempre una competizione al ribasso democratico.

Il problema viene, quindi, da lontano: il confronto-scontro tra giudici e giudicabili, tra legge e potere, tra diritto e protervia dell’esercizio della funzione di governo è un segmento di quella trasformazione cultural-antropologica di una Italia che, a far data dai prodromi del berlusconismo d’antan, ha spostato i punti focali dalla collettività al singolarismo, dai partiti di massa a quelli personali, dalla partecipazione popolare alla comprimarietà.

Unire le lotte è ridare un senso ad una diffusa riconquista critica di massa, ad un civismo che si possa esprimere in quanto cultura costituzionale, resistenziale, antiautoritaria e fortemente innovativa nella riproposizione del concetto di repubblica come sinonimo imprescindibile di uguaglianza sociale, di giustizia sociale, di rispetto dell’equipollenza dei poteri nel nome di un alto principio rappresentativo che non può arrogarsi mai il diritto di comandare, ma soltanto (e non è poco) di gestire la nazione.

Abbiamo il dovere di criticare il governo e lo dobbiamo fare nell’interesse anzitutto dei più deboli: dei lavoratori e delle lavoratrici, dei precari, degli studenti, degli ammalati, di chi non sbarca il lunario da tempo immemore. La lotta sociale è parte della democrazia e viceversa. La lotta del melonismo contro la magistratura è una lotta di classe: di una classe antisociale ben distinguibile: quella che vuole tutelati i suoi privilegi tramite un governo forte con giudici condiscendenti.

Questo disegno eversivo deve poter essere visto in tutta la sua portata e va contrastato massivamente, popolarmente: da un ampio fronte sociale e civile che unifichi le opposizioni, che faccia da diga alla deriva autoritaria che l’Italia rischia da ormai troppo tempo.

MARCO SFERINI

22 ottobre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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