Convergenze e divergenze nel dibattito esistenzialista moderno

Filosofia della crisi di un Novecento che si tormenta tra le aspettative positivistiche sull’inarrestabile cammino scientifico e tecnologico e un pessimismo che si sostanzia dopo il fallimento rappresentato dal...

Filosofia della crisi di un Novecento che si tormenta tra le aspettative positivistiche sull’inarrestabile cammino scientifico e tecnologico e un pessimismo che si sostanzia dopo il fallimento rappresentato dal primo conflitto mondiale, l’Esistenzialismo è un filone quasi drammatico del pensiero che si tormenta e si arrovella sull’essenza, sulla riscoperta ontologica dei concetti, per un loro inveramento in una realtà che appare per quel che è: irrisolvibile, indefinibile e, quindi, largamente incomprensbibile.

Se al centro della trattazione vi è la condizione dell’esistenza e della vita umana in essa rappresentata, collocata, imprigionata e, tutto sommato, anche protagonista, ai margini di questa filosofia stanno le molte differenze che pure hanno avuto un loro peso non di poco conto per la definizione di un contorno, se non proprio etichettante ed identitario, quanto meno caratterizzante, capace di riscontrare delle similitudini tra il problema dell’Essere di Heidegger, la fede filosofica di Jaspers e la libertà dell’uomo (in quanto essere umano).

Il tentativo trascendentalista di Jaspers, ad esempio, espresso nei confronti della scienza, non presupponendo un punto di ragione, ma affidandosi ad uno slancio argomentativo prettamente filosofico è capace di una mediazione tra la fede propriamente intesa come atto di devozione e di credenza che si abbandona al metafisico e la realtà materiale che è sotto gli occhi di tutti e dalla quale si può trarre quella che il medico e psichiatra tedesco chiama la “cifra” o traccia di una percezione del divino (dunque del trascendente) rispetto all’umano, alla natura, all’essenza dell’esistente.

Tanto in Heidegger quanto in Jaspers, e non di meno in Sarte, un tratto comune è, ad esempio il rifuggire qualunque tipologia di superstizione, di pensiero magico, di trascendenza nel senso di abbandono del rapporto tra fede e ragione, tra ragione e realtà, tra sensazioni percettive e contesto in cui ci si trova ad essere. Le domande che i tre nostri filosofi si pongono, su cui costruiscono i loro impianti di pensiero, riguardano comunque l’esistenza: la problematica dell’essere in quanto tale (riportando in vita cenni di ontologismo parmenideo), oppure la responsabilità dell’uomo nella sua storia, dietro, dentro e davanti al cammino umano.

Jaspers e Heidegger hanno parecchi punti di convergenza proprio riguardo al concetto e, se vogliamo dirla più precisamente, con il tema dell’esistenza. Se il primo intende l'”esserci” come una originale ed originaria determinazione del soggetto nella realtà globale dell’essere (potremmo anche scriverlo con la maiuscola iniziale per significare meglio la proprietà dell’entità totale nella sua unicità molteplice), il secondo fa dell’essenza una conseguenza dell’esistenza. Per cui, entrambi riconoscono che l’uomo è catapultato nel mondo, che quindi lo vive e lo subisce al tempo stesso, ma Heidegger presuppone un distacco maggiore dall’analisi scientifica del reale.

Coscienza e razionalità sono per Jaspers i passi successivi dell’acquisizione di una determinazione presente nell’oggi, dell’esistenza tanto quanto dell’essenza. La competizione ontologica qui è, verosimilmente, non voluta, ma lo scambio delle posizioni filosofiche permette, se non altro a posteriori, nell’analisi che se ne è potuto fare dopo la fine del prodursi del pensiero esistenzialista e, quindi, la sua collocazione storica nell’ambito della mutazione del sapere, di avere un quadro più chiaro delle sfumature e delle similitudini tra i tre Nostri.

Jaspers attribuisce alla trascendenza un ruolo di separazione non dalla scienza, che valuta in modo positivo, ma dalla cristalizzazione di un concettualismo che si autoreferenzializza e che, quindi, induce ad una critica piuttosto sterile del presente in cui permanentemente ci troviamo e in cui possiamo constatare, senza soluzione di continuità temporale, che l’esistenza è un continuo incessante e che non ha quindi interruzioni, soste, possibilità di separazione dei momenti se non mediante la nostra osservazione e categorizzazione mentale.

In un certo senso, la filosofia per Jaspers supplice ad una insufficienza scientifica che, puntualmente, fa il suo dovere nel porsi dubbi che la fanno avanzare nel processo conoscitivo, ma che non potrà mai giungere alla risoluzione del problema dei problemi: il senso dell’esistenza, il nostro senso, significato di una essenza che è la conseguenza – dice Heidegger – dell’esistenza. O che, quanto meno, la segue incessantemente in un rapporto simbiotico naturale e spontaneo.

Sartre invee, pur partendo da problematiche molto simili a quelle dei suoi colleghi tedeschi, preferisce indagare la qualità della libertà umana nel mondo, nella vita stessa di ogni giorno e provare a comprendere questa “condanna” all’essere liberi, al ricercare sempre e comunque la libertà come piena espressione individuale e collettiva al tempo stesso. C’è qui un minore, anzi quasi nullo ricorso al trascendentalismo, visto che il tema che interessa al filosofo francese è una finalizzazione umana che prescinde dal teleologismo in un ateismo manifesto.

Il suo pensiero diverrà un riferimento costante per i movimenti rivoluzionari studenteschi del 1968-69 e anche, per certi versi, degli anni Settanta di un Novecento in profondo cambiamento e quasi irriconoscibile rispetto ai tempi vissuti da Heidegger e Jaspers che erano uomini nati e cresciuti, soprattutto culturalmente, a metà tra la fine dell’Ottocento e l’inizio dei grandi drammi del Secolo breve. La conoscenza empirica si riaffaccia sull’orizzonte di una critica sociale che ha bisogno della verifica pratica piuttosto che del vagheggiare su massimi sistemi visti come espressione di una interpretazione del mondo ma non della voglia di cambiarlo.

Eppure anche Heidegger, che ha vissuto un rapporto di amore-odio nei confronti del Nazionalsocialismo, e che pagherà tutto questo con la sospensione dall’insegnamento fino ai primi anni cinquanta, in un dopoguerra piuttosto ostile preso da vittimismo da un lato e da un senso di colpa enorme dall’altro per il popolo tedesco, non ricerca soluzioni che non siano finalizzate ad una uscita da quell’angoscia che riscontra nell’essenza umana e nell’esistenza più in generale.

La soggettività pratica di Heidegger si distingue da quella di Jaspers, essenzialmente, perché non prevede nessun accostamento alla trascendenza, ad una sintesi filosofica che metta in relazione scienza, ragione e fede in un ambito percettivo del reale che lasci “intuire” il Trascendente con la ti maiuscola, inteso quindi come il concetto di Dio che comunemente esprimiamo. L’ontologia heideggeriana è affidata ad una relazione continua dell’essere umano con il mondo che lo comprende e lo rende quindi, in questo rapporto dialettico, capace di conoscere seppure “teoricamente“.

Perché il livello conoscitivo, che pure si distingue da quello che potremmo definire una sorta di “primitivismo” delle percezioni (molto afferenti ad un inconscia capacità di intuizione che protende verso il sapere ma che ha oggettivi limiti nel momento in cui viene a confrontarsi con la parte conscia e diurna della vita umana), rimane estremamente parziale: preso tra la passione e la voglia dell'”auget scientiam” e la constatazione che, parallelamente, “auget dolorem” perché il senso dell’esistenza resta nel Mistero, nell’Impenetrabilità. Molochiche deificazioni moderne di antichi miti di una frustrazione per il non sapere appieno che, cosa siamo e perché siamo.

Per questo Sartre si esprime esistenzialmente su piano umanistico, accostandosi ad una responsabilità dell’essere senziente che vive di emozioni ma la cui felicità è inarrivabile e incongruente con l’essenza stessa dell’esistenza. Non risolvendo il problema dell’Essere anche l’esser-ci è, di conseguenza, un concetto monco, tronco, imperfetto. La vigilanza della coscienza, così come riportata da Heidegger nelle sue opere, si tramuta in un impegno al miglioramento materiale delle condizioni di vita che sono – per l’appunto – responsabilità di ognuno di noi. La capacità di “scegliere” è, in questo caso, non solo una scelta personale ma una azione che condiziona l’interità dell’esistenza.

Perché, se volessimo fare un paragone con il modernissimo “battito della farfalla“, potremmo affermare che Sartre è un anticipatore della teoria stessa che, in fin dei conti, non fa che constatare l’evidente che sfugge all’osservazione: tutto si tiene e si lega anche se non sembra; ed il molteplice è un insieme di altri insiemi, nell’unità di un esistente che trascende (fisicamente) il nostro micromondo e si eleva ad altezze cosmiche che si gettano nel buio più buio del Mistero dell’Infinito. Le maiuscole non sono qui un vezzo, una ricamatura pseudo-stilistica.

Sono la sottolineatura dell’essenza di fenomeni esistenti che non possiamo comprendere: il Mistero in quanto tale. L’Infinito in quanto letteralmente impensabile, inconcepibile, quasi inenarrabile. Quindi, mentre Heidegger considera l’esistenza come “inautentica“, se ci si smarrisce tra le cose e le vicende della stessa, e “autentica” se, invece, si conserva un distacco critico e analitico tra sé stessi l’essere (“sein“), criticando il consumismo moderno, Jaspers tenta l’orientamento esistenzialista nel mondo sapendo di non poterlo comprendere.

E Sartre, conscio di questa consapevolezza, sembra più vicino al medico tedesco piuttosto che al professore di Friburgo. Come si può facilmente constatare le compenetrazioni e le divergenze tra i tre rendono l’Esistenzialismo un fenomeno filosofico piuttosto intrigante, accattivante e meritevole di essere approfondito, nonostante una certa sterilità ontologica che rischia l’attorcigliamento dei pensieri, il loro avvitamento su sé stessi, apparendo accademia pura e niente altro.

Comunque la si possa pensare, il contributo dato da Heidegger, Jaspers e Sartre durante la crisi del pensiero novecentesco, va oltre la tragedia di una umanità che si annichilisce, che si deprime e detesta, che riflette molto poco esattamente sul significato inesistente dell’esistenza e che, quindi, si dimensiona soltanto nella microbicità del qui ed ora e reputa ogni parola, ogni problema un vero problema.

Tanto l’Esistenzialismo, che ci dice del nascondimento dell’Essere, quanto il Materialismo, che si invita a considerare attentamente i rapporti di forza tra i viventi in un contesto di considerazione però globale e universale, per vie molto diverse tra loro sostengono un’uscita dell’essere umano dalla crisi di fiducia in cui è piombato, nonostante le magnifiche sorti esaltate dal Positivismo e la cieca fiducia nella razionalità a tutti i costi. La profonda “solitudine” del singolo qui viene, se non altro, ripresa in una chiave non più prettamente individualistica.

Le grandi domande degli esistenzialisti sono, per così dire, un vero e proprio interrogativo dell’umanità tutta: c’è un retrogusto di vetustà filosofica che, forse, ha un senso soltanto se riprende le antiche domande per abituarci a considerare la nostra abiezione in un ambito di insolutezza che, tuttavia, è il contrario dell’alibi per comportarci ancora peggio, sapendo che, intanto, nulla ha senso e significato.

La responsabilità morale che Sartre riporta al centro del dibattito è declinata nell’impegno attivo per un miglioramento concreto e materiale (quand’anche materialistico) della vita di ognuno e di tutto. Giorno per giorno. Una lotta per la libertà nostra e per quella altrui che, forse, può dare un senso e un significato alla nostra esistenza e, dunque, heideggerianamente parlando, anche alla nostra essenza.

MARCO SFERINI

20 ottobre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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