La scelta di assegnare il Nobel per la pace all’organizzazione fondata e animata dai sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki per la messa al bando delle armi nucleari proprio nel momento in cui il loro impiego sta rientrando nell’orizzonte del possibile è quasi un imperativo morale.
Ma vi è un altro aspetto della percezione e della memoria della bomba cui converrebbe prestare attenzione.
Nella memoria collettiva del dopoguerra la distruzione nucleare delle due città giapponesi ha in qualche modo eclissato le molte atrocità commesse dall’esercito giapponese durante il conflitto mondiale. Non saranno queste ultime, non dissimili da quelle ad opera delle truppe naziste, né Pearl Harbour e la responsabilità dell’attacco a rimanere impresse nelle menti di testimoni e posteri ma le centinaia di migliaia di vittime evaporate in un istante nel fungo atomico.
Qualcosa di simile sta accadendo alla sanguinosa aggressione subita da Israele il 7 ottobre del 2023, tanto più dopo l’uccisione del suo principale ideatore, Yahya Sinwar e di molti altri dirigenti di Hamas.
La brutalità dell’invasione lampo dei miliziani e le sue vittime sono state sepolte sotto decine di migliaia di vittime civili e sotto le macerie in cui Gaza è stata ridotta.
Sono state seppellite dalle agghiaccianti esternazioni del governo israeliano sulla legittimità di lasciar morire di fame centinaia di migliaia di civili (non solo un’ipotesi senza conseguenze) pur di annientare il nemico.
Il 7 ottobre resta naturalmente quello che è stato: qualcosa che, per quanto se ne valutino le cause profonde, si situa per le sue modalità di esecuzione tra l’attentato terroristico e il crimine di guerra.
Ma non è più e non può più essere il centro della scena e il fulcro di quella solidarietà generale e quasi esclusiva che Israele ha ricevuto subito dopo l’aggressione.
Le vittime del 7 ottobre, così come gli ostaggi abbandonati alla loro sorte nelle mani di Hamas, perdono di peso e di consistenza, sommersi dall’enormità degli eventi che sono seguiti, ridotti a pedine di uno spietato gioco di potere nelle spire del quale la tragica realtà delle singole esperienze e il valore delle singole vite si dissolvono.
Gli ostaggi, è cosa nota, cadono spesso non solo per mano dei loro carcerieri, ma anche e soprattutto per conto della ragion di stato che si nutre del loro sacrificio. E che, ancora una volta, continuando a negare ogni occasione di tregua, ne mette a repentaglio la vita pur di continuare la guerra.
Se così forte continua ad essere l’insistenza con la quale Israele, ma anche i governi alleati di Tel Aviv, pretendono il riconoscimento del 7 ottobre come legittimazione di un diritto di rappresaglia su vasta scala è anche perché non sfugge il fatto che le spaventose proporzioni della rappresaglia stessa stanno offuscando del tutto la sua origine e i suoi motivi, mentre nessuno crede più che da Gaza possa provenire una seria minaccia per la sicurezza dello stato ebraico.
In ogni codificazione del diritto, in ogni sistema etico il principio di proporzionalità è imprescindibile e decisivo. Calpestarlo significa porsi al di fuori di ogni regola di convivenza presente e futura e imboccare una via suprematista che rende legittimo qualunque obiettivo raggiungibile con il puro e semplice esercizio della forza, compreso il totale annientamento dell’avversario e la conquista di nuovi territori.
Il problema è che la politica dell’attuale governo di Israele è fondata proprio sulla sproporzione, ovverosia sul fatto che a qualunque atto aggressivo rivolto contro lo stato ebraico, seguirà una risposta cento volte più violenta e sanguinosa.
Per colpire un solo nemico diventa normale e persino “morale” annientare decine di innocenti. Declassati al ruolo, sacrificabile come quello degli ostaggi, di scudi umani. L’attenzione per i civili e i bombardamenti mirati sono da tempo solo una stucchevole farsa.
Di fronte a un potere che pratica questa strategia della dismisura, che è poi anche una politica del terrore, il diritto internazionale è impotente e le Nazioni unite poco più che un coretto dell’esercito della salvezza.
Ma anche gli inviti alla moderazione e alla prudenza dei potenti alleati di Israele (che disporrebbero di sostanziali strumenti di pressione) cadono regolarmente nel vuoto perché moderazione e prudenza rappresenterebbero la negazione stessa di una politica israeliana fondata, appunto, sull’esercizio “sproporzionato” della forza.
E questi alleati, che hanno contribuito a renderlo possibile e lo hanno sostenuto, non possono ora negarlo e impedirlo. Nemmeno quando la dismisura della rappresaglia si trasferisce al Libano del sud, prende di mira Unifil, bombarda Beirut e rischia di investire l’Iran scatenando un incendio senza confini.
Nondimeno, non solo il 7 ottobre, ma Israele stesso, la sua immagine, le simpatie e le speranze (oltre alle ostilità e le critiche) che ha suscitato nel corso della sua complessa storia rischiano di finire sepolte sotto questo cumulo immane di cadaveri, di macerie, di ipocrisie e di menzogne.
Non siamo ingenui, le ragioni storiche e geografiche della forza militare israeliana ci sono tutte e vanno riconosciute.
Ma si può vivere solo di questo? Progettare un futuro garantito dalla “sproporzionata” capacità di combattimento?
Nessun criterio sensato di sicurezza può corrispondere a un simile schema. L’egocentrismo armato, alimentato dal mito della propria unicità, non è in grado di star dietro a un mondo che sta cambiando.
Destinato a un sicuro isolamento continuerà a riprodurre intorno a sé nuovi nemici da combattere, nuove minacce da scongiurare.
MARCO BASCETTA
Foto di Muaaz