Criminali, terroristi, fanatici religiosi nella guerra di lungo corso

Yahya Sinwar pare lo abbiano ucciso per caso. Lo avevano scambiato per quello che del resto era: un terrorista. Ora, sulla lista dei criminali di guerra in mano alla...

Yahya Sinwar pare lo abbiano ucciso per caso. Lo avevano scambiato per quello che del resto era: un terrorista. Ora, sulla lista dei criminali di guerra in mano alla Corte Internazionale Penale dell’Aja di criminale di guerra nella guerra di Gaza ne resta soltanto uno (si fa per dire…): Benjamin Netanyahu. L’elenco dei capi di Hamas e di Hezbollah eliminati si allunga ma il conflitto non si accorcia e nessuna prospettiva di un cessate il fuoco è all’orizzonte. Il premier israeliano è stato nettissimo: la guerra continua al fianco dell’alleato americano che, nonostante i proclami, non smetterà di rifornire di armi Tel Aviv.

Dopo un anno e due settimane dal fatidico, tragico, omicidiario 7 ottobre 2023, Hamas non è ancora stata annientata? Non è stata costretta nemmeno alla resa? La distruzione pressoché totale delle città della Striscia non è bastata a stanare tutti i terroristi? I tunnel in cui si muovono le Brigate Ezzedin al-Qassan non sono stati distrutti? Eppure quel lembo sottilissimo di terra tra il mare e il deserto è davvero esiguo in quanto a dimensioni. Vero è che vi stanno assiepati nella più torbida e tremenda disperazione quasi due milioni e mezzo di persone.

Ma Hamas può nascondersi così a lungo, rimanere inaccessibile alla precisione delle armi moderne, all’occhio dei centinaia di droni lanciati ogni giorno per scovare nelle case rimaste in piedi, tra le macerie che abbondano ovunque, altri terroristi? I capi sono stati ammazzati tutti: Haniyeh, Sinwar per Hamas, oltre a molti comandanti militari e membri del governo della Striscia, Nasrallah e praticamente tutta la sua corte di fanatici sciiti e antisemiti nel corso della guerra portata dallo Stato ebraico nel Libano del sud e a Beirut.

Non è sufficiente tutto questo per dichiarare che l’operazione criminale e genocidiaria contro il popolo palestinese è terminata? No, perché i partiti iper-religiosi che fanno parte del gabinetto di guerra di Netanyahu sognano la completa cacciata dei gazawiti dalla loro terra, nonché dalla Cisgiordania, l’espansione di nuovi insediamenti coloniali e la diaspora del popolo di Arafat nei paesi arabi circostanti. Se Netanyahu vuole rimanere saldamente al potere, dopo il movimento sussultorio del post-7 ottobre, seguito ai tanti scandali che lo hanno investito, ha bisogno del regime di guerra.

Di una guerra in cui gli obiettivi militari sono le propaggini iraniane nel Medio Oriente, ma in cui ancora si tentenna nel rispondere proprio a Teheran con un attacco su vasta scala che faccia il paio con il lancio di missili su Israele e con le minacce degli ayatollah al governo di Tel Aviv. La questione degli ostaggi, poi, non è per niente risolta. Ne rimangono in mano ad Hamas un centinaio. L’altra metà è praticamente morta. Pochissimi sono stati liberati.

Riesce davvero difficile pensare che uno degli eserciti più attrezzati al mondo non sia ancora stato in grado di andare casa per casa e stanare gli uomini di Hamas, piuttosto che far morire decine di migliaia di civili sotto le bombe dell’aviazione che hanno raso al suolo quasi tutto ciò che era bombardabile. Ad ogni obiezione che si muove, Israele risponde parlando di “scudi umani“, dei terroristi che li utilizzerebbero per proteggersi ed attaccare l’IDF. La stessa premessa è stata utilizzata nei giorni scorso quando sono state attaccate le basi della missione UNIFIL lungo la Linea blu al confine tra Libano e Israele.

Secondo Netanyahu e gli alti comandi dell’esercito, i soldati dell’ONU sarebbero complici di una condizione simile a quella degli ostaggi e della popolazione civile palestinese: avrebbero la funzione di stare, come scudi umani, tra l’esercito dello Stato ebraico e le truppe e le batterie missilistiche del Partito di Dio, favorendo così gli attacchi contro Israele. Peccato che nulla di tutto questo sia vero: i capi missione dell’UNIFIL hanno smentito che vi sia qualunque tipo di collaborazione con le parti in conflitto e che, prescidendo dalla loro volontà, i caschi blu abbiano indirettamente assunto una funzione simile.

I pretesti, si sa, in guerra sono utili e servono a giustificare soprattutto attacchi e mosse che altrimenti sarebbero molto difficili da giustificare. Ma Israele non ha bisogno di esibire nessuna giustificazione al mondo: l’attacco all’UNIFIL lo rende evidente. Il diritto internazionale, tanto per Tel Aviv quanto per Hamas ed Hezbollah è carta straccia. Non passa giorno in cui il governo israeliano non riversi sulle Nazioni Unite un quatitativo di insulti e di odio che è davvero difficile da assimilare e da analizzare.

Appena giunta la notizia della morte accidentale di Sinwar, il ministro degli esteri Katz ha sentenziato su Guterrez: non avrebbe gioito per la morte del terrorista. Di conseguenza se ne deduce che il Segretario generale dell’ONU è un antisionista e un antiebraico. Esattamente queste le parole. Questi anatemi rientrano in una dimensione tutt’altro che distopica del contesto in cui si muove il governo israeliano, come se fosse dentro una propria bolla, completamente distaccato dalla realtà globale in cui, lo voglia o no, è compreso e condizionato.

La logica di Netanyahu e dei suoi ministri ha assunto delle proporzioni di guerra che oltrepassano con nettezza i confini della vendetta per il 7 ottobre: non si poteva parlare già nei mesi successivi al massacro dei kibbutz di rappresaglia, perché era cristallino il fatto che la portata delle operazioni a Gaza sarebbe andata molto oltre la ricerca dei capi di Hamas. La punizione per quanto avvenuto è stata davvero sproporzionata e volutamente tale. Si è colpito un intero popolo e, per questo, non è inopportuno parlare e scrivere, come hanno fatto autorevoli governi e corti internazionali, di genocidio o di intento genocidiario.

L’apertura del fronte libanese ha, inoltre, lasciato presagire che Israele voglia trascinare il conflitto molto a lungo nel tempo e parallelamente a quello di Gaza e alle risposte militari contro l’Iran. Ma tutto fa intendere che dietro il piano del “nuovo ordine” di cui Netanyahu ha parlato all’ONU fin dal 2023, ben prima dei fatti del 7 ottobre, vi sia del resto un recondito sogno di espansione territoriale che viene apertamente negato nell’ufficialità dei comunicati, limitandosi (anche qui… si fa per dire…) alle dichiarazioni di una volontà politico-militare di annientamento delle proconsolarità iraniane in Palestina e a Gaza.

Difficile poter pensare, se si ragiona con un senno del prima che non lascia intravedere il poi, ad un dopoguerra per i territori invasi da Israele e per quelli occupati da oltre cinquant’anni indebitamente, contro le risolzioni dell’ONU che viene, oggi sfidata apertamente insieme a tutta la comunità internazionale. o scenario più probabile potrà essere una amministrazione militare di Tel Aviv tanto a Gaza quanto nel sud del Libano.

Cosa amministrerà Israele? La ricostruzione di un lembo di terra completamente raso al suolo, senza più infrastrutture, linee di comunicazione, servizi essenziali, luoghi dove poter ospitare quei milioni di palestinesi che, in realtà, vorrebbe espellere. La morte di Sinwar, accidentale o meno che sia stata, non può essere quindi la fine della guerra; perché questa è concepita per durare fino a quando la stabilità del governo di Netanyahu sarà possibile al di là dell’emergenza attuale. Quindi la ragione politica e quella militare obbediscono ad una linea espansionsita e colonizzatrice che si richiama al fanatismo religioso più intransigente.

Gli ebrei ultra ortodossi che fanno parte del governo premono per la depalestinizzazione della Palestina stessa. Per un’Israele grande, in cui la concezione religiosa dell’elezione sopra gli altri popoli torni ad essere centrale nella vita stessa dello Stato. La connotazione della guerra contro Hezbollah, del resto, molto differente da quella del 2006 che ebbe un esito piuttosto incerto e che lasciava pendere i piatti della bilancia più a favore della vittoria del Partito di Dio piuttosto che di quella israeliana, accresce di giorno in giorno le motivazioni che supportano questa analisi.

Se nella Striscia di Gaza non vi è praticamente nessun interesse economico rilevante, in Cisgiordania e nel sud del Libano si possono trovare risorse di gas e bacini idrici di notevole importanza. Quantunque anche nella piccola porzione di terra tra il deserto e il mare qualche traccia di giacimenti gasieri e petroliferi sembra esservi, soprattutto sul limitare della costa, peraltro già sotto il pieno controllo marino da parte dello Stato ebraico che non lascia nemmeno ai pescatori il poter fare il loro lavoro.

Si tratta di studi che meriterebbero maggiore approfondimento, ma in termini di diritto internazionale, se così fosse, ai palestinesi sono dunque state sottratte anche queste risorse. Gli obiettivi politici e militari, quindi, potrebbero includere una serie di mire economiche che darebbero sostanza alla tesi dell’espansionismo prettamente imperialista: l’unicità dello scopo che includerebbe la vendetta per il 7 ottobre, la stabilità del governo dell’estrema destra sionista e, in un ultimo ma non ultimo, l’interesse per materie prime essenziali per il rilancio dell’economia israeliana provata duramente dall’attuale fase di guerra.

Per raggiungere questi obiettivi, oggettivamente di lungo termine, Netanyahu ha bisogno di tenere alta la guardia e la tensione anche con l’Iran senza far precipitare il tutto in un conflitto che distrarrebbe da quelli che sono i fini ultimi (il “nuovo ordine” già citato, quindi un Israele forte in un Medio Oriente diviso nuovamente dalla ripresa dei “Patti di Abramo“). Ma la contraddizione emerge sempre più prepotentemente: più capi di Hamas ed Hezbollah vengono eliminati, più la necessità della guerra si sminuisce e scema di conseguenza.

La questione degli ostaggi rimane tutta sul terreno di una Striscia di Gaza in cui appare ormai in tutta la sua evidenza la mancata volontà del governo di Tel Aviv di occuparsene prioritariamente, tralasciando persino la caccia ai terroristi più ricercati. Appurato che la testa dei due movimenti islamici è stata fatta saltare, cosa impedisce all’IDF di penetrare più a fondo, evitando così nuovi bombardamenti indiscriminati, a tappeto, e molti altri morti civili tra i palestinesi, per liberare i cittadini di ISraele ancora in mano ad Hamas? Forse lo impedisce un ordine del governo che non arriva.

E se non arriva, è del tutto possibile che i motivi di questo mancato impegno stiano tutti nell’ipocrisia di un esecutivo che pretende di salvaguardare i suoi cittadini e che, invece, li lascia nelle mani dei terroristi perché, al netto delle proteste dei famigliari e di parte dell’opinione pubblica, il consenso per Netanyahu sta riprendendo quota proprio grazie all’espansione del conflitto e all’eliminazione dei grandi capi del fronte della resistenza capeggiato da Teheran.

Il tutto sta in una cornice di un cinismo veramente criminale, degno delle valutazioni della Corte penale internazionale dell’Aja e dei richiami – inascoltati e derisi – dell’ONU alle risoluzioni adottate tanto dal Consiglio di Sicurezza quanto dall’Assemblea generale. Ad Israele, poi, l’Occidente concede tutto quello che non concede ad altri Stati che invadono Stati altrettanto sovrani. Non si può qui aprire il capitolo Russia – Ucraina, ma è bene comunque ricordare sempre il doppio standard su cui viaggia l’etica politica degli Stati europei unitamente a quella della grande Repubblica stellata.

I piani israeliani proseguono. I morti palestinesi e libanesi aumentano. I terroristi resistono e onguno sta a guardare chi avrà la meglio su un lungo, lunghissimo periodo. Per disegnare un nuovo ordine anche in Medio Oriente, plasmato sugli antichi e più moderni imperialismi già sperimentati là dove si diceva di annientare il terrore e portare la democrazia: i costi in termini di vite umane si sono visti e i risultati ultimi, di abbandono repentino dell’Afghanistan in mano ai taliban, anche…

MARCO SFERINI

18 ottobre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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