Da dove potevano essere presi i soldi per finanziare una manovra di bilancio equa e a favore dei ceti più deboli della nostra società, lì non sono stati prelevati. Da dove, invece, non dovevano essere presi, lì si è attinto ed anche piuttosto abbondantemente: a pagare i conti della crisi economica, per rimanere entro i parametri tra debito pubblico e Prodotto interno lordo dettati dall’Unione Europea, saranno le voci dei capitoli riguardanti come sempre la spesa pubblica.
Apparentemente i tagli del 5% ai ministeri sembrano poca cosa, ma avranno un impatto non di esiguo conto sulle amministrazioni, sulle scuole, sugli uffici decentrati e su tutti i servizi che offrono alla cittadinanza. Parimenti, il governo Meloni sceglie di non tagliare di un centesimo la spesa per la difesa, caso mai qualcuno avesse avuto qualche dubbio in merito. L’impianto complessivo della manovra da trenta miliardi verte su una logica di prelievo dal basso e di tutela dell’alto.
Due miliardi e mezzo, si potrà obiettare, arriveranno dal rinvio del rimborso dei crediti di imposta bancari: un prestito quindi che, tra due anni, gli istituti potranno recuperare e quindi nulla di perduto, nessuna penalizzazione. Soddisfatta l’associazione di categoria, così come Confindustria perché dei centoventi miliardi di detrazioni degli sgravi fiscali soltanto uno farà parte del prelievo per il finanziamento della manovra di bilancio.
Il capitolo sanità è nuovamente dolente (caso mai, anche qui, qualcuno si fosse potuto far venire dei dubbi…): meno di un miliardo al settore. Briciole delle briciole per un sistema che fa acqua da tutte le parti e le cui inefficienze sono sopperite dalla logica del privato oltre che da una aziendalizzazione regionalista che, specie con l’autonomia differenziata calderoliana, andrà ancora più a regime e creerà venti sanità differenti per un unico Paese. Un absurdum che, però, non è purtroppo l’unico nella politica del governo.
Chiamano “sacrifici” i prestiti chiesti alle banche sotto forma di dilazione dei rimborsi, revisionando terminologie e pratiche di gestione economico-finanziaria dei grandi assi di sviluppo dell’Italia in piena fase di contabilità bellica, e uniformando la rivoluzione conservatrice del liberismo continentale ad un quadro della realtà nazionale che non prevede nessuna implementazione dei servizi, ma decurtazioni a tutta una rete di servizi che sono già ampiamente penalizzati dai precedenti interventi tecnici di Draghi.
C’è chi ha fatto due conti, essendo esperto della materia, e ha potuto ricavarne che, con una tassa su quei tanto famigerati extra-profitti ottenuti dalle grandissime imprese con la fase intra e post-Covid19, nonché sui grandi patrimoni (quindi su un monte di reddito-rendita di appena il 7% della popolazione italiana), si sarebbero potuti avere per la manovra finanziaria non trenta, ma trentasei miliardi tondi tondi. Non ci sarebbe stato bisogno di tagliare nessun bilancio ministeriale e la sanità, così come la scuola avrebbero potuto avere risorse davvero importanti.
Ma di tassare i ricchissimi non se ne parla. Un tempo si preservava anche il ceto medio, almeno fino a quando la medietà era data da una consistenza del reddito molto differente rispetto ai salari dei dipendenti del terzo settore o di quella che veniva, senza troppa paura di cadere nell’obsolescenza, chiamata ancora “classe lavoratrice“. Ora, invece, considerata la sempre maggiore concentrazione della ricchezza in mano di pochi e lo scivolamento di parte del ceto medio al piano delle classi meno abbienti e con sempre meno tutele, il governo può accanirsi anche nei suoi confronti.
Senza comunque allontanarsi molto dalle cifre appena sciorinate, sulla forbice enorme che si apre sempre più tra super ricchi e super poveri, i dati che l’ISTAT fornisce dicono di una realtà davvero impietosa su cui una manovra di bilancio come quella appena approvata dal Consiglio dei ministri cala come un colpo di mannaia. A stridere sono le carinerie riservate a banche e padronato, ad una parte delle consorterie economiche del Nord rispetto alla depressione storica e molto attuale del Sud.
Tutto si inserisce in un contesto di trasformazione istituzionale che prevede al centro lo Stato e ai margini la Repubblica. Non è una distinzione di lana caprina, come si potrebbe pensare. Si tratta della stessa diversificazione che è presente nella Costituzione: là dove si fa riferimento al primo quando si tratta del carattere prettamente istituzionale, mentre ci si richiama alla seconda quando si raggiunge la sintesi concettuale tra organizzazione ed interesse prettamente pubblico.
Le politiche liberiste praticate dai governi tanto di centrodestra quanto di centrosinistra, con differenti accentazioni ma con obiettivi molto simili, hanno creato le premesse affinché la platea del neopauperismo si allargasse a dismisura e ne venissero coinvolti, in un rapido processo di alterazione delle condizioni sociali, anche quei settori della popolazione che erano scampati alle ripercussioni della crisi perché tutelate da una serie di garanzia più istituzionali che direttamente sociali. La manovra di bilancio dell’anno secondo del governo Meloni inverte questa tendenza.
Conferma la direttrice principale e innesta in questa una serie di provvedimenti che, volutamente, non tengono conto del dilagare della povertà nuova associata a quella ormai tragicamente endemica. Mentre vi è un 7% di iper ricchissimi che potrebbero essere tassati a dovere e che, invece, pagano – in proporzione – meno di un lavoratore salariato stabile o di un rider precarissimo, di contro si registra un 8,5% di cittadini che è iper poverissimo. Si tratta di quasi sei milioni di italiani. La CGIL stima che, dal 2022 ad oggi, il dato sia salito quasi al 30% nelle famiglie straniere.
Quali le cause di tutto ciò? Quelle strutturali di un capitalismo di rapina e di una economia di guerra verso la quale vengono drenate tutte quelle risorse che potrebbero invece sostenere nuovi segmenti di tutela e di diminuzione dell’indigenza oggettiva: quella, ad esempio, che si rende evidente nella impossibilità per moltissime famiglie di pagare la mensa scolastica ai loro figli o comperare dei quaderni, delle matite. Nonché di mettere insieme pranzo e cena in uno stesso giorno.
Spesso ci si abitua alla tragica ripetizione delle notizie sulla povertà e la si considera, per l’appunto, un fenomeno congenito ad un sistema economico che la produce: una ineliminabilità, affidata ad una concezione plurimillenaria come alibi di un presente sempre più catastrofico sotto tutti i punti di vista. Giorgetti, chiosando tutte le citazioni numeriche della manovra, in chiusura della conferenza stampa precisa che con l’Italia ha definito con l’Unione Europea un accordo per estendere il piano strutturale di bilancio a sette anni.
Difficile poter ancora capire cosa conterrà, ma se le premesse sono le due manovre di bilancio messe a terra in questa legislatura, è del tutto evidente che una risposta verrà data dal governo seguendo tanto le direttive europee quanto la propria impostazione di carattere prettamente liberista e per niente patriotticamente nazionalista come invece vorrebbero far credere le forze di maggioranza. Questo rimane un Paese delle diseguaglianze. Un Paese in cui i ricchissimi, dall’inizio della pandemia ad oggi, hanno aumentato a dismisura i loro patrimoni: si stima nella percentuale del 46% in soli tre anni.
Non c’è nessuna logica sociale nel prelevare soldi alla pubblica amministrazione e nel non sottrarre a questi enormi cumuli di profitti e rendite una piccola parte degli interessi che ottengono da quelle banche che il governo vellica, ricordando loro che il prestito – “sacrificio” invocato da Giorgetti sarà reso nel giro di ventiquattro mesi. Non si può, comunque, definire tutto ciò una “ipocrisia“, perché questi sono i canoni ispiratori delle politiche antisociali di forze politiche che sposano in toto il modello del protezionismo per le imprese.
Il lavoro è e rimane una variabile dipendente che coinvolge decine di milioni di persone e, si sa, è nella grandezza del numero che può farsi largo la teorizzazione prima, e la messa in pratica poi, di un prelievo fiscale di bassa statura, reso quasi nei termini di un egualitarismo tipico di chi ha sempre magnificato l’IVA come imposta equanime, frutto di una imparzialità interclassista che, proprio per questo, veniva invece subita differentemente a seconda del reddito. Per Agnelli era una inezia, per i lavoratori un peso di non poco conto.
Dal suo insediamento, il governo Meloni ha tolto di mezzo le poche misure sociali che erano state introdotte dal Conte I e dal Conte II: tra tutte il reddito di cittadinanza divenuto un “assegno di inclusione“. Sempre il centro studi della CGIL ci permette di constatare che, mentre i percettori di almeno una mensilità del reddito erano 1.324.104 nuclei familiari, quelli dell’assegno appena citato sono 695.127 ( i dati sono riferiti ai primi semestri del 2023 e del 2024).
Ciò significa che, non solo si è ridotta la capacità di intervento nel contenimento delle ripercussione dell’economia di guerra sul piano strettamente sociale, ma che si sono create le premesse sostanziali affinché, da un cinico risparmio per le casse dello Stato, ne sia come conseguenza la compressione delle tutele minime per evitare che un milione e più di famiglie entri nella soglia della povertà di lungo corso. Si è così costretti a scegliere prodotti alimentari scadenti, a non curarsi, a non poter comperare beni di prima necessità, compresi gli indumenti.
Il governo vanta risultati nelle proprie esternazioni televisive e internettiane, dove il contraddittorio è pressoché assente, che riguardano la diminuzione del carico fiscale (per le banche e le imprese certamente…), la ridotta pressione proprio dell’imposta sul valore aggiunto (che, per effetto della compressione dei salari e delle pensioni, invece, si accresce di conseguenza) e una rinnovata fiducia nell’aumento dei posti di lavoro (quasi tutti precari e privi di organicità in un disegno di riassetto dell’economia che riguarda esclusivamente i privilegi imprenditoriali e non i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori).
La povertà viene trattata come sinonimo di nullafacentismo da una classe dirigente arrogante che utilizza lo Stato per i propri fini: di potere politico e di potere economico, viste i conflitti di interesse di certi ministri e i contenziosi con la giustizia che tutt’ora hanno aperti. La manovra di bilancio si inserisce nel quadro presente: dentro un tentativo di sovvertimento della struttura sociale e collaborativa della Repubblica. Dentro una premessa un tempo egualitaria e che, oggi, si vorrebbe alterare e trasformare in una competizione tra poveri e poveri, escludendo il reale conflitto di classe.
Questa manovra economica è la riproposizione di una logica imprenditoriale e iperliberista applicata ad una politica che, come contropartita per il suo rimanere saldamente a Palazzo Chigi, è pronta ad accondiscendere a qualunque richiesta dell’Europa bancaria così come del capitalismo italico. Nulla di nuovo sotto il cielo plumbeo dell’autunno poco caldo e che merita qualche sciopero generale. Dal lavoro alla scuola, passando per tutte quelle realtà che patiscono da tempo l’ipocrisia dei nuovi patrioti.
MARCO SFERINI
17 ottobre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria