La morale anarchica

Sia permessa una premessa. Di carattere un po’ personale. Ma, come per molti giovani studenti universitari, c’è stato un tempo in cui anche io ero stato piuttosto affascinato dall’ideale...

Sia permessa una premessa. Di carattere un po’ personale. Ma, come per molti giovani studenti universitari, c’è stato un tempo in cui anche io ero stato piuttosto affascinato dall’ideale anarchico. La capacità di mostrare la sua radicalissima rottura con tutto ciò che era prassi, prammatica, quotidianità del vivere dentro le maglie e i recinti perimetrali di un sistema che per la stragrande maggioranza delle persone altro non era se non la “normalità“, esercitava in un ventenne infatuato della res publica come qualcosa di afferente all’uguaglianza a tutto tondo, un tratto decisamente seducente.

L’anarchia come fine ultimo di una umanità che, in tre, quattro millenni di storia e di evoluzione, era arrivata alle soglie della modernità quasi attuale attraverso macellazioni di sé stessa con conflitti centenari, con guerre e abomini di ogni tipo: nel nome di Dio, nel nome di un re, di un imperatore, di un presidente piuttosto che di un altro. Nel nome di chiunque tranne che della giustizia intesa come elemento regolante una vita armoniosa e dinamica al tempo stesso, dialettica tanto sul terreno propriamente storico quanto su quello della prospettiva futura.

Parallelamente alle letture mazziniane ed anarchiche, però, si faceva spazio l’approfondimento dell’interpretazione marxiana di una società in cui, a ben vedere, era moldo difficile poter concepire il cambiamento abbattendo anzitutto l’espressione istituzionale del potere. C’era qualcosa di più che mi sfuggiva: gli anarchici mi dicevano che lo Stato andava combattuto e che, di conseguenza, ogni altra contraddizione del sistema capitalistico sarebbe di lì divenuta meno grazie alla rivoluzione. I comunisti, contrariamente, affermavano che bisognava lottare contro queste contraddizioni economico-strutturali anzitutto.

Non c’è voluto molto per convincermi o, per meglio dire, per rendermi conto che ciò che scrivevano Marx ed Engels rispondeva ad uno studio approfondito dei rapporti di forza tra le classi e che l’anarchia era possibile soltanto dopo aver messo fine al sistema di produzione capitalistico; quindi la direzione della lotta andava non in prima istanza contro la sovrastruttura statalista ma contro la più ampia base economico-finanziaria su cui tutto poi prendeva forma e anche sostanza. Abbandonai il mazzinianesimo per approdare quindi al marxismo e, successivamente, riconoscermi in un comunismo libertario di cui, ancora oggi, mi riconosco.

Ortossismi di ogni tempo e ortodossi di ogni tipo, intransigenti dell’una e dell’altra parte, alcuni anarchici tentarono di persuadermi che sbagliavo, che l’errore stava proprio nell’affermazione della sostituzione di un potere con un altro potere. Che, quindi, Marx sbagliava e che aveva ragione Bakunin. Altri compagni, comunisti di quelli che ancora guardavano alla bandiera rossa sul Cremlino (che di lì a poco sarebbe scesa dal pennone…), mi mettevano in guardia dal semplificazionismo libertario: bisognava essere duri e puri nel seguire i precetti di un dogmatismo letterario e politico di un socialismo reale piuttosto che ideale.

Non mi convinsero né gli uni né gli altri e, così, rimasi per lungo tempo in un ereticheggiante limbo delle sensazioni e dei turbamenti che, tradotti nelle linee politiche della miserevole politica italiana, si erano espressi nella mia adesione alla politica delle alleanze per trovare il punto di incisione maggiore nelle tentazioni già allora liberal-liberiste della sinistra moderata, così da spostarla il più possibile verso una landa piuttosto desolata di un riformismo attenuatore di ciò che poi si sarebbe imposto come tracciato delle privatizzazioni a tutto tondo e di allontanamento dal mondo del lavoro.

E qui finisce la premessa personale. Necessaria per spiegare come ci si possa far attraversare da più pulsioni politiche e morali che, senza contraddirsi troppo, regalano una simbiotica disposizione a considerare aspetti tanto dell’anarchismo quanto del comunismo come struttura portante di una cultura dell’alternativa molteplice e singolare al tempo stesso. Tra le letture anarchiche di quegli anni di università, mentre il Muro di Berlino crollava impietosamente sotto i colpi dei picconi di chi sognava la libertà che il capitalismo gli avrebbe portato (sigh… sigh…), ce n’era una che portavo con me, insieme a “Il Manifesto del Partito comunista“. Si trattava de “La morale anarchica” di Petr Kropotkin.

Pubblicata anche oggi – per l’appunto come ieri… – da case editrici minori, è un agevolissimo piccolo libriccino che si pone anzitutto l’interrogativo di quale sia la morale che debba uniformare o influenzare o, più banalmente, ispirare i nostri comportamenti: tanto nei confronti di noi stessi quanto in quelli di chi ci circonda e ci sta intorno. Kropotkin era un principe russo che aveva accesso alla corte imperiale degli zar e che era stato costretto, proprio per via del suo antichissimo casato, ad essere cimabellano e ad appuntarsi numerose decorazioni al petto per questo. Ma la sua indole lo aveva portato, in giovanissima età, a studi geografico-geologici in Siberia. Studiò a fondo i ghiacciai della Finlandia e viaggiò molto.

Tornato a Pietroburgo lo elessero membro e poi segretario della Società geografica. Ma un’altra grande passione lo avrebbe preso di lì a poco: quella per la causa degli sfruttati, di coloro che stavano ai margini della società e che non avevano più niente da perdere se non, come avevano pochi decenni prima scritto Marx ed Engels nel “Manifesto“, le loro catene. Lui, aristocratico di somma eccellenza, passò anni nelle prigioni russe dopo la delazione di un operaio comprato dalla polizia, che lo denunciò, riconoscendolo come il “Borodin” che vagava per le campagne e le città a parlare di socialismo e di liberazione dallo sfruttamento.

In questi discorsi che teneva vi era, tra gli argomenti che trattava con una semplicità oratoria davvero eccellente, il tema della morale, quindi del comportamento e delle relazioni interpersonali nel mondo che si conosceva, vecchio e decrepito ma pur sempre ancora esistente e imperante, e una società in cui quanto allora era noto e considerato normale, naturale e incontrovertibile, sarebbe invece stato rovesciato e completamente capovolto. Siamo sul finire dell’Ottocento, in decenni in cui – scrive Kropotkin – i giovani russi iniziano a farsi delle domande un tempo impensabili.

Forse non troppo dissimilmente da me nei primi tempi dell’università, ma cento anni prima, i ragazzi che vivono a Pietroburgo e a Mosca sperimentano il fenomeno della critica radicale che emerge dal bisogno di un rapporto dialettico con l’esistente. Le mutazioni in Europa, del resto, si fanno sentire anche più ad est ed arrivano, proprio attraverso la propaganda clandestina e la propalazione anarchica, socialista e comunista, nonché di circoli radicali e repubblicani, fin dentro le scuole, le università e viaggiano di bocca in bocca, di mente in mente, dalle grandi città ai piccolissimi centri rurali del vasto territorio russo.

«Se mi ripugna di essere immorale, mi sforzerò di esserlo, come da fanciullo mi sforzavo a non temere l’oscurità, i cimiteri, i fantasmi, i morti, di cui mi si inspirava il timore». Così, dice il principe rosso, ragionano i ragazzi della nuova Russia che ancora non si vede all’orizzonte. C’è un sentimento di ribellione che emerge nella stagnazione di una società stanca, aggrappata ancora ad un medievalismo che cede molto lentamente il passo ad un modernismo europeizzante ed occidentalizzatore. E queste re-pulsioni della gioventù trovano una sintesi nella domanda: «Perché dovei essere morale?» nel momento in cui proprio questa morale è la quintessenza di ciò che non seno di dover essere?

Vecchi timori e reverenzialità, eredità di un passato che faceva della tradizione familistica il primo gradino della scala di obbedienza nei confronti del potere costituito millenariamente, sono così messi in forse: perché prima di tutto ci si rende conto che alle fondamenta di tutto ciò sta la coltivazione dell’elemento fobico, della paura a tutti i costi che reprime gli istinti, che esercita il preconcetto e il pregiudizio come se fossero dei presupposti di una ingenuità che, invece della consapevolezza razionale degli eventi e dei fatti, deve essere mantenuta perché nulla cambi e tutto rimanga come è.

Kropotkin non usa mezzi termini e accomuna, pur distinguendoli per provenienza storica (ed anche politica), tutti i pensieri mistificanti la verità oggettiva dell’esistenza: una somma di elucubrazioni metafisiche, mitizzanti il male, rendendolo personificato nelle figure tanto del demonio quanto del mondo ultraterreno in cui si sarebbe finiti se si fosse fatto proprio quel male. Preti, magistrati e funzionari di Stato sono messi tutti in un’unica associazione a delinquere contro la libertà del proletariato, contro quella di un servaggio della gleba che in Russia esiste ancora in quel finire dell’Ottocento. La fine della vecchia morale presuppone la nascita di una nuova condizione sociale dell’umanità.

Qui l’anarchismo kropotkiano incontra l’analisi marxiana sulla struttura economica: infatti gli anarchici non negano gli effetti del sistema capitalistico, ma antepongono, strategicamente verso il fine rivoluzionario, la lotta allo Stato rispetto a quella per la trasformazione economica mediante l’assunzione del potere statale stesso per fare delle masse le nuove classi dirigenti nel periodo di transizione dal capitalismo al socialismo. La stessa analisi della morale imperante, dei condizionamenti che esercita su ciascuno e su tutti, è ricondotta anzitutto alla ricerca del piacere e delle passioni.

Mentre Marx sostiene – ed a ragione, a nostro modesto avviso – che la condizione sociale dell’inidividuo innesca la sua espressione morale, intellettuale, persino spirituale. Dall'”essere sociale” viene costituendosi l'”essere singolare“, quindi è l’insieme del prodotto economico di massa a far sì prenda vita e cambi, di volta in volta, la morale stessa, l’etica e, così, cambino anche le leggi e i regolamenti che sono il prodotto della sovrastruttura statale. Kropotkin si concentra sulla repressione, sulle punizioni che arrivano quando non si segue la morale prestabilita. Marx, invece, colloca questa discussione entro il funzionamento del sistema capitalistico.

Non che l’anarchismo astragga il tutto, pensando di poter risolvere le questioni etiche prescindendo da quelle materiali e dai rapporti di forza tra le classi. Ma l’impronta culturale del pensiero libertario antepone la lotta all’autorità rispetto alla lotta al capitale, perché fa discendere la seconda dalla prima e, così facendo, perde di vista l’essenza stessa della contraddizione che è insita in ogni comportamento umano che, di conseguenza, si riflette sugli animali e sull’interità della Natura. Leggendo “La morale anarchica” ci si rende conto che si è innanzi ad un saggio più che altro filosofico-politico.

Kropotkin, del resto, si propone di analizzare i mutamenti dell’etica nel corso dei secoli per giungere ad una critica moderna che includa, ovviamente, anche l’analisi sociale e, quindi, la questione economica nella più complessa dinamica dei rapporti tra vertice del potere e base delle comunità che avevano tratti molto comuni in paesi molto differenti fra loro. Elemento sociale, culturale, religioso, filosofico e antropologico si mescolano nel continuo domandarsi il grado di esistenza dell’idea di bene e di male nell’umanità.

Si mescolano nel cercare una sintetizzazione dei comportamenti che permetta di comprendere meglio le ragioni di questi stessi e approda ad una conclusione che non è definitiva e risolutva, ma che gli pare riscontrabile dopo aver tanto studiato, osservato di persona nei suoi viaggi e, quindi, dal valore meramente “scientifico“: «L’uomo, qualunque sia il grado di sviluppo intellettuale che abbia raggiunto, per quanto siano state annebbiate le sue idee dai pregiudizii e dall’interesse personale, considera generalmente come bene ciò che è utile alla società nella quale vive, e male ciò che ad essa è nocivo».

Riprendendo quando si sosteneva all’inizio di queste righe, anarchismo e comunismo non sono poi così distanti fra loro. Per questo, dopo tanti anni, posso ancora pensarmi come un comunista libertario e provare ad esserlo giorno dopo giorno: unendo all’analisi scientifica marxiana il filosofeggiare anarchico. Il fine ultimo, del resto, è il raggiungimento dell’uguaglianza sociale che, quindi, è uguaglianza anche morale, ma non uniformità. La libera espressione dell’individuo può avvenire soltanto nella libera esistenza di una società che non reprime ma comprende, che non esclude ma include.

Per essere praticamente e politicamente comunisti e mentalmente, culturalmente libertari.

LA MORALE ANARCHICA
PËTR KROPOTKIN
EDIZIONI CLANDESTINE
€ 8,00

MARCO SFERINI

16 ottobre 2024

foto tratta da Wikipedia


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