La partita di Stellantis non cambia: Tavares bussa a denari

Quando parlano i dirigenti delle grandi aziende viene quasi sempre fuori la quintessenza del capitalismo. In questo caso, quello moderno che, oramai, è molto lontano dalla sua primordiale manifestazione...

Quando parlano i dirigenti delle grandi aziende viene quasi sempre fuori la quintessenza del capitalismo. In questo caso, quello moderno che, oramai, è molto lontano dalla sua primordiale manifestazione sette-ottocentesca. Il rimbalzo nel secolo breve è il primo salto su un trampolino che porterà il sistema delle merci e dello sfruttamento all’estensione globale, dopo che l’Europa avrà cancellato ogni spazio bianco sulle mappe geopolitiche.

La conquista del mondo termina in quanto ad occupazione dei territori un tempo sconosciuti, ma è da lì che inizia la lotta delle potenze transnazionali, del colonialismo di nuova portata, della fase imperialista che si giova delle guerre come braccio politico e militare per estendere domini prima di allora impensabili da raggiungere. Dunque, il capitalismo di oggi, che sembra aver imparato parecchio dalle crisi cicliche che ha vissuto e fatto patire a miliardi di esseri umani (e non), per sopravvivere deve alzare il tiro.

Lo fa polarizzandosi, concorrenzializzando la produzione della ricchezza nei diversi agglomerati continentali e, tanto più nelle multinazionali che sono sparse in differenti luoghi del pianeta, nelle loro tattiche industriali e nelle scelte dei consigli di amministrazione, si può leggere abbastanza chiaramente l’indirizzo che intende seguire. Il caso di Stellantis è, da questo punto di vista, emblematico e paradigmatico. L’azienda di Detroit, in crisi di mercato da alcuni anni, non intende toccare Carlos Tavares.

Mentre una serie di ritocchi al resto della composizione della dirigenza andrebbero a rafforzare proprio il ruolo dell’amministratore delegato che, in audizione presso la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica, non nasconde nulla dei tatticismi che ha in mente la testa del capitalismo del mercato dell’automobile per fronteggiare una crisi verticale tanto del titolo borsistico quanto della produzione in Italia: Mirafiori, Melfi e Pomigliano denunciano da tempo un precipitare dei volumi e il fatto che i lavoratori sono impiegati pochi giorni al mese.

Lo scorso luglio – sono dati de “Il Sole 24 Ore“, confermati da dichiarazioni stesse di Stellantis – i lavoratori degli stabilimenti italiani hanno lavorato pochissime giornate (cinque, sei al massimo) e, passato agosto, la ripetizione di queste turnazioni ridottissime si è ripresentata a settembre. La condizione sottoproduttiva di Mirafiori sembra, oggettivamente, quella più preoccupante visto che le nuove linee produttive della 500 ibrida sembrano spalmarsi su un tempo troppo lungo per poter reggere l’attuale crisi di contrazione dei volumi (oltre il 60%, il che significa nemmeno ventimila auto prodotte in un semestre).

Tavares non nega l’enormità del problema, ma rovescia le carte in tavola ed accusa, sindacati, lavoratori e Parlamento italiano di essergli contro e di non voler sostenere quello che – dal punto di vista padronale – è uno sforzo nell’interesse comune, mica per salvare i profitti mediante altre prebende di Stato. Ed è proprio quello che l’amministratore delegato è venuto a chiedere, confermando la lunga storia della FIAT che è sempre sopravvissuta grazie a miliardi di lire prima e di euro poi per rimanere a galla.

Il rischio di impresa, quando non viene derubricato ad accidente di percorso, quasi escluso dalle possibilità che il capitalismo possa incappare in errori, quindi in grossolani azzardi finanziari e speculazioni che ingrassano i dividendi ma impoveriscono sempre di più le maestranze, lo si evoca per rimarcare che ognuno fa la sua parte e che, quindi, tutti rischiano. Anche gli imprenditori. Perché, si sa, anche i ricchi piangono.

Nessuno avrebbe scommesso il contrario rispetto alle richieste di nuove sovvenzioni pubbliche per Stellantis in Italia. Tutti sapevano che sarebbe andata così. Perché la crisi del settore viene da un recente passato: rimanendo un po’ più vicini all’oggi, nel 2023 si registrava un calo produttivo del 30%. La previsione per l’anno in corso è, calcolata ovviamente al gennaio 2025, pare debba non solo confermare, ma anzi aumentare la percentuale citata. Il ricorso alla cassa integrazione verrà quindi prolungato e dal 13 ottobre al 1° novembre la produzione sarà nuovamente sospesa.

Ma di copertura delle perdite, che hanno una ricaduta enorme sulle lavoratrici e sui lavoratori, sulle loro famiglie e sull’intera economia italiana, non sono ancora state previste e il governo di Giorgia Meloni non ha mosso ad oggi un dito per fare ad esempio ciò che ha fatto quello francese, ossia utilizzare meglio la golden power, entrare nell’azionariato e stabilire una quota di controllo pubblico dell’azienda.

Alla crisi verticale del settore automobilisto ed elettronico (perché gli indotti soffrono tanto quanto i centri di grande produzione e questa duplice instabilità finisce per aumentare il disagio dell’intera filiera). Non va meglio in altri stabilimenti di Stellantis al Sud: ad Atessa, che conta circa cinquemila operai, i comunicati aziendali parlano di “crisi del mercato” e quindi di un necessario, prolungatissimo ricorso (da giugno!) agli ammortizzatori sociali.

La crisi di questi ampi comparti è il sintomo di una crisi sempre più grande dell’intero sistema che, anzitutto, si riverbera sulle fasce più deboli, su miliardi di salariati che dipendono dagli andamenti produttivi di settori saturi perché la domanda cala in conseguenza della sempre maggiore difficoltà ad affrontare anche soltanto i bisogni primari dell’esistenza. Le contraddizioni del capitalismo qui vengono a galla una per una: i tagli alla spesa nei singoli Stati – molto più in Italia rispetto ad altri paesi europei – impediscono la circolarità economica.

La drammatica situazione internazionale del mercato dell’automobile, e di larghissima parte degli indotti citati e delle filiere produttive annesse e connesse, risente ancora oggi di una demotivazione pandemica che ha fiaccato il settore a partire dal 2020 quando in Europa già si avvertivano i primi segnali della retrocessione: due milioni e mezzo di immatricolazioni di auto in meno rispetto agli anni precedenti.

Avrà o no voluto significare qualcosa. Senza che questo possa rappresentare un alibi sufficiente per scelte oggettivamente sbagliate, il biennio pandemico ha aggiunto il suo carico. E dal principio di quella crisi sanitaria globale il mercato si è praticamente incagliato su sé stesso, facendo registrare crolli della produzione del 20/25% annui. Non c’è bisogno di andare molto indietro nel tempo per trovare fenomeni simili di crisi così prolungate. La storia ci dice che questi accumuli spingono la competizione all’eccesso.

Fanno sì, quindi, che la lotta tra i comparti del mercato, fra le diverse grandissime industrie, divenga così spietata da oltrepassare le leggi stesse della concorrenza e a tentare il tutto per tutto per sopravvivere in una competizione acerrima. Nell’audizione presso le Camere del Parlamento italiano, Tavares non ha fanno mistero nemmeno di questo: l’espansione dei flussi di esportazione dalla Cina esplicita una salute meno cagionevole del capitalismo occidentale ma, comunque, attenta alle ricadute possibili del mercato già saturo nella parte di mondo in cui la direzione dei commerci si orienta.

Mentre però i margini di profitto cresono negli Stati Uniti (e in larga parte anche in Cina), in Europa questo virtuosismo dal fiato corto non lo si registra minimamente e le previsioni di crescita sono oggi ancora meno rosee rispetto a sei mesi fa.  Tavares bussa alla porta del governo e chiede soldi per evitare le delocalizzazioni. Il motivo non è nuovo, la musica è sempre la stessa e il disco si è praticamente rotto. Oltre alle tasche degli operai che sono completamente bucate, con una cassa integrazione che non basta a coprire le esigenze più basilari della quotidianità.

La drammaticità colossale del problema si rivela tale nel momento in cui anche l’amministatore delegato di Stellantis parla con toni tutt’altro che rassicuranti, definendo questa fase come un «momento darwiniano per l’industria dell’auto». Qui più che all’evoluzione della specie siamo all’involuzione di un comparto che mostra tutti i limiti di una economia che non può pensare di proseguire ancora per decenni nella produzione classica: la conversione dei piani però deve andare di pari passo con una rete di tutele che, ad oggi, non è nemmeno stata ipotizzata.

E non è che la dismissione del settore automotive di Stellantis faccia riferimento agli ultimi mesi, quelli del semetre citato in cui gli stop lavorativi si sono avvicendati senza soluzione di continuità per settimane e settimane: tutto questo va avanti da anni e nessun governo può fare finta di non sapere. Il 2035 viene evocato come data in cui si potrà parlare di una produzione libera dal carbone (sarebbe quella che l’azienda chiama “Carbon Net Zero“).

Nella fase globale dell’economia di guerra e di una crisi climatica che determina una serie di parametri divenuti irrinunciabili e non procrastinabili per la sopravvivenza del capitalismo stesso che, in quanto tale, è la contraddizione massima proprio per l’ecosistema e quindi impedisce la stessa applicazione delle misure che dovrebbero garantirne la salvezza di entrambi, il disperato tentativo è quello di evitare il tracollo, a discapito, senza nemmeno dirlo, della grande massa dei salariati.

Dalle parole di Tavares si può comprendere la potenza della crisi strutturale di un capitale del XXI secolo che non intende invertire la rotta nemmeno davanti allo spettro della sua possibile distruzione in tempi relativamente brevi. L’incentivazione della domanda da cosa è data? Dalla possibilità per miliardi di persone di poter acquistare nuovi beni dopo aver soddisfatto i bisogni essenziali. Ma se non è possibile, oggi, nemmeno accedere ai più, elementari diritti e servizi per la sopravvivenza, come si può ritenre che una famiglia cambi auto così come i manager cambiamo cravatte, orologi e abiti?

Continuiamo a vivere in mondi diversi, pur stando sulla medesima terra. Ed è proprio qui che si può riconoscere il volto dello spettro di una lotta di classe mai finita: mentre Stellantis da un lato minaccia le delocalizzazioni e attribuisce la colpa di tutto ai regolamenti europei e alla visione egoistica di sindacati e lavoratori, dall’altro tende la mano per avere nuovi finanziamenti di Stato. Soldi di noi tutte e tutti. Soldi pubblici per salvarsi da scelte private veramente disastrose.

Ma manca tutto da parte imprenditoriale: manca un piano industriale, nonostante Tavares sbandieri due foglietti affidati alle valutazioni dei parlamentari che, però, sono avvisati del fatto che le rimostranze mosse dai rappresentanti dei lavoratori hanno già fatto fare marcia indietro all’azienda sull’elettrico. Si tratta di «nuovi modelli per gli stabilimenti italiani che ho consegnato ai sindacati, che hanno reagito come voi e così lo abbiamo cambiato con più modelli rimasti endotermici e ibridi».

Quindi nulla di nuovo, nessuna concreta volontà di cambiamento del regime produttivo ma soltanto una richiesta di stabilità dalle istituzione come fedeli soldatini a guardia del bidone (è proprio il caso di dirlo). Evocare la rivoluzione non serve a granché, ma praticarla iniziando a sostenere attivamente tutte le organizzazioni delle lavoratrici e dei lavoratori per fare in modo di costringere Stellantis ed altre grandi aziende a scendere a patti e a seguire nuove direttrici di impiego degli stabilimenti, è necessario.

Riesce però difficile ritenere che questa lotta, che è contro una grande multinazionale del settore, possa essere – almeno a livello europeo – condotta senza che la richiesta primaria sia quella di un piano di reindustrializzazione di respiro continentale e non solamente nazionale. Quindi, ne consegue, che la sinistra europea e i sindacati devono procedere di pari passo per unire le rivendicazioni operaie, per legare le esigenze e stabilire un comune terreno di rivendicazione di nuovi diritti.

Tavares viene a bussare denaro alle porte del Parlamento italiano. Ma dovrebbe trovare non solo chiuso quest’uscio, ma tutti quelli delle assemblee nazionali di ogni Stato dell’Unione. Compreso il consesso di Strasburgo. Bisogna spostare l’asse della questione dalle lotte mercatiste alla politica dell’Europa. Forse sembrerà impossibile, ma un tentativo, anzi una lotta in questa direzione non può non essere fatta da chi si definisce anche solo timidamente “progressista“.

MARCO SFERINI

12 ottobre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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