Morte della democrazia israeliana nel fortilizio permanente

«A Gaza i bambini vivono nel sangue. È come in Giappone 80 anni fa» Toshiyuki Mimaki, rappresentante di Nihon Hidankyo, associazione per il disarmo nucleare fondata dai superstiti di...

«A Gaza i bambini vivono nel sangue. È come in Giappone 80 anni fa»
Toshiyuki Mimaki, rappresentante di Nihon Hidankyo, associazione per il disarmo nucleare fondata dai superstiti di Hiroshima e Nagasaki

Non bisogna certamente essere degli esperti di politica internazionale per capire la chiarezza del messaggio: le cannonate israeliane contro la base UNIFIL a Naqoura, nell’estremo sud del Libano, sono il biglietto da visita di chi intende fare piazza pulita non solo di Hezbollah ma anche della presenza delle Nazioni Unite vista come testimone scomodo di tutte quelle atrocità che un esercito prossimamente occupante potrà perpetrare anche nel Paese dei Cedri.

Il desertificante scenario di Gaza, rasa al suolo da nord a sud della striscia, è l’epifenomeno piuttosto inquietante e mortifero che si prospetta dietro ogni soldato di Tsahal, sulla scia di ogni bombardiere e nel volo di ogni drone che spia, osserva, riferisce e poi torna in forze a colpire. Israele non è nuovo ad attacchi contro basi, accampamenti, edifici di rappresentanza dell’ONU. Da Gaza alla Cisgiordania per arrivare, appunto al Libano.

Ma gli spari e le cannonate contro la missione di interposizione nella “Linea blu” al confine tra i due Stati perennemente in guerra, mutano il quadro più complessivo di una serie di rapporti internazionali che, proprio perché diretti contro soldati appartenenti a singole nazioni che partecipano alle missioni prestandoli al Palazzo di Vetro e facendone quindi dei caschi blu, aprono contenzioni politici, diplomatici e financo militari bilaterali.

Nell’area sono presenti contingenti irlandesi, italiani (la Brigata Sassari) e soldati di molte altre nazioni. Tra cui quelli indonesiani che sono rimasti feriti dagli spari di Tsahal. Adesso, si interrogano un po’ retoricamente alcuni commentatori, anche i più certi sostenitori della linea di difesa di Israele dal terrorismo e del suo diritto di rispondere agli attacchi di Hamas, Hezbollah, Houthi e iraniani, si renderanno conto che la politica dello Stato ebraico non è limitata a ciò.

Governo e maggioranza meloniana non si stracciano di certo le vesti, ma riconoscono la gravità estrema dell’atto: attaccare le truppe italiane nel contesto della missione ONU è al limite del “crimine di guerra“, si spinge a dichiarare Crosetto. Ma Tajani non convoca l’ambasciatore israeliano che, invece, viene chiamato a colloquio dal ministro della Difesa.

La domanda che bisognerebbe fare al diplomatico di Tel Aviv è: cosa intende essere davvero Israele in questo frangente? Può una democrazia liberale, l’unica che si considera tale nel contesto mediorientale, arrivare a tanto? Domanda ingenua. Perché la risposta è: sì, può farlo proprio perché agisce esattamente come ogni altro Stato che viene dall’Occidente “civile” definito “canaglia“. Quindi in spregio al diritto internazionale e alle risoluzioni dell’ONU.

Ed anche in questo caso, Israele non tradisce la sua coerenza ben radicata nella storia quasi centenaria del suo essere divenuto Stato del popolo ebraico. Non si contano quasi più tutte le direttive votate dal Consiglio di Sicurezza e quelle approvate dall’Assemblea generale, disattese apertamente e platealmente. Non ultima, l’accusa rivolta da Benjamin Netanyahu all’intera ONU di essere un ricettacolo di antisemiti che sostengono il terrorismo.

Quando la verità viene così disarcionata, presa in prestito per diventare bassa propaganda a copertura di una serie di crimini di guerre e contro l’umanità, qualunque altra parola, dichiarazione o anche patto scritto firmato da leader di questa risma non ha nessun valore.

Netanyahu, che in patria è in netta risalita nel consenso popolare, nonostante gli ostaggi nelle mani di Hamas non siano ancora stati liberati (e questo la dice molto lunga sulle ampollose e tronfie esclamazioni alla Knesset e in televisione sulla sconfitta totale dell’organizzazione islamica e il suo annientamento…), mostra una prepotenza che mette insieme direzione politica e tattica militare: il peggio che l’imperialismo espansionista del moderno sionismo possa esprimere.

Un concentrato di disprezzo per gli altri popoli, tipico di chi si ritiene tutt’oggi “eletto” rispetto al resto del mondo e pratica un razzismo religioso-antropologico che affonda le sue radici in un trimillenarismo obsoleto, incapace di coniugarsi con i dettami di una vera concezione democratica e liberale tanto del Novecento quanto del nuovo millennio.

L’attacco alla base UNIFIL si combina con la messa a punto dei piani per l’intervento militare su vasta scala contro l’Iran, in risposta ai lanci di missili su Israele come ritorsione per la morte di Nasrallah. Tutto, purtroppo, si tiene molto tragicamente in una spirale di punti e contrappunti che non ha fine perché di guerra già, nei fatti, si tratta. Netanyahu preme per fare in modo che l’aumento qualitativo (nonché quantitativo) delle offensive e dei morti spinga Teheran a muoversi più decisamente.

La presenza dell’ONU nella regione è, quindi, un impiccio che Israele vuole levarsi di torno e, infatti, i suoi mezzi militari oscurano le telecamere e le torrette di avvistamento delle basi, colpiscono i centri di comunicazione. Bisogna, quindi, fare in modo che il mondo sappia il meno possibile di quello che verrà fatto in Libano nelle prossime settimane. Le azioni si moltiplicheranno e penetreranno sempre più nel territorio controllato da Hezbollah.

Lo spostamento dell’attenzione da Gaza alla questione libanese è ormai così consolidato da non avere quasi più notizie dai mass media ufficiali, dai grandi canali televisivi così come dai giornali. Ogni giorno nella Striscia si continua a morire, ma tutto ciò non fa più notizia. Dopo quarantaduemila morti e centinaia di migliaia di feriti, ora la seconda cinica conta è quella dei civili e dei militari assassinati oltre i confini nord di Israele.

La politica del gabinetto di guerra, emergenziale quanto si vuole, segue comunque l’obiettivo di una rimodulazione compiuta del posizionamento strategico di Israele nella regione: quando i fronti di guerra si placheranno e i conflitti saranno, almeno militarmente, superati, rimarrà la grande questione della ripresa o meno dei “Patti di Abramo“. Ma su questa incognita peserà, e non poco, l’eventuale trasformazione dell’Iran in qualcosa d’altro rispetto a ciò che è oggi.

Anche ipotizzando che lo Stato ebraico riesca ad eliminare una volta per tutte le minacce di Hamas e di Hezbollah, sul terreno del confronto internazionale permarranno tutte quelle incongruenze che fino ad oggi sono state in parte una deterrenza per evitare quello che è accaduto a Gaza (in seguito al 7 ottobre, ma non solo…), ed in parte uno dei pretesti affinché l’azione israeliana si spingesse molto oltre quel diritto di giustizia che esigeva al principio il solo pensiero della strage perpetrata nei kibbutz ed al rave party nel deserto.

Se le previsioni degli esperti saranno confermate, i piani militari di Tel Aviv intendono trattare il Libano meridionale così come hanno trattato Gaza, Khan Yunis e Rafah. Magari con un potenziale distruttivo meno impattante, ma proseguendo oltre la Linea blu per demilitarizzare (e quindi distruggere) le milizie di Hezbollah entro quaranta, cinquanta chilometri dal confine settentrionale di Israele. Questo significa, in pratica, un terzo del Libano sotto occupazione fino al fiume Litani.

Se davvero sono questi gli obiettivi, si riesce ancora meglio a definire l’attacco nei confronti della base di Naqoura: non sarà il primo e nemmeno l’ultimo atto aggressivo contro l’ONU e le sue truppe di interposizione. Ma questa prospettiva non è poi così immediata come si possa ritenere: certo, le IDF sono ben equipaggiate ed addestrate, con tanti bei miliardi arrivati dalla Repubblica stellata (soltanto in queste ultime settimane, circa diciotto dall’amministrazione democratica di Biden…), ma anche Hezbollah non difetta sotto questi punti di vista.

E, in più, le truppe del Partito di Dio conoscono a menadito il territorio: se Israele non è riuscito, in un anno di guerra devastatrice e genocidiaria, ad eliminare Hamas, si può anche solo ipotizzare che riesca ad avere ragione di una forza politica e militare che ha una storia, una strutturazione e una serie di contatti e collegamenti molto più radicati e forti della milizia islamista di Gaza? L’eliminazione della catena di comando di Hezbollah sarà sufficiente a depotenziarne anche l’ossatura e la rigida muscolatura brigatista?

Lo scenario non segue una logica predefinita, perché i condizionamenti sono molteplici e sono il frutto di una intersezione di conflitti su fronti aperti da Israele in contemporanea. Fronti che coinvolgono ora palestinesi, Hezbollah, Houthi e Iran, ora invece Libano, i pasdaran e le loro basi in Siria, ovviamente Teheran e l’insieme del mondo sciita che si sente sotto quello che, riprendendo una formula inflazionata durante le guerre contro il terrorismo qaedista, è un “attacco alla civiltà“.

Qui intesa come elemento costitutivo dell’essenza di interi popoli e non come elemento di superiorità morale di una parte del mondo verso il resto dello stesso. Dopo l’attacco del primo ottobre contro Israele, l’Iran attende la rappresaglia israeliana: sui siti nucleari? La telefonata tra Biden e Netanyahu parrebbe smentire questo scenario davvero inquietante ed apocalittico. Contro i siti energetici, le centrali che alimentano i centri di produzione nucleare?

Oppure contro obiettivi militari, ad esempio le basi da dove partono i missili (che sono comunque su postazioni mobili…)? I quesiti rimarranno tali fino alla prova della risposta che, giurano dal gabinetto di guerra, sarà su vasta scala, inattesa e colpirà dove meno gli iraniani si aspetteranno. Siamo in presenza di una dinamica tattica: i due nemici si studiano, si scrutano, si provocano ma nessuno per ora fa il passo più lungo della gamba, per evitare una esacerbazione del conflitto che avrebbe conseguenze davvero disastrose per l’intero Medio Oriente.

Ma, tanto quanto con la guerra in Libano, che rischia il logoramento, quanto con quella a Gaza, dove si rischia il pantano, così pure con il tatticismo nei confronti dell’Iran, Israele rischia di trovarsi circondato dai suoi stessi fronti che non non hanno una risoluzione cronologica: non è detto che il primo di questi, aperto dopo la strage del 7 ottobre 2023, sia anche il primo ad essere chiuso.

La concatenazione degli eventi dice esattamente il contrario e ci parla di un attacco ad Hamas che è divenuto, via via, sempre più un pretesto per fare di Israele finalmente la potenza egemone nel Medio Oriente, con nuovi rapporti da redigere un giorno su altrettanto nuovi patti abramitici, sbarazzandosi della questione palestinese (e quindi dei palestinesi stessi…), regolando i conti con Hezbollah e con l’Iran. Adesso l’attacco alla base dell’ONU viene definito dall’esercito di Tel Aviv come un “incidente“.

Ed anche questa pantomima non fa che confermare la pianificazione di un progetto espansionista che ha il triplice scopo di: mettere in sicurezza Israele dal punto di vista militare; creare una società fortemente nazionalizzata e fanaticamente sionista; assicurare allo Stato ebraico il ruolo di intermediario economico-finanziario nell’area.

Più che una democrazia, Israele è e sarà una base militare, un fortilizio dell’imperialismo occidentale che oggi, a partire dagli Stati Uniti, sembra andare al traino della politica criminale del gabinetto di guerra di Netanyahu e Gantz. Nonostante tutte le divergenze riscontrabili sull’imminente attacco all’Iran in seno al governo, la tattica non cambia e la strategia nemmeno.

MARCO SFERINI

11 ottobre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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