Tra le molte definizioni che possiamo attribuire al pensiero di Anselmo d’Aosta, ve ne è una che risulta evidente come uguale e contraria a quanto sostiene nelle sue dissertazioni tra ragione e fede e nell’esplicitazione della prova ontologica dell’esistenza di Dio nel “Proslogium“: non siamo di fronte ad un tentativo di teleologizzazione, di finalismo, di affermazione delle verità rivelate e di un creazionismo dell’Alto Medioevo.
Perché colui che, oltre ad essere un raffinato intellettuale e studioso, fu anche arcivescovo di Canterbury, riteneva – da sincero credente e da amante della sapienza – che non fosse necessario comprendere per avere fede, ma anzitutto possedere quest’ultima per ottenere le chiavi interpretative dell’esistente, dell’essenza dello stesso, della simbiosi quindi tra concetto e realtà in una pluridimensionalità comunque contemplabile nell’unicità del tutto e, quindi, alla fine di Dio.
Trattato con superficialità in molti corsi scolastici, soprattutto per quella che viene scambiata come una semplicistica e banale prova dell’esistenza del Padreterno, ridotta ad una sottigliezza sofistica, ad un ragionamento più affidato all’ipotesi che alla dimostrazione della stessa, il pensiero di Anselmo è invece degno di essere indagato a fondo, perché, tenendo criticamente conto del suo complessivo contesto culturale, del suo mondo clericale e delle sue convinzioni, al netto di ciò ci si avventura in una straordinaria dinamica dialettica che affascina e coinvolge.
La razionalità, come espressione qualitativa dell’individuo, che è quindi parte del “Creato“, ottiene un posto nella filosofia dei secoli X e XI che non le sarà riservato con tanta onesta disinvoltura e apertura mentale. Intendiamoci: Anselmo mette avanti l’argomento chiaro, inflessibile e non negoziabile della verità di fede. Ciò che la Chiesa cattolica afferma è la verità e non si discute. Ma allora di cosa vuole discutere il nostro arcivescovo? Di ciò che viene definito “intellectus fidei“, dell'”intelligenza della fede“.
La fede è il presupposto inaggirabile: si parte dal credere in Dio per poter comprendere la vita, l’esistenza, il mondo che ci circonda, l’Universo. La ragione non viene messa sullo stesso piano della credenza sincera e spontanea in Dio. Ne è al servizio, pur essendo in grado di criticare la Scrittura, il dettato ecclesiastico e ogni dogma presupponibile ed anche solo immaginabile. In realtà, seguendo l’interpretazione fideistica di Anselmo si finirebbe per non credere se si ha un po’ di rispetto per la razionalità.
Ma, il fascino delle sue dissertazioni, tanto nel “Monologium” quanto nel Proslogium precedentemente citato, permette di superare le tentazioni ateistiche ed agnostiche che avrebbero, appunto ragione da vendere, e provare ad apprezzare gli sforzi che fece quest’uomo di fede cui piaceva cercare le “rationes necessariae” dei dati della fede medesima e non assumere l’inspiegabile su di sé come un semplice atto di cieca devozione.
L’esclusione del teleologismo come tratto prevalente della filosofia di Anselmo, che pure include il principio unico, primo e assoluto nella figura pensata e (dunque) per lui anche reale di Dio, non è aprioristica ma conseguenza degli studi che vengono fatti e che uniformano il suo pensiero pur non ponendolo sotto la facile categorizzazione della ricerca della finalizzazione divina. Per il semplice motivo che, questa sì, è aprioristica nel senso che è insita nella cultura teologica dell’arcivescovo.
Il religioso che è uomo non può non porsi, da credente in Dio, la questione del rapporto tra ragione e fede e, entro questa, della ratio delle argomentazioni che la supportano. La dimostrazione dell’esistenza del Creatore risente, se positivamente o meno si lascia alla singola valutazione, di un influsso neoplatonico e agostiniano per cui nell’interità dell’esistente e, nel nostro particolare, del mondo, esiste una gradazione della perfezione o, se vogliamo dirla con meno ipotetica presunzione, vi è una diversa percezione della perfettibilità.
Per cui, se noi sentiamo e viviamo questa scala qualitativa di valori che, messi insieme, formano una certa idea della perfezione, il cui massimo esprimibile e insuperabile è Dio stesso, ciò vuol significare che tutto si tiene in una relazione indissolubile con il Creatore stesso, ente praticamente perfetto senza ulteriori aggettivazioni o circostanziazioni.
Come si possa tradurre razionalmente questa serie di assunti teologici è uno degli enigmi dell’antichità che per primo Anselmo si pone, in relazione naturalmente ai suoi stessi pensieri; ma anche in riferimento a tutta una sequela di interrogativi che sono venuti spontanei all’essere umano nel momento in cui ha, nella notte dei tempi, sentito il bisogno di formulare l’ipotesi-dio per dare un senso alla propria esistenza e a tutto ciò che lo circondava.
La finalizzazione è al centro di una questione molto più ampia che è la risolvibilità di una incognita destinta, purtroppo, a rimanere tale. O forse per fortuna. Anche qui dipende dai punti di vista e dal rapporto che si mantiene tra esistenza, essenza, osservazione e condivisione tra sé stessi e ciò che ci circonda. La molteplicità delle emozioni, a questo proposito, viene elaborata da Anselmo soprattutto per quanto concerne il concetto di “bene“.
Così come la perfezione per eccellenza è Dio e si trasfonde nel Creato, altrettanto si deve e si può dire del bene. Sommo bene è la divinità, diverse gradazioni di bene sono interpretate da noi animali umani in un mondo in cui esiste una dose di violenza anche nella natura e che non è, per questo, di per sé negativa. Partecipa ad un insieme complesso di fattori che creano un equilibrio armonico attribuito all’emanazione dall’alto al basso o dal perfetto al perfettibile.
Perfezione e bontà sono quindi qualità non proprie di Dio, ma solo tali perché Dio le esprime nella realizzazione giorno dopo giorno, e fuori dallo schema mentale umano di un tempo infinito a cui è impedita una piena comprensione dell’estensione senza punti di partenza e di approdo. Se queste caratteristiche della divinità sono insuperabili, a partire dalla loro concezione mentale affidata all’imperfezione nostra, ne consegue che l’esistenza di Dio è non solo pensabile ma tale perché reale.
Il Dio che esisterebbe solo nella nostra mente sarebbe “inferiore” al Dio esistente tanto nei nostri pensieri quanto nella realtà. Quindi Dio non può che essere tanto idea nostra quanto realtà che la ispira. Questo primo periodo della Scolastica afferma dunque, seguendo le orme di Agostino, una originaria unità tra fede e ragione, perché la perfezione sta nel vicendevole scambio che possono avere, riconoscendo l’una all’altra capacità di approfondimento dei valori e della sostanziale verità che ne deriverebbe.
Per Anselmo e i filosofi cristiani vissuti tra l’XI e il XII secolo è chiaro che non c’è altra verità se non quella della Chiesa e che il necessario presupposto di tutto è Dio. La ragione viene presa in considerazione entro questo che, oggi, criticamente, potremmo definire un “recinto fideistico” e che non è, nonostante quello che se ne potrebbe indebitamente dedurre, un luogo chiuso della mente di un ecclesiastico che non ha preso a pretesto dei dogmi per esserlo, ma si è continuamente messo in discussione.
Il metodo dialettico scelto da Anselmo gli impedisce di cadere preda della totalità di un rigorismo intellettivo profondamente acritico e tutto dedito all’applicazione socio-antropologica delle Scritture e dell’interpretazione data dalla Chiesa di Roma. Anselmo invece sceglie la dialettica per mettersi in discussione, senza ritenere di dover abiurare nulla, perché non vi è antiteticità tra fede e ragione, ma compenetrazione, come abbiamo scritto poco sopra.
Ma anche in quanto uomo di fede e di ragione. L’importanza di Anselmo, oltre le caricature liceali che ne vengono fatte tramite aneddoti imprecisi e riferimenti tutt’altro che storici, risiede in questo particolare atteggiamento davanti tanto al passato quanto al futuro di un mondo che lui comprende solo nell’essenza cristiana del verbum Dei, nella parola mediata dalla Chiesa ma che, nonostante tutto, non è chiuso a ragionamenti ad adiuvandum.
Di certo non minori rispetto al Proslogium ed al Monologium, opere come il De veritate, il De libertate arbitrii e il De casu diaboli, tre dialoghi che vanno a formare la cosiddetta “trilogia della libertà“, mostrano la multiversalità del metodo descrittivo di Anselmo in una cornice che mescola questioni di fede e propensioni dialettiche nel dibattito aperto proprio nel processo di elaborazione della filosofia cristiana. Il tema dell’etica, così come quello della razionalità, rispetto alla centralità del carattere religioso dell’esistenza, non viene sottovalutato, ma reso dipendente da quest’ultimo.
Il platonismo qui emerge in tutta la sua evidenza: tanto dalla forma dialogica, scelta per parlare di tematiche tutt’altro che semplici da risolvere, o comunque provarci, in forma di trattato o di dissertazione, quanto nel merito delle questioni che Anselmo pone e si pone. Il dialogo è prima di tutto con sé stesso ma è rivolto al di fuori di sé nella misura in cui riconosce l’universalità dei temi che vuole approfondire. Grandi questioni che attraversano i millenni, come “la Verità” con la vu maiuscola.
Qui c’è un tratteggio di teleologismo, proprio dove l’arcivescovo amplia lo spettro delle verità entro una finalizzazione che punta sempre e comunque verso la volontà divina che si esprime nella realtà. Tra linguaggio e concretezza dell’esistente deve esistere una correlazione. Nulla è lasciato al caso o alle coincidenze, perché ogni descrizione di ciò che è avviene non nei limiti ma nelle possibilità che sono state date dal Creatore al tutto e al singolo al tempo stesso.
Ciò che noi affermiamo “deve” necessariamente esprimere la realtà che, per questo è verità. Non lo diviene, ma lo è già. Noi non facciamo altro se non scoprire di continuo che ci troviamo innanzi a tante verità in quanto esprimibili, comprensibili nell’essere reali, esistenti per volontà divina. Similmente, il problema del “male” nel mondo viene affrontato sfuggendo alle contraddizioni tra l’esistenza dello stesso e la volontà di Dio.
Perché il Creatore permette l’esistenza del male? Anselmo se la cava affermando che i punti di vista possono essere molti e che, quindi, di per sé il male non è necessariamente soltanto tale. La matrice dogmatica si sente più qui che in altri scritti del teologo, perché più appariscente è la tensione contraddittoria che viene fuori se si pensa a Dio come all’essere indubitabilmente buono, amoroso a cui tutto il bene tende e da cui tutto il bene viene. Ma Anselmo, alla fine, sintetizza: Dio può permettere che esista il male senza fare male a nessuno.
L’uomo, in fondo, per Anselmo, preso singolarmente è dedito al peccato e non può che cadere tra le grinfie del male. Soltanto nella comunione degli spiriti in una società in cui la libertà non è scelta tra bene e, appunto, male, ma adeguamento di sé stessi al giusto che è diretta emanazione divina. Ecco la radice dogmatica della teologia anselmiana che si esprime qui con una torsione di forza necessaria per oltrepassare le obiezioni che renderebbero il discorso ancora più lungo e, quindi, irrisolvibile.
Se Anselmo mostra, almeno a noi, qualche cedimento banalizzante non è sul tentativo di provare l’esistenza di Dio, semmai su quello di comprendere il male del mondo nell’interità del Creato e nell’amore dell’onnipotenza impenetrabile dalla ragione umana e contemplabile solo mediante la fede.
Il problema che però ci interessava evidenziare qui era non tanto quello delle argomentazioni presentate da Anselmo su etica, religione e ragione; semmai sulla necessità di rivalutare l’importanza di un pensiero che, per quanto appaia poco libero e molto imbrigliato nei pesanti magli della dottrina ecclesiale dell’epoca, ha saputo passare i secoli e mostrarsi come fine, dettagliato, per niente affidato alle verità di fede soltanto, ma ad un rapporto di interazione con la razionalità.
Anselmo non sfugge (perché non vuole sfuggire, da sincero credente) al rigore della fede, ma non vi si lascia nemmeno completamente inghiottire. E questo fa di lui un teologo cattolico percorso da una profonda voglia di conoscenza dai contorni neoplatonici ed agostiniani: alla ricerca di una qualche spiegazione per le inquietudini che attraversano l’animo umano quando si trova davanti al mistero dell’esistenza, alla proposta soluzione del Dio Creatore e ai tanti, giusti e, questi sì, sacrosanti interrogativi che la Ragione si pone e si continuerà a porre.
MARCO SFERINI
13 ottobre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria