Tanti nuovi cittadini italiani, per una universalità dei diritti

Cittadino. Citoyen. Scritta e letta in francese il suono della parola ricorda l’origine moderna del termine, del concetto stesso di una nuova condivisione comunitaria dei diritti e dei doveri....

Cittadino. Citoyen. Scritta e letta in francese il suono della parola ricorda l’origine moderna del termine, del concetto stesso di una nuova condivisione comunitaria dei diritti e dei doveri. Una rivoluzione, per l’appunto. Due secoli e mezzo fa, all’incirca, nella Parigi dei tre Stati, i più diseredati e miserevoli, uniti al ceto borghese, univano le loro forze per scalzare l’aristocrazia e il clero dai troni e dagli altari di privilegi millenari.

La Rivoluzione proclamava all’Europa e al mondo che ogni uomo, donna e ogni cittadino e cittadina da quel momento in avanti avrebbe dovuto avere le stesse prerogative per poter vivere in modo dignitoso. Le distinzioni sociali non sarebbero state dovute ad altro se non all’utilità comune. Il capriccio nobiliare, il concetto di predestinazione divina nel ricoprire tanto un ruolo regale quanto quello di un pontefice, veniva superato dalla comunione tra specialità singolare di ciascuno e interesse collettivo.

Da sudditi, dunque, a cittadini. Poi, certo, il processo rivoluzionario non poté giungere fino a quella punta estrema di rivendicazione sociale giacobina che era vista dal ceto medio borghese come una minaccia per nuovi privilegi (di classe) che si sarebbero andati consolidando con lo svilppo del capitalismo continentale e mondiale. Ma questa, se vogliamo, è un’altra storia che, pur essendo parallelamente precedente, immanente e conseguente a quanto stiamo per scrivere, merita delle considerazioni a parte.

Qui si vuole soltanto ricordare, e connettere all’odierna modernità della nostra Italia in salsa meloniana, che la conquista del diritto di cittadinanza non è un dato storicamente datato al tempo dei tempi, ma ha origini piuttosto recenti, se consideriamo il cammino umano nella sua completezza. Ciò significa che, come è facile constatare studiando proprio la Storia con la esse maiuscola, tutta una serie di diritti che noi diamo per acquisiti ad una civiltà che ci pare incontrovertibile, sono, a ben vedere, dei punti di arrivo di un lungo e travagliato percorso.

Nel momento in cui la Rivoluzione francese si avvicenda su sé stessa in un lunghissimo e al tempo stesso velocissimo lustro, in tutto il mondo è contemplata, accettata e sostenuta la schiavitù dei negri o dei popoli giudicati inferiori. L’Europa conquista il mondo e lo sottomette ai suoi valori o, per meglio dire, ai suoi interessi. Che interi ceti sociali ed anche dirigenti Stati ed economie non ne siano pienamente consapevoli, è un aspetto secondario: Marx proprio su questo punto, concernente la consapevolezza da parte umana del progresso storico, è lapidario.

Avviene per la spinta di rapporti di forza che si determinano in un insieme di fattori in cui la convergenza è data sempre dalla comunanza degli interessi di una data classe sociale. Il diritto di cittadinanza prende quindi il largo nell’epopea moderna dell’umanità nel momento in cui la borghesia rompe gli argini della medievalità e apre a sé stessa gli infiniti orizzonti del principio della globalizzazione dei mercati.

I diritti civili ed umani, dunque, sono sovrastrutturalmente dipendenti dai diritti sociali; per questo ogni lotta che si fa nel nome del progresso del mondo del lavoro, contro ogni sfruttamento, è automaticamente una lotta per tutti i diritti civili, per tutti i diritti umani (e magari dovrebbe anche esserlo – in una nuova accezione comunistica – per i diritti di tutti gli altri animali ed esseri viventi). Il legame profondo tra l’emancipazione sociale e quella civile risulta ancora oggi uno dei cardini dello sviluppo nel suo complesso.

Il mondo sindacale sembra essere piuttosto consapevole del ruolo che ricopre nella rivendicazione di un parterre di diritti su cui, necessariamente, trovano implementazione altri momenti di libertà precedentemente inesprimibili. Ed è proprio dalle organizzazioni del movimento operaio prima e del lavoro in senso lato poi che hanno preso corpo, almeno in questi ultimi decenni, le più civili battaglie per una socialità differente, per una Italia che si vorrebbe adeguata agli standard delle democrazie storicamente consolidate.

Se pensiamo al nostro Paese oggi, la prima cosa che ci salta in mente è un revanchismo di destra che si sta prendendo gioco della Costituzione, della Repubblica parlamentare, del rapporto tra i territori e la centralità dello Stato e, quindi, di un insieme di diritti che sono al tempo stesso quelli che si vivono in una fabbrica o in un qualunque altro posto di lavoro così come quelli che riguardano la vivibilità dell’esistenza oltre i cancelli e le porte del proprio posto occupazionale.

Tra questi diritti c’è, per l’appunto, quello di cittadinanza che dovrebbe riguardare non solo i nativi nella Repubblica (prescindendo dall’autoctonia) ma anche tutte quelle persone che risiedono in Italia da un po’ di anni e sono divenute loro stesse parte di un ambiente economico-sociale, culturale e civile proprio del vivere qui nel Bel Paese. Dobbiamo, riaffermando il diritto di cittadinanza, provare a capovolgere anche quel concetto di “integrazione” che è alla base di una sorta di rivendicazione primordiale nostra verso coloro che dovrebbero venire “verso noi“.

Questo procedere da un punto esterno verso uno interno è, già di per sé, una esigenza non necessaria da stabilire legalmente: perché l’integrazione dovrebbe essere non un processo di uniformalizzazione, di omologazione, di forcocaudinismo del nuovo millennio, ma una presa di consapevolezza dell’altro da noi che sceglie di condividere liberamente una parte o tutta quella che chiamiamo “la nostra cultura“. Siamo così presi, da una narrazione gretta e solenne al tempo stesso, riguardante le “radici” da cui proveniamo, che dimentichiamo il futuro.

L’Italia del futuro non può essere una nazione in cui servono dieci anni di soggiorno legale ininterrotto per avere la cittadinanza. Si fa tempo a morire e intanto tutta una serie di diritti, connessi con quello citato, non possono essere estesi nemmeno ai figli dei residenti da un lustro e più. Se davvero abbiamo a cuore i princìpi costituzionali e una concezione laicamente repubblicana del Paese, non possiamo non notare come le sfide della modernità impongano una riflessione sul rapporto tra l’essere umani e l’essere cittadini.

Sappiamo benissimo che non è con uno slancio rivoluzionario alla francese che conquisteremo nuovi diritti per tutte e per tutti. Ma, proprio perché abbiamo convenuto che il legame tra i diritti è vicendevole e non esiste una soluzione di continuità, l’estrema importanza della costruzione fattiva di una opposizione civile e sociale al governo Meloni passa anche dall’affermazione del quesito referendario proposto alla firma delle elettrici e degli elettori di domani che sono cittadine e cittadini dell’oggi. Ci sono circa due milioni e mezzo di persone che vivono da tanto tempo in Italia e non hanno i diritti che abbiamo noi autoctoni.

In nessun paese dell’Unione Europea si attendono dieci anni per poter avere la cittadinanza. Il punto è che, purtroppo, forze di destra (e di centro) ci propinano la narrazione della “concessione” della stessa. Ma se si parla di diritto, e se questo diritto non è universale, allora sarà sempre inevitabile una ricaduta nella altalenante illogicità dei privilegi. Magari non come al tempo della Rivoluzione francese, ma comunque sia di ineguaglianza manifesta almeno si potrà e si dovrà parlare.

Due milioni e mezzo di persone ogni giorno contribuiscono alla ricchezza della nazione: da lavoratrici e lavoratori sfruttati al pari dei già italiani, se non peggio quando si tratta di occupazioni che rasentano lo schiavismo e la mercificazione totale della persona. Ma questi aspetti non vengono presi in considerazione nei dibattiti sul diritto di cittadinanza. Il punto discorsivo da cui si parte è il “concedere” quello che ammettiamo essere un “diritto” per chi vive, lavora, studia nello Stivale. La destra si richiama all'”italianità” come ad una sommatoria di caratteristiche fisiognomiche, linguistiche, culturali e magari anche religiose.

Ma l’essere italiani deve voler dire condividere l’esistenza in questo Paese e non rispondere ai tratti somatici della maggioranza della popolazione. Indubbiamente, se guardiamo alla storia d’Italia, noi siamo bianchi. Ma proveniamo da un rimescolamento di popolazioni che nei millenni hanno dato luogo a quell’italianità che alcuni generali ed ex secessionisti vorrebbero come un carattere immutabile di sé medesima.

Tra mille anni, se esisterà ancora l’Italia, gli italiani di oggi saranno visti così come i romani dei tempi di Costantino vedevano le prime tribù accampatesi intorno al Tevere. L’umanità si fa e si rifà senza interruzione, con processi dialettici e mutazioni che sono propri dei cambiamenti strutturali che, a loro volta, ispirano quelli sovrastrutturali. La propaganda esclusivista delle destre vorrebbe imporre una connessione tra nazionalismo e cittadinanza, forzando l’espressione tanto dell’uno quanto dell’altro presupposto.

Ma la cittadinanza è un valore universale, che trascende i confini, le patrie, i paesi. Appartenere ad una comunità, prima di tutto, dovrebbe poter significare essere di complemento tanto all’insieme dei soggetti con cui ci si relaziona quanto a sé stessi. La vicendevolezza, lo scambio che ne deriverebbe non farebbe altro se non arricchire quel pluralismo sociale, civile, morale e culturale che non è l’assassino delle identità tanto rivendicate dalle forze conservatrici, quanto invece la premessa della nascita di nuove nazioni, intese proprio nell’accezione contemporanea (relativamente alla Storia propriamente intesa).

Quindi, l’importanza della raccolta delle firme per il referendum sulla cittadinanza è, alla luce di tutto quanto qui scritto, estremamente rilevante. Non si tratta di una lotta di secondo livello, da mettere sullo sfondo rispetto agli urgenti interventi di mobilitazione sociale contro le politiche del governo Meloni. Tutto procede di pari passo. L’invito è a completare questa raccolta firme, a sostenere il referendum, a fare sì che domani l’Italia di oggi sia migliore di quella in cui tutte e tutti noi stiamo provando a sopravvivere.

MARCO SFERINI

24 settembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

categorie
Marco Sferini

altri articoli