Vicendevoli fragilità e forze nella contesa mediorientale

È degna del migliore film di spionaggio degli ultimi anni: una vera storia di spie, di servizi segreti, di infiltrazioni e missioni sotto copertura: il risultato è la trasformazione...

È degna del migliore film di spionaggio degli ultimi anni: una vera storia di spie, di servizi segreti, di infiltrazioni e missioni sotto copertura: il risultato è la trasformazione della guerra convenzionalmente conosciuta fino a qualche decennio fa in altro. Per definizione, i conflitti armati sono, su vasta scala, confronti violenti tra gli Stati o, comunque, tra questi e altri poteri che intendono rappresentare dei popoli, delle culture, delle religioni e degli interessi – nemmeno a dirlo – prettamente economici e finanziari.

Ma, a partire dagli anni novanta del secolo scorso, proprio le grandi potenze, che cercavano un ruolo nella ridefinizione globale delle alleanze in una geopolitica completamente nuova e in via di assestamento, hanno introdotto un concetto differente di guerra: la si è chiamata “classica” se ancora si poteva incasellare nei parametri novecenteschi; la si è definita “moderna” se utilizzava, pur in senso classico, armamenti del tutto nuovi e mai sperimentati prima: armi di distruzione di massa, solitamente chimiche e batteriologiche; la si è postulata come “asimmetrica” se la sproporzione di forze era oggettivamente grande.

E, infine, si è sentito parlare di guerra “non convenzionale“, portata avanti attraverso metodi e circostanze atte a mettere in essere tutta una serie di tentativi di sobillazione popolare e di quintocolonnismo, per così dire, “di massa”. In genere con azioni di persuasione psicologica, di logoramento tanto materiale quanto ideale di intere comunità che, alla fine, si ribellano ai loro governi e facilitano la fine delle ostilità in favore del nemico.

Non sappiamo ancora se, nel caso della questione israelo-palestinese, possiamo inserire il tassello del non convenzionalismo per quanto concerne il fronte che, pare, si stia per aprire con Hezbollah e con il Libano. Un po’ perché Beirut viene, volutamente, sempre tenuta in disparte, quasi non considerata nella pluridecennale guerra non dichiarata tra lo Stato ebraico e il Partito di Dio rappresentato da Nasrallah. Ed un po’ perché lo scopo di Israele (e quindi di Netanyahu) sembra, mano a mano che il tempo trascorre, quello di vellicare la risposta iraniana piuttosto che quella delle milizie islamiste.

Nonostante gli omicidi mirati di alti membri dell’esercito e della diplomazia di Teheran, compiuti tanto sul suolo siriano quanto su quello libico, al momento il regime degli ayatollah mantiene un profilo basso: risponde con attacchi per interposta organizzazione (quindi con lanci di missili da parte di Hezebollah verso il nord di Israele) e si limita a minacce di futuri interventi armati su vasta scala. Di cui, però (e per fortuna), al momento non è dato assistere.

Certo, il ferimento di migliaia di miliziani e di civili attuato con l’esplosione dei cercapersone e dei walkie talkie, si può e si deve in qualche modo considerare un atto, più che di guerra, di vero e proprio terrorismo. Non è una strategia a lungo raggio, ma la tattica che uniforma questi attacchi che violano le più elementari convenzioni che regolano le guerre disvela un intento destabilizzatore su vasta scala e che, probabilmente, è la precondizione per l’apertura di un secondo fronte di guerra nella regione mediorientale tra Israele e i suoi nemici.

Gli interrogativi che si sono posti gli analisti, tanto informatici quanto bellici, hanno riguardato la preparazione di due operazioni di questo tipo. I più esperti in questi settori affermano senza tema di smentita che non si è trattato di un attacco pirata, di una intromissione nei sistemi informatici dei dispositivi mobili che ha consentito il surriscaldamento delle batterie e la loro esplosione. Troppe variabili dipendenti dalla singolarità di ogni telefono o cercapersone: condizioni ambientali, usura degli stessi apparecchi, differente utilizzo, e così via.

Piuttosto, si propende per l’ipotesi dell’inserimento in migliaia di dispositivi di piccoli quantitativi di tetranitrato di pentaeritrite (Petn), un esplosivo che è noto per essere quasi irrilevabile dai sensori di controllo nei porti e negli aeroporti. Pare evidente che, per preparare una operazione di questa natura, occorra del tempo e non la si possa pensare a ridosso di un conflitto che si intende far scoppiare nell’immediato. Se è vero che Hezbollah da qualche mese sospettava intromissioni israeliane nei suoi sistemi di comunicazione e sicurezza, è altrettanto possibile che Tel Aviv abbia subodorato il fallimento e abbia dato ordine di far esplodere gli ordigni.

Ad Israele si consente tutto, si permette tutto nel nome della difesa dei propri cittadini dal terrorismo: ma come chiamare altrimenti questi attacchi non convenzionali che coinvolgono migliaia di civili inermi e incolpevoli di qualunque conflitto e guerra in corso? Non è forse anche questo un atto in cui il terrore è l’elemento chiave? L’impatto psicologico è devastante tanto quanto lo sono le deflagrazioni degli ordigni dove erano nascosti poche decine di grammi di esplosivo. Nessuno può sentirsi più al sicuro in Libano, Siria, persino in Iraq, se ha un telefonino, un cercapersone o un walkie talkie in mano o addosso.

Mettendo insieme i pezzi di questo puzzle della destabilizzazione regionale e globale, è sempre più facile la traduzione del tutto su un piano di strategia politico-militare tesa a mantenere una stabilità del governo Netanyahu almeno fino a dopo le elezioni presidenziali statunitensi. Washington, nonostante i piani di Biden per addivenire ad una tregua, ha continuato a rifornire di armi Israele, foraggiandone le casse, posizionando le sue navi al largo di Gaza e facendo da scudo allo Stato ebraico contro qualunque attacco iraniano o di altra provenienza.

Obiettivo primario è la “coalizione dei resistenti” sciiti e antisionisti che deve essere spezzata per rimettere in auge la potenzialità dei “patti di Abramo” iniziati da Trump e proseguiti dall’attuale inquilino della Casa Bianca. Gli attacchi mossi da Tel Aviv contro le ambasciate iraniane, contro i comandanti di Hamas (si pensi, tra tutti, all’assassinio di Hanieh), contro le comunità meridionali libanesi, oltre alla genocidiaria guerra contro i palestinesi a Gaza e, in buona parte, anche nell’azione repressiva colonica in Cisgiordania, sono i contorni sempre più evidenti di un progetto di guerra contro l’Iran.

Ma per poter fare questo, Israele ha bisogno dell’appoggio pieno della Casa Bianca. E fino a che il voto non avrà risolto il dilemma su chi sarà il prossimo presidente, la procrastinazione a media intensità della guerra su più fronti è l’esercitazione attuale per la grande guerra di domani. Perché i conflitti servono anche a questo: a tenere in piedi governi di emergenza che altrimenti sarebbero già sprofondati e ridotti a brandelli dal calpestio delle marce popolari di quanti ormai si oppongono con risolutezza alle politiche di Netanyahu, Gantz e dei loro fanatici amici della destra iper-religiosa che vuole il “grande Israele” al posto della Palestina.

Il nostro governo non ha speso una parola contro gli atti terroristici di Israele nei confronti della popolazione civile libanese, siriana ed irachena. Per le destre si tratta di legittime ritorsioni in chiave difensiva da parte di chi ha, da solo, il diritto di proteggersi nel nome di un 7 ottobre che, quasi dopo un anno, è sepolto sotto oltre quarantacinquemila morti a Gaza, distruzioni di intere città e invasioni di altre terre palestinesi nella Cisgiordania che è, a tutti gli effetti, un terzo fronte. L’ipocrisia dell’Occidente vive nella narrazione della protezione dei grandi valori democratici contro le tirannie mediorientali.

Eppure, un paese che ha un governo tutt’altro che democratico, la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, fa parte della NATO e, al contempo, ospita uffici e capi politici di Hamas. La complessità delle vicende mediorientali riflette tutte le storture di un multipolarismo in cui versa la globalizzazione moderna: se scoppiasse un conflitto tra Iran e Israele, una vera e propria guerra (anche non dichiarata) e se si aprisse senza più tergiversare il fronte libanese, c’è qualcuno che potrebbe puntare scommettendo che ne rimarrebbero fuori Russia e Stati Uniti? Nessun giocatore d’azzardo sarebbe così pazzo da fare una puntata simile.

Perché dietro all’Iran c’è comunque l’asse dei paesi anti-americani e dietro ad Israele c’è Washington con tutta la sua rete di alleati. Ma la NATO combatte – seppure non convenzionalmente “per procura” – una guerra contro Mosca sul territorio ucraino e, quindi, per essere anche latamente coinvolta in un altra area del mondo dovrebbe impiegare risorse, uomini e armamenti che vogliono dire una nuova corsa al riarmo, nuovi finanziamenti da parte degli Stati aderenti e una distrazione, chissà quanto “temporanea”, dal contesto europeo.

Non dimentichiamo inoltre che le basi più vicine si trovano in una Turchia tutt’altro che ostile ad Hamas e alla causa palestinese nel suo complesso. Quindi si complicherebbe qualunque possibilità di intervento “difensivo” verso paesi dell’Alleanza stessa. Ma, in fondo, questo ruolo lo possono esercitare gli Stati Uniti direttamente, utilizzando anche supporti logistici del patto nordatlantico, ma agendo in prima persona come alleati privilegiati di Israele. La risposta di Hezbollah non tarderà ad arrivare: il duplice attacco israeliano ha umiliato la famosa impermeabilità del Partito di Dio a qualunque azione spionistica.

Se alle minacce di Nasrallah seguiranno rappresaglie su vasta scala, ciò potrebbe significare offrire il fianco a ciò che il governo Netanyahu aspira: la guerra senza più tentennamenti, senza più infingimenti. L’ammassamento di truppe di Tsahal al confine col Libano lascia presagire anche una possibile invasione di terra che si dimostrerebbe un bagno di sangue uguale, se non peggiore, a quello di Gaza. Non va nemmeno scordato che Hamas non è stato spazzato via, come pretendeva di propagandare il premier israeliano.

Se nella Striscia tutt’ora si combatte e non si liberano gli ostaggi, ciò puo voler dire due cose: che c’è una oggettiva impossibilità a terminare la guerra, oppure che vi è un intento governativo nel protrarla per le ragioni descritte poco sopra. Oppure, ancora, entrambe queste ipotesi si compenetrano e divengono un rebus irrisolvibile per Netanyahu che, quindi, si trova in un circolo vizioso di cui egli stesso si è reso prigioniero e che, senza un intervento della comunità internazionale, sarà difficile spezzare.

La tragedia mediorientale, alla vigilia del lugubre anniversario del 7 ottobre, coinvolge sempre maggiori comunità e territori intorno al protagonista di queste tragedie immani: lo Stato di Israele con il suo governo composto da primi ministri e ministri messi sotto accusa dalle corti internazionali per crimini contro l’umanità. Tutto questo sembra non contare per l’Occidente, per gli Stati Uniti tanto di Biden/Harris quanto di Trump. La politica espansionista di Tel Aviv è l’avamposto degli interessi americani nella regione: la ripresa dei “patti di Abramo” permetterebbe di riavere nella sfera di influenza di Washington l’Arabia Saudita.

Ma per arrivare a questo obiettivo è necessario sterminare ancora qualche decina di migliaia di esseri umani, devastare altre città e farlo nel nome della lotta al terrore, mentre la democrazia israeliena arriva con gli esplosivi nei telefonini e nei cercapersone colpendo, come le bombe americane delle guerre del Golfo, indiscriminatamente e facendo vittime tra chi non ha mai imbracciato un fucile e, forse, nemmeno la causa di un dio che, caso mai esistesse, non voterebbe mai per quello che chiamano il suo partito.

MARCO SFERINI

19 settembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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