Qualsiasi cosa dica o faccia, Trump può vincere

Non c’è dubbio che Trump e Vance sfrutteranno al massimo lo pseudo-attentato di Mar-a-Lago: un tizio mentalmente instabile che non ha sparato a Trump ma si aggirava armato a...

Non c’è dubbio che Trump e Vance sfrutteranno al massimo lo pseudo-attentato di Mar-a-Lago: un tizio mentalmente instabile che non ha sparato a Trump ma si aggirava armato a qualche centinaio di metri dalla villa e si è fatto beccare dopo pochi minuti. Un procuratore federale lo ha imputato di possesso illegale di armi ma non di tentato omicidio. Già dopo la sparatoria del mese scorso, però, Vance aveva accusato i democratici di essere addirittura i mandanti dell’autore della sparatoria in Pennsylvania.

Donald Trump è un pregiudicato ma può ridiventare Presidente. È un narcisista psicopatico ma può vincere. La sua campagna elettorale è un disastro ma può vincere. Prenderà meno voti di Kamala Harris ma può vincere. La sua performance nel dibattito della settimana scorsa è stata miserevole ma può vincere. Non c’è bugia, calunnia o assurdità che lui non ripeta ma può vincere. Sì, Donald Trump può diventare per la seconda volta Presidente degli Stati Uniti.

Sì, l’aspirante dittatore che ha fatto dare l’assalto al Congresso per rimanere al potere il 6 gennaio 2021 può tornare alla Casa Bianca per una combinazione di iniquità del sistema elettorale, fascistizzazione del partito repubblicano, inettitudine dei grandi mass media, sostegno di miliardari come Elon Musk e polarizzazione dell’elettorato.

Cominciamo da quest’ultimo punto. Martedì scorso c’è stato il dibattito fra i due candidati a cui hanno assistito 67 milioni di americani e tutti hanno giudicato ottima la performance di Kamala: più tranquilla, competente, solida. Trump è apparso nevrotico, perdeva il filo del discorso, ripeteva assurdità come l’idea che gli immigrati haitiani a Springfield, Ohio, mangiassero cani e gatti. Senza contare il fatto che, a dir suo, la città di Aurora, in Colorado, sarebbe “controllata” dalle gang di immigrati (la città ha quasi 400.000 abitanti e il city manager, un ex militare, ha subito smentito che i problemi di criminalità fossero più gravi che altrove).

Un sondaggio del giorno dopo ha però dato questi risultati: se prima del dibattito il 52% dei probabili elettori dichiarava di voler votare per Harris e il 46% per Trump, dopo il dibattito le percentuali erano rimaste esattamente le stesse. Traduzione: in un elettorato non solo diviso ma fortemente ostile al partito avversario le performance dei due candidati in televisione non hanno modificato le opinioni.

Questo può apparire sorprendente ma in realtà non lo è: i sostenitori di Trump sono abituati ormai dal 2015 alle sue bugie, alle sue esagerazioni, ai suoi attacchi personali. Lo percepiscono come un attore, a cui non si possono certo rimproverare le battute sul palcoscenico. Su YouTube si trovano in abbondanza video di repubblicani che dicono di non credere alle sue fantasie sugli immigrati che arrostiscono gli amati quattrozampe ma ribadiscono di volere comunque votare per lui.

In un paper di qualche anno fa, Donna Goldstein e i suoi collaboratori sostenevano che la campagna elettorale di Trump nel 2016 era stata un successo perché era stata divertente, non solo per i suoi sostenitori ma anche per il pubblico in generale. Le sue provocazioni garantivano il dominio del ciclo di notizia (una tattica usata con successo anche da Belusconi 30 anni fa) e facevano passare in secondo piano i suoi programmi, la sua incompetenza, la sua megalomania, le sue minacce.

Un altro elemento che riguarda l’elettorato degli Stati Uniti è la forte divisione città/campagna: le zone rurali sono più religiose, più ostili al governo centrale, più povere delle città. I risultati di Pennsylvania, Wisconsin, Michigan, Nebraska e parecchi altri stati corrispondono alla somma algebrica dei suffragi nelle zone extraurbane e dei suffragi in città. I risultati si pareggiano, con piccolissime differenze: nel 2020 Joe Biden vinse in Pennsylvania con un margine di 80.000 voti su quasi 7 milioni di schede valide, l’1,17%.

Nel 2016 fu Trump a prevalere per 44.000 voti su circa 6 milioni di suffragi, lo 0,72%. In Nebraska, nel 2020, Trump vinse con 20 punti percentuali di vantaggio nel complesso dello stato ma Biden ottenne un delegato nel collegio elettorale arrivando in testa nella città di Omaha; gli altri quattro delegati andarono a Trump.

Questa divisione spaziale permette ai repubblicani di sfruttare a fondo il vantaggio che offre loro il sistema di voto indiretto, il cosiddetto collegio elettorale. Tutti gli stati controllati da loro, infatti, hanno approvato leggi in cui si rende più difficile votare, in particolare nelle zone a maggioranza democratica.

Per esempio, in tutto il Sud sono stati inseriti ostacoli di ogni genere al voto per posta, il più usato da chi non può andare ai seggi per motivi di lavoro (si vota di martedì e non è festa) o di impegni familiari. In Georgia, una nuova legge permette a chiunque di chiedere la cancellazione di altri cittadini dalle liste elettorali, facendo ricadere sulla vittima l’onere di dimostrare che ha effettivamente ha diritto al voto: un’arma efficacissima in uno stato dove nel 2020 Biden ottenne appena 11.000 voti più di Trump su poco meno di 5 milioni complessivi.

Infine, c’è un dato socioeconomico di fondo: è vero che il numero di persone occupate continua a salire (142.000 in più nel mese di agosto) e la disoccupazione è bassa (4,2%) ma è altrettanto vero che milioni di americani guadagnano troppo poco, in lavori faticosi e precari, e sono pronti a cercare un capro espiatorio negli immigrati, o nelle minoranze che godono delle modeste protezioni del welfare. Pregiudizi accentuati e radicalizzati da Trump.

FABRIZIO TONELLO

da il manifesto.it

Particolare della foto di Joshua Santos

categorie
Americhe

altri articoli