Lo chiamano di già il “patto della birra“, perché sorseggiando l’antica cervogia Giuseppe Conte, Elly Schlein, Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli e Riccardo Magi hanno praticamente siglato un primo margine di intesa tra le forze di quello che su può definire, più che “campo largo“, un nuovo “campo progressista“. Cinquestelle, PD, Alleanza Verdi e Sinistra, +Europa, senza Italia Viva e Azione. Almeno per ora.
Il perimetro dell’alleanza è più una questione di quantità per Fratoianni. A dire il vero è anche una questione di bontà e qualità dell’intesa che, con gli altri due eventuali alleati, passerebbe dall’essere progressista ad una sorta di nuovo (e vecchio al tempo stesso) centrosinistra. Ma ciò che realmente conta sono due elementi che devono andare di pari passo: l’alternativa alle destre, concreta, vera e non soltanto messa in essere per una questione di pulsioni governiste; la condivisione di temi di natura sociale, civile e anche morale.
Sulle grandi questioni che concernono il salario, le pensioni, il rinnovamento pubblico degli assi strategici di un nuovo sviluppo che parta dal basso e guardi alle classi meno abbienti e più impoverite dalla crisi economica prima e dall’economia di guerra ora; sulla guerra e la necessità di uno sganciamento del progressismo italiano dalla teorizzazione della NATO come punto di stabilità democratico-occidentale; sull’altra guerra in Palestina, l’intesa tra le forze politiche citate è tutta da costruire.
Su cosa vanno d’accordo allora? Per ora su una opposizione convergente al melonismo, al salvinismo ed a tutto quello che ne consegue: non è poco. Basti pensare alla lotta comune contro il premierato, contro l’autonomia differenziata, per evitare all’Italia una torsione antidemocratica, para-autoritaria e pseudo-oligarchica che metta insieme tanto l’ostinazione bellicista nordatlantica dell’Ovest con i rigurgiti neofascisti dell’Est. Al momento il campo progressista si costruisce, quindi, sulla contrarietà, sull’essere l’opposto di ciò che il governo di Giorgia Meloni sta facendo.
Non è poco, torniamo a dirlo. Ancora di più le differenze si sentono se il paragone viene fatto con la sinistra di alternativa che, pure, si ostina ad evitare un dialogo, cercando nella costruzione di un polo antiliberista l’anello di congiunzione con una nuova domanda di progressismo certamente più evoluto rispetto a quello a trazione PD-Cinquestelle, ma indubbiamente anche meno incisivo e capace di parlare e farsi sentire come voce e rappresentanza delle istanze delle fasce più frustrate dal liberismo moderno.
In questo gioco al disconoscimento reciproco, non giova né la spocchia del settarismo dei piccoli partiti che puntano il dito contro tutte le palesi contraddizioni tra il dire e il fare dei democratici, dei pentastellati e, a volte, anche dei rosso-verdi di Fratoianni e Bonelli; né giova lo snobismo del capo progressista che, alla festa di AVS, non invita ai dibattiti anche le forze politiche della sinistra non presenti in Parlamento. Se confronto deve essere, al di là delle kermesse, si può provare comunque a costruirlo, prendendo in considerazione tanto il grande quanto il piccolo.
Invece, in questo regime di sordità e disinteresse reciproco, non fa che aumentare il divario tra la diffusa sinistra popolare che non si riconosce nelle divisioni, nelle lacerazioni e negli anatemi vicendevoli e che, poi, finisce col non partecipare alla vita politica del Paese, al voto, alla delega parlamentare nonché alle altre di carattere locale. La storia recente dell’Italia postberlusconiana ci ha abituato ad una coazione a ripetere errori che sembravano aver insegnato qualcosa anche ai più ostinati, pessimi scolari.
Invece, il legare l’alternativa al governismo a tutti i costi ha prodotto tutta una vasta gamma di numerose contraddizioni che si sarebbero potute archiviare in un caso, mettere da parte in molti altri. La sinistra di alternativa, rappresentata da Rifondazione Comunista, Potere al popolo! e altri partiti minori sembra voler puntare tutto su una rappresentanza di classe puramente nominale. Perché se non hai la capacità di convogliare il consenso, di mobilitare quelle che un tempo chiamavamo “le masse“, finisci coll’essere il politico di té stesso.
D’altro canto, se il dissenso lo intercetti, se la rabbia la incanali, se hai dietro di te milioni di persone ma poi, una volta al governo, ti comporti quasi come le destre sul piano economico e sociale, tanto da divenire la copia di un originale che pretendevi di mettere da parte, finisci per smarrire il popolo che ti ha votato, per gettarlo nella confusione più totale e nell’alimentare quella disaffezione verso delle istituzioni che, pur cambiando il colore, danno sempre lo stesso risultato negativo per la povera gente, per il mondo del lavoro.
Le belle foto funzionano e diventano un emblema di una congiuntura politica favorevole se sono seguite da una vera volontà di cambiamento radicale, di mutamento degli indirizzi antisociali che le destre e i centrosinistra di un tempo hanno condiviso impropriamente, permettendo al liberismo europeo di fare breccia in quello che era una solida rete di protezione popolare, di tutela dei diritti universali che si trasfondevano nelle particolari esigenze territoriali e locali senza bisogno dell’autonomia differenziata calderoliana.
L’insufficienza dei governi politici e, soprattutto, di quelli tecnici a cui hanno partecipato quasi tutte le forze politiche che ora stanno su fronti opposti ha favorito i grandi interessi continentali, la Confindustria e i suoi accoliti, e ha costretto i lavoratori e le lavoratrici, i precari e i disoccupati a sopravvivere in condizioni sempre più umilianti. Il divario tra nord e sud del Paese si è così accentuato da poter garantire alle destre un fertile terreno di coltivazione del separatismo regionalista mostrandolo come la necessità che hanno i territori di gestirsi i propri soldi.
Se da un punto di vista quantitativo può valere il discorso dell’ampliamento del campo progressista al campo larghissimo con il centro calendian-renziano, è altrettanto vero che la qualità politico-programmatica di una nuova alleanza sociale e civile antifascista e democratica può essere alzata da una compartecipazione di tutte le forze della sinistra ad un progetto di rinnovamento complessivo della vita dell’Italia di oggi e di domani.
L’inclusione delle ambiguità centriste entro questo perimetro non farebbe che riproporre le vecchie tendenze moderate. Lo schema, del resto, tra centrosinistra e centrodestra è saltato da tempo: chi ci governa oggi si lascia agevolmente definire dal giornalismo nazionale come “destra” ed evita l’altro appellativo per poter intercettare tanto i voti moderati quanto quelli utili di una vasta parte di popolo delle periferie abbandonate delle grandi città in cui la rabbia anti-istituzionale è maggiore e, dove, quindi più facilmente più attecchire la retorica meloniana e salviniana.
Ciò che i progressisti italiani moderni devono saper fare è, anzitutto, evitare qualunque facile slogan, inseguendo la destra sul suo terreno populista e qualunquista. Ma, al contempo, devono premettersi di non avere troppa condiscendenza con i dettami del liberismo continentale ed americano una volta al governo del Paese. Se la sinistra moderata e radicale, insieme, dovesse trovare il modo di poter tornare ad avere un ruolo di gestione della nazione, allora avrebbe come primo compito quello di capovolgere tutti i provvedimenti realizzati in questi due anni.
Dovrebbe impegnarsi in una riforma del mercato del lavoro partendo dalle necessità del mondo operaio, del terzo settore, persino delle partite IVA. E dovrebbe farlo imponendo una tassazione (per citare qualche vecchio, sacro testo marxista) “fortemente progressiva“, legando il tutto ad una riduzione dell’orario di lavoro a trentadue ore a parità di salario. Dovrebbe interrompere qualunque invio di armi all’estero, in qualunque guerra e riconoscere che l’unica vera vittoria sul campo è la fine dei conflitti.
Dovrebbe avere il coraggio di dire dei SÌ e anche dei NO: no alle politiche di tagli nei confronti di qualunque comparto sociale; no ad ulteriori privatizzazioni e, anzi, recuperare allo Stato un ruolo chiave nelle dinamiche produttive e in quelle gestionali dei settori strategici per l’economia del Paese, per le sue infrastrutture, per un patrimonio pubblico fondamentale per la vita delle comunità tanto grandi quanto piccola. A partire dall’acqua come bene comune, mettendo in discussione la filosofia titaneggiante della priorità delle “grandi opere“.
Dovrebbe riportare la sanità, la scuola e altri ambiti primari della vita quotidiana e della crescita personale e collettiva nelle mani del governo di Roma, così da unificare diritti e doveri e dare una risposta unica e plurale al tempo stesso ai bisogni dei cittadini. Dai più giovani ai più anziani. Non basta, nonostante sia imprescindibile, il referendum sull’autonomia differenziata per cancellarne lo spettro e le manifestazioni ectoplasmatiche di un domani… Serve l’applicazione del dettato costituzionale in tutto e per tutto.
Se la sinistra moderata su molte di queste tematiche tentenna, perché avverte la sproporzione tra l’oggi e il prevedibile futuro, deve essere compito di quella di alternativa pungolarla per avere così, entrambe, un ruolo di vero progressismo politico e sociale nel contesto nazionale e nei riflessi europei che ne deriverebbero. Compito della sinistra comunista oggi è, in quanto sinistra libertaria, stare – come sosteneva del resto Marx – “alla punta estrema dell’ala sinistra del grande esercito democratico“.
Vanno messi in soffitta e dimenticati i vecchi rancori, le turbolenze del passato e va puntato lo sguardo ad un futuro che non possiamo lasciare all’arbitrio di una destra reazionaria che deve essere fermata il prima possibile. Ma il campo progressista non può più permettersi di commettere gli errori del passato. Bisogna voltare pagina definitivamente, dimenticando i vecchi rapporti di forza, ma avendo ben presenti le incongruità che hanno lacerato gravemente le forze della sinistra.
Rifondazione Comunista deve scegliere se valorizzare la sua ultra trentennale storia mettendo sé stessa nelle condizioni di una sfida in questo senso o se, invece, punta ad essere un partito di testimonianza residuale di un anticapitalismo che è fine a sé stesso, autocelebrativo e che non porta a casa né il risultato di consolidare un consenso attorno ad un progetto di costruzione di un polo dell’alternativa, né quello di essere la rappresentanza certa di un ampio settore del mondo del lavoro e dei moderni proletari.
L’anticapitalismo che vogliamo continuare a innervare, la forza rivoluzionaria che pretendiamo di essere non possono oggi che essere tradotti in un esercizio costante di stimolazione critica e di induzione delle altre forze moderate a considerare le riforme più radicali possibili nel senso del miglioramento delle condizioni di esistenza dei più fragili di questa società atomizzata e, apparentemente, irrimediabilmente sedotta dal turbinio pubblicitario di un consumismo esponenziale.
Possiamo essere comuniste e comunisti solo se siamo utili alla gente, alla classe che vogliamo rappresentare. Se serviamo solamente a produrre analisi e tesi congressuali, documenti e riviste verbose e prolisse, creando aree cristallizzate che soffocano la dialettica vera di un partito, allora saremo anche comuniste e comunisti, ma puramente nominalmente. Per gloriarcene e appenderci una spilletta alla giacca o alla maglia, per indossare un foulard rosso, per sventolare una bandiera che nessuno più guarda.
MARCO SFERINI
13 settembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria