Wagencknecht, il successo di un nuovo populismo di finta sinistra

I riflessi sono quasi tutti negativi. Eppure qualche spunto per ripensare una analisi compiuta dell’elemento bellico nell’attuale storia europea (e mondiale) c’è. Ma non si tratta della nascita di...

I riflessi sono quasi tutti negativi. Eppure qualche spunto per ripensare una analisi compiuta dell’elemento bellico nell’attuale storia europea (e mondiale) c’è. Ma non si tratta della nascita di nuove formazioni di sinistra, alla presunta sinistra della sinistra stessa. Semmai, proprio del contrario.

O almeno per quel che ne sembra. Perché, a dire il vero, la Bündnis Sahra Wagenknecht – Vernunft und Gerechtigkeit (Alleanza Sahra Wagenknecht – Ragione e Giustizia) ha delle verisimiglianze con qualcosa che somiglia alla critica anticapitalsita, ma ha anche, come del resto non fa mistero di averne, dei tratti incontestabili di un “conservatorismo” molto curioso.

Il risultato più eclatante della nascita di questo soggetto politico è stato, almeno per ora, un verticale crepaccio che ha diviso l’area della Wagenknecht da Die Linke e, come era facilmente prevedibile, indebolito quest’ultima e non permesso, nonostante l’esorbitante successo ottenuto dalla BSW, di avere un ruolo preponderante nel governo dei due Länder della ex Repubblica Democratica Tedesca.

Se la sinistra va a rotoli e riemerge in una farsa che è tragedia e che conclama la crisi di sé stessa tanto in Germania quanto nel resto d’Europa, la destra populista e neonazista fa passi da gigante.

In Turingia soprattutto, l’Alternative für Deutschland supera il 32% dei consensi, mentre i partiti storici di governo le si attestano dietro con percentuali non trascurabili, ma di sicuro molto poco onorevoli per la storia che si portano appresso con sempre maggior peso e sempre minore coerenza.

Rimane discreto il risultato della Linke (13,1%), crollano socialdemocratici e verdi. Diverso per la CDU il quadro elettorale sassone: qui i democristiani primeggiano di poco sull’AFD, la Linke frana al 4,5% (sotto la soglia di sbarramento), la SPD poco sopra con il 7%. Un terremoto è, come immagine, pur sempre una metafora al ribasso, un eufemismo politico e soprattutto sociale che si ripercuote a Berlino.

Tragicamente vero: le scelte del governo Scholz sono state una conflagrazione negativissima sull’operato dell’intero esecutivo e la cosiddetta “coalizione semaforo” (comprendente SPD, Liberali e Verdi) mostra e dimostra tutta la sua promiscuità con una linea ultra-atlantista che ha condotto la Germania in prima fila nella guerra d’Ucraina, gareggiando con l’ultra-liberista Emmanuel Macron in quanto a riarmo del governo di Kiev e proseguimento del conflitto fino alla sconfitta della Russia.

Qualunque azione diplomatica è stata aprioristicamente esclusa. Nemmeno a parole si è più sentito, da parte dei governi di Parigi e di Berlino, un tentativo di rimettere in auge la trattativa.

Questa spinta dentro i più reconditi meandri dell’economia di guerra ha indotto i tedeschi a fare i conti con un multistrato di crisi sociale, civile e persino culturale, favorendo proprio quelle formazioni paranaziste che oggi troneggiano nei parlamenti regionali e vantano milioni di voti che prima erano affidati al moderatismo della SPD o alla speranza ecosociale verde.

Il fattore bellico e quello ambientale hanno stretto in una morsa la questione sociale e, quindi, hanno, con tutte le giravolte fatte dalle presunte forze progressiste del Vecchio continente, determinato una sfiducia esacerbante in una popolazione che ha iniziato a sentire l’impatto dela crisi economica a tutto tondo.

Non stupisce, quindi, che Wagenknecht da un lato e AFD dall’altro, per quanto differenti siano, incontrino il favore di un elettorato scontentissimo a sinistra e scontetissimo a destra (ed anche al centro). Nel mezzo rimane una compagine governativa ridotta all’osso, priva di mordente e capace solo di potersi far forte della sua presenza nel governo di Berlino.

Quello che non convince nella compagine della BSW è proprio lo stridire tra diritti sociali e diritti civili ed umani. La chiusura nei confronti delle politiche migratorie è uno dei temi portanti di una campagna elettorale che non unisce, ma accomuna Wagenknecht e Björn Höcke.

Quotidiani dalla grande tradizione sociale e di sinistra, oggi molto attenti anche alla crisi climatica, come Die Tageszeitung non esitano a definire la BSW come una sorta di forza “socialista con un codici di destra“.

Ogni paese europeo ha i suoi populismi che, purtroppo, sono divenuti la risposta più progressista possibile a sinistra e meno di destra possibile nell’ambito del conservatorismo antisociale ad un diffuso disagio economico-sociale che forze moderate e più radicali della sinistra non riescono più ad interpretare e veicolare in una giusta risposta che metta insieme tutti i diritti, senza alcuna esclusione o classificazione.

Il cortocircuito che vive oggi la Sinistra Europea è marcato anche da queste divisioni interstiziali tra passaggi veramente storici come la ripresa delle guerre nel cuore dell’Europa, il fervore nazionalista che ne consegue e che le anticipa (come elemento propagandistico dei rispettivi governi), il rinvigorimento di conflitti macroregionali che infiammano un po’ tutto il mondo e sono enormi genocidi, grandi stermini di massa.

Grande è la confusione sotto il cielo di un’Europa che non ha una politica comune estera, che serve soltanto a dare una stabilità parziale all’economia dei Ventisette che deve fronteggiare la fase di espansione multipolare in atto.

Surrettiziamente, i governi occultano le vere ragioni delle guerre dietro le necessità di resistenza di un popolo; nascondono la fedeltà cieca all’Alleanza atlantica nel nome del ritorno della democrazia in paesi in cui quasi mai si è potuto affermare che, caduto il socialismo irrealizzato ad est, si fosse aperta la stagione della valorizzazione del pluralismo delle opinioni e, soprattutto, della uguale e, magari, anche maggiore presa in considerazione del ruolo pubblico dello Stato nella vita dei cittadini tutti.

Argomenti che sono stati, a lungo tempo, anche dominio del socialismo tedesco, della SED fino a che non è divenuta PDS e poi Die Linke.

L’opportunità che, in particolare nella Germania dell’Est, la sinistra post-1989 ha avuto è stata l’eredità di un grande consenso di massa che poteva essere ancora legato al potere contrattuale delle istituzioni ex-filosovietica nei confronti del blocco occidentale e del vittorioso capitalismo dell’Ovest.

La vittoria del mercato, che ha stretto in una morsa il blocco sovietico in disfacimento, ha fatto strame del residuo stato-sociale che, è sempre bene ribadirlo, tra le tante deficienze del modello alternativo a quello del capitale imperante, è stata una conquista felice di quella parte di un combattivo Novecento rivoluzionario.

Tutte le perplessità che oggi si possono (e si devono) avere nel pensare di sostenere formazioni come quella di Sahra Wagenknecht promanano non da una visione del passato riguardo le prospettive del progressismo tedesco o europeo; semmai da un aggiornamento dei valori di un tempo nella strettissima attualità, continuamente e repentinamente cangiante, di un presente che costringe ad un confronto serrato.

La stessa nuova leader di questa sinistra conservatrice ha più volte affermato di non volere per sé e il suo partito l’etichetta di “linke“. Le premesse populiste c’erano e rimangono tutte. Tanto più che, appena dopo il voto regionale, alle aperture della CDU per governi comuni nei Länder, la risposta della leader è stata: «Parliamone di persona».

Si fosse trattato della SPD o dei Verdi, per quanto alcune azioni di governo siano diametralmente opposte alla pace e alla solidarietà sociale e ambientale così come lo possono essere (e lo sono) quelle del zentrum moderno, almeno sul piano meramente geopolitico si sarebbe potuta ravvisare una qualche minima convergenza (magari in particolare sulle politiche migratorie, nel nome di una negazione, pure qui, dei vecchi e attuali valori della sinistra).

Ma anche il solo ritenere possibile una coalizione tra CDU e BSW, lascia intendere a che livello di post-ideologismo siamo e come davvero contino pochi le visioni grandi e, ahinoi, lontane di una società per cui si lotta mediante i soggetti politici organizzati nel nome di condivisioni culturali, antropologiche e valoriali che determinano un fattore unificante in una comunità.

I tempi ultramoderni consacrano quindi all’individualismo politico esasperato la chiave di apertura delle porte dei parlamenti e delle città per alleanze stravaganti (nel migliore dei casi), inquitanti (nel peggiore degli stessi casi): l’eccezionalità della fase multipolare ricca di guerre, morti, orrore e povera di speranze per un mondo in cui la contesa è globale, non è la sola giustificazione per queste convergenze disomogenee, spacciate per senso del dovere nei confronti di una nazione, intesa come simbiosi tra territorio, istituzioni e popolo.

C’è qualcosa di più profondo che ha scavato e scava nell’incoscienza cosciente di coloro che utilizzano l’elettorato per arrivare al potere e, nella commistizione tra una parte di ideali di un tempo e un’altra parte di proposte populiste, seducenti dell’oggi, trovare lo spazio per governare senza etichetta, senza colore. Inventandosi nuove cromature per simboli, emblemi o semplici nomi e cognomi di una persona che divengono “il partito” per antonomasia.

Occorre tenersi ben distanti dall’errore e dall’errante. Non si può fingere che tutto questo eserciti un fascino indiscreto sul proletariato moderno e che lasci magari tiepidamente indifferente una buona fetta di certo imprenditoriale e finanziario. Una coalizione tra CDU e BSW può garantire anche meglio della SPD insieme a Verdi e Liberali l’interclassismo di proposte che fingano di sostenere i lavoratori e che, d’altro canto, privilegino i profitti e il privato.

Il caso italiano, oltre tutto, è lì a dimostrare che la permeabilità del populismo è altamente sagace e sa farsi strada là dove era impensabile che potesse arrivare. Non soltanto come fenomeno nuovo, come novità inimmaginabile fino a pochi decenni fa; ma soprattutto come elemento ricostituente di un paese, plasmatore di una nuova anti-cultura di quella che, opportunamente, si era definita l’anti-politica.

Non tanto per il suo carattere altro dalle ideologie anatemizzate e sconsacrate dal neofascismo prima e del grillismo poi; quanto semmai per la distanza che ha messo tra la politica e la gente, facendole credere di essere proprio così, nell’odio esponenzializzato nei confronti delle istituzioni repubblicane e del diritto, al massimo della potenzialità partecipativa di un civismo mai visto.

Il tratto comune, dunque, prima o poi viene fuori. Ieri è toccato all’Italia, oggi tocca alla Germania. La Francia, qualcuno dice, ha passato questa fase con La France Insoumise. Ma non si può essere d’accordo con questa affermazione. Troppe, per fortuna, sono le differenze tra Jean-Luc Mélenchon e Sahra Wagenkneckt. Prima fra tutte? Gli insoumise non farebbero mai una alleanza con i centristi e le destre. Almeno, per quel che ne sappiamo fino ad oggi.

E speriamo di non averne motivo di dubitare domani.

MARCO SFERINI

3 settembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

categorie
Marco Sferini

altri articoli