Futuro interiore

Non è soltanto un problema di tempi. Semmai si tratta di una dimensionalità esclusiva del singolo che si proietta nell’universo microcosmico terrestre, dentro una quotidianeità che estrania, che costringe...

Non è soltanto un problema di tempi. Semmai si tratta di una dimensionalità esclusiva del singolo che si proietta nell’universo microcosmico terrestre, dentro una quotidianeità che estrania, che costringe all’oblio della modernità dei sentimenti, della bellezza degli ambienti, del rapporto che abbiamo con il potere che sovraintende e sovraordina.

Il futuro anticipa il presente e ne viene fagocitato, perché ci sembra di stare sempre e soltanto qui dove siamo ora: in uno spazio-tempo dove la gravità delle distorsioni umane prevale sull’originalità di un’esistenza che potrebbe essere davvero molto più a misura di essere vivente e di natura e che, invece, noi animali umani abbiamo antropocentrizzato e completamente astratto dal suo contesto primario.

Abbiamo tante certezze nell’era della finzione sociale dei social. Le esprimiamo ogni benedetto o maledetto giorno: convinti, sicuri, sicumertosi. Perché all’alterigia spavalda della nostra assenza di perplessità uniamo anche l’indicibilità voluta, un tutt’altro che bel tacer davanti agli orrori non del mondo, ma nostri contro il mondo e contro tutto e tutti. Contro di noi. Per primi, o per comprimari insieme agli animali non umani e all’ambiente.

Non c’è più un angolino di spazio sparuto per una legittimità del dubbio, per una cultura del perplimere e del lasciarsi andare ad un silenzio contemplativo delle nostre coscienze e nelle nostre incoscienze. Tutto viaggia sul botta e risposta nei post di Facebook, tramite le foto di Instagram, nelle ridondanti chattate su Whatsapp o Telegram, nella compulsività della risposta e della controrisposta.

Non si può rimanere indietro e lasciare adito al fatto che abbiamo una perplessità, che ci soffermiamo qualche istante a riflettere per capire meglio. La riflessione è confronto con sé stessi, con lo specchio opaco che abbiamo dentro e che è l’incoscio che violentiamo ogni giorno cercando di tracciarne i contorni che, per fortuna, rimangono oscuri e lampeggiano nella nostra mente e nel nostro modo di essere attraverso una serie di nevrosi e disagi di cui malediciamo la presenza, mentre dovremmo benedirne l’inessenza che ci sfugge.

Siamo ormai abituati ad accettare solo i messaggi che ci vengono dal possibile, dal sensibile, dal concreto, dal tangibile. Ed ogni forma di etereità, di impalpabilità dell’esistenza la escludiamo dal novero della conoscenza. Esattamente come il futuro che non possiamo presagire e che, a volte, domandiamo tanto agli storici quanto, con molta più ingenue e puerile miseranda arguzia, ai maghi e ai cartomanti.

Forse i ciarlatani televisivi potranno dare delle risposte girando le carte di un destino che non c’è, per guadagnarsi gli euro spesi dall’ascoltatore che incautamente ha chiamato. Ma gli storici proprio non possono, e nemmeno devono, tentare delle previsioni. Possono insegnare, al pari della Storia stessa, gli errori del passato e possono provare a discernere i comportamenti umani e a capire, mediante i rapporti meccanici della dialettica nei rapporti di forza, come si muovono le forze sociali.

La mia generazione, nata negli anni Settanta del secolo breve, è quella che Michela Murgia nel saggio “Futuro interiore” (Einaudi, 2016), definisce come archetipo di una estranietà tanto al passato quanto al futuro, imprigionata nella frustrazione dell’essere venuta al mondo troppo tardi per il primo e troppo presto per il secondo. Noi siamo figli dei baby boomers e genitori di coloro che hanno conosciuto la (quasi totalizzante) digitalizzazione dell’esistenza e dell’esistente.

Siamo stati costretti ad approdare al mondo internettiano sul finire degli anni Novanta e abbiamo scoperto, insieme ai nostri figli e nipoti, che la crisi energetica degli anni in cui eravamo venuti al mondo ormai era un retaggio davvero del passato; surclassata ingloriosamente dalla crisi climatica, dalle nuove guerre dello scenario multipolare post-Guerra fredda e da un liberismo assolutista che ha mutato il carattere primigenio del capitale.

La “morte delle ideologie” è stata l’autoassoluzione di una generazione che ha predicato la certezza a tutto tondo e l’abbandono del processo dialettico come caratteristica essenziale di un raffronto tra simili, diretto e spontaneo, nonostante i tentativi di coercizione catodici di una televisione che ci appariva come il Grande fratello orwelliano e che, invece, a confronto con la rete internettiana impallidisce nel merito e nel metodo.

Il breve saggio di Michela Murgia è ricchissimo di spunti e necessita di essere vissuto come un libro da “usare” e non solo da leggere. Si tratta di un manuale che interpreta ma lascia senza risposte: offre delle domande e consegna ai lettori e alle lettrici il compito di aprire nuovi dubbi, di formulare nuove ipotesi partendo da assunti che sono antidogmatici e che non predeterminano niente e nulla. Ma sono critici, perché esercitano il diritto di stare nel mezzo.

Di essere mediani in una società dove la primazia è all’ordine del giorno e dove la gara si impone sempre: invece di cercare il modo di oltrepassare un regime della sopravvivenza cui ci siamo lentamente e disincantatamente abituati, restiamo quasi immobili mentre tutto, intorno, ruota vorticosamente. Merci, esseri umani, sofferenze, odii, ferocia, guerre, genocidi, crimini, pregiudizi, razzismi di tutti i tipi e preconcetti di ogni sorta.

Arrivati così dopo o così prima di altri, noi quaranta e cinquantenni di oggi viviamo a metà tra il vecchio Novecento dei rapporti interpersonali diretti e la finta socialità dell’intermediazione da tastiera, del tocco sullo schermo del telefono che una protesi di animi inariditi e di cervelli lobotomizzati da un fenomeno globale di dipendenza dal virtuale, dall’inconsistente.

Spersonalizzati, privati del nostro tempo, curvati su phone che tutto sono tranne che smart, abbiamo smesso quasi del tutto di guardare la luna di sera, di accorgerci delle nostre città imbruttite come lo siamo noi che perdiamo non una identià nazionale, ma la particolarità delle esperienze interiori al confronto col mondo che non vediamo più e che percepiamo tramite la mediazione esclusivistica dei supporti digitali.

Michela Murgia si sofferma proprio sulla convivenza tra cittadino, persona, essere vivente e città, comunità, insieme architettonico di un urbanismo che divora e che non fa respirare; che comprime invece di espandere e che nel rinchiudere spinge alla recinzione dei sentimenti, alla considerazione della difesa dall’incomprensibile, dallo sconosciuto, dal diverso senza più alcun se e senza alcun ma. Non c’è posto per la riflessione, su sé stessi e in sé stessi, così da comprendere gli altri da noi.

C’è posto soltanto per le certezze del semplificazionismo muscolare dei generali che fanno della cittadinanza un premio per il darsi corpo e anima ad una Patria che non ci è padre e madre in niente altro se non nel chiederci di rinunciare ai diritti universali per prendere in considerazione i privilegi di un autoctonismo bugiardo. Gli italiani prima di tutto e di tutti, e così ogni popolo prima degli altri. Nel nazionalismo c’è quella presunzione di certezza che è il surrogato di una sicurezza infingarda.

Il “futuro interiore” del titolo è un appello. Alla presa in carico da parte di ognuno di noi di un significato reale dell’essere hic et nunc in una Rodi dove a dimostrare di fare il salto più lungo devono essere coloro che antepongono la tradizione all’evoluzione, il comando alla condivisione, l’ordine alla libera trasformazione delle interazioni sociali. Il nostro salto, di quarantenni e cinquantenni del nuovo millennio, è affidato ad un apparato muscolo-scheletrico non rattrapito, certo, ma nemmeno così sicuro di potercela fare.

E tuttavia, la generazione degli anni Settanta è, con tutte le sue visionarie insicurezze e ottundenti sicumere, quella che può ancora tenere insieme passato e presente: memoria della memoria e prospettiva di breve termine verso un domani in cui credono in pochi. Come, del resto, l’umanità ha sempre fatto, vivendo nel lamento del peggioramento di oggi rispetto all’ieri e nella disperazione di un futuro mediocre per la progenie che verrà.

La questione ultima, soltanto per collocazione nelle pagine del saggio murgiano, del potere gerarchico e di come andargli incontro e scontrarsi anche con esso, si colloca con precisione nel filone della rimodulazione architettonica delle esistenze unitamente alle città dove l’esistenza scorre impersonalmente. L’apatia egoistica si prende gioco anche delle più ingenue e candide coscienze: la metropoli come il centro urbano più piccolo e provinciale si uniformano.

Nell’essere parte di un sistema che deconcentra, atomizza, scandendo tempi disumani e disanimali, antiecologici e alieni da una necessità di empatia insufficiente e, tuttavia, non così richiesta nella domanda merceologica di un capitalismo coerentemente individualista. Quell'”abitare la democrazia” cui Michela Murgia fa riferimento è la costruzione di quartieri del pensiero rinnovato, delle coscienze prese in carico da una necessità di salvezza comune.

Senza comunità non c’è singolarità possibile. Non fosse altro perché, da soli si è soli e non si può reclamare nemmeno più il confronto con lo stare insieme agli altri. Bellezza, inclusione, empatia, democrazia vanno sinonimizzati: non può essere soltanto una ricerca di compenetrazione lodevole dal punto di vista dei princìpi espressi a parole. Deve essere un impegno esistenziale, ideologico e ideale; non un sogno ma una cruda, affascinante realtà.

Deve essere la schiena curva che coltiva l’orto del dubbio, del metodo storico e scientifico di indagine sul presente per capire il passato e per evitare errori nel futuro. La predizione è impossibile. Ma la dimenticanza di ciò che è stato è, invece, all’ordine del giorno. Perché rafforza la prepotenza della certezza indefessa; perché impone e non propone; perché fa della mediocrità tanto laica quanto religiosa, tanto civile quanto militare il metro di valutazione della fedeltà, la qualità pubblica per eccellenza.

Capovolgere questo regime della bruttezza antisociale, del vilipendio delle coscienze, di un nichilismo arrogante che deturpa vie, piazze e vicoli ombrosi, dovrebbe essere il compito del futuro interiore: non da inventare, ma da vivere già oggi, con un impegno critico che va recuperato. Abbandonando i tempi morti della digitalizzazione protagonistica delle nostre autostime esponenziali e recuperando un po’ di sana incoscienza, del saper cascare nella pozzanghera e rialzarsi.

La domanda più bella, almeno per quel che mi riguarda, è: si può essere potenti insieme e non uno contro l’altro? Non si può tralasciare nulla del presente. Non è concessa la rassegnazione ispirata da una analisi storica sulla coazione a ripetere dell’essere umano secolo dopo secolo, millennio dopo millennio. I mutamenti fanni parte della dialettica naturale. Più naturali saremo noi e più questi processi di modificazione saranno spontanei e armonici con tutto e tutti, tra tutto e tutti.

Il discrimine non esiste. Perché al peggio non c’è mai fine. Ma, come mi disse la mia psicologa anni fa: «Si può anche stare bene».

FUTURO INTERIORE
MICHELA MURGIA
ENAUDI, COLLANA “VELE”, 2016
€ 12,00

MARCO SFERINI

28 agosto 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria


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