Secondo Plotino l’emanazione è il processo di concezione dell’esistente che permette di trascendere da un creazionismo elementare, incapace di spiegare il continuo, incessante progredire dell’Universo: tanto nella materialità delle cose quanto nell’intrinseca potenza spirituale che hanno gli esseri propriamente intesi come “viventi“. Esistenza e vita, e non è la prima volta nella storia del pensiero occidentale, si differenziano per compenetrarsi e scambiarsi l’una nei confronti dell’altra tutta una serie di peculiari caratteristiche che saranno oggetto di plurimillenaria discussione.
Dunque, per tutto un filone del neoplatonismo che va a chiudere l’esperienza delle scuole di riflessione elleniche, mentre la Patristica è sempre più incedente nel divenire la prossima grande protagonista della cultura europea e mediorientale. Il bacino del Mediterraneo rimane, almeno per gran parte del Medioevo, la culla di una autoreferenzialità pure introspettiva per la somma delle riflessioni cumulate sino ad allora: dalla Grecia, a Roma, dalle filosofie orientali ai culti veri e propri del politesimo prima e del monoteismo poi.
Il concetto di emanazione è particolarmente affascinante perché pone una relazione persino con l’oggi; con le più moderne tecniche scientifiche di approfondimento del grande e irrisolvibile mistero dell’esistenza dell’Universo e, se vogliamo, per estensione non fosse altro che concettuale (oltre che materiale), dell’universalità di tutte le cose: ossia della loro capacità di mettersi in relazione con il tutto in piena singolarità e rimanere in questo contesto – se così possiamo dire – in una (se non piena) quanto meno sufficiente armonia relazionale.
Ciò vale tanto per l’essenza materiale dell’esistente, il che significa implementare il tutto con una indagine atomistico-democritea, propriamente sull’intrinsecità della struttura della composizione di ogni cosa, di ogni essere vivente e, pertanto, dell’interazione tra tutti questi oggetti e soggetti nel più ampio teatro dell’universalità appena citata; quanto per un altro tipo di essenza (o essenzialità) che riguarda – utilizziamo il termine che anche Plotino adopera – le anime. Sappiamo quante interpretazioni storiche si possono rilevare e mettere in fila riguardo al concetto di “anima“.
Qui ci interessa quel “ritorno a Dio” che altro non sarebbe se non un inscindibile immanente compenetrazione tra le nostre interiorità imperscrutabili e impercettibili (se non intellettivamente) e quella che il filosofo egiziano (ellenico-giudaicamente ascrivibile all’antica terra dei faraoni) e un’anima molto più grande, con la A maiuscola: l’Anima di tutto il mondo intellegibile e di quello che va oltre la comprensione umana. Perché per Plotino Dio è l’Uno da cui tutto deriva in continuazione, per, appunto, processo di emanazione. E, pertanto, l'”anima del mondo” è l’imago mundi medesima e il principio della molteplicità.
Dunque, se l’unità in Dio non è esclusività aprioristica, perché contempla e include le tante, differenti espressioni in cui è osservabile e vivibile in prima persona la materia ma pure la spiritualità ancestrale (ed inconscia, potremmo oggi aggiungere piuttosto facilmente), è altrettanto vero – per il Nostro, si intende – che l’universalità dell’anima vive la contraddizione quasi dogmatica di essere unica e plurima: unica nell’esprimere quella totalità della spiritualità che “ritorna verso Dio” perché ne è compresa; plurima perché ogni anima ha, nell’essere il riflesso dell’intelletto (che è prima di tutto nell’Uno-Dio), una sua propria capacità conoscitiva e, quindi, si rapporta diversamente nell’oggettività del mondo.
Si può dunque parlare di una estrinsecazione dell’anima del mondo che si spande, proprio entro la coerente visione plotiniana dell’emanazione da Dio all’esistente e, si potrebbe persino azzardare, a Dio stesso, perché tutto è compreso in lui e nulla trascende da lui stesso, in ogni dove e non ha limiti di tempo e di spazio.
Plotino precisa che proprio questa espansione dell’Anima è alla base della concretizzazione materiale dell’Universo tutto, del mondo per come lo conosciamo. Se per l’emanazione l’esempio è quello del bicchiere d’acqua che attinge ad una inesauribile fonte che, quindi, fa traboccare senza soluzione di continuità il contenuto nel contenitore, ora è il momento della metafora della fonte luminosa.
Il mondo corporeo prende sostanza e cambia in tutte le sue forme più complesse, fino a quelle dell’autocoscienza umana (e in parte anche animale), perché è tipico della spazialità e sta nella temporalità. Dio ne è non tanto “al di fuori“, ma “oltre“: non ha bisogno delle nostre caratteristiche per poter esistere. Egli è a prescindere ed è sempre, senza inizio, senza fine. Se facessimo un raffronto tra l’indagine scientifica sull’origine dell’Universo e le teorie plotiniane a perdervi sarebbe senza dubbio il filosofo di Licopoli. Ma sarebbe una sconfitta parziale o, se volete, sarebbe una vittoria di Pirro per la scienza.
Perché la spiegazione di Plotino potrà anche apparire presuntuosa, ma si può isolarla rispetto al resto delle tante ipotesi formulate da altrettanti filosofi nel corso dei secoli? Quell'”interpretazione del mondo” come esclusivo campo di interesse del pensiero occidentale rimproverata da Marx ai pensatori di ogni epoca, è qui più che evidente che mai. Indubbiamente l’indagine plotiniana deve essere contestualizzata pienamente nel suo tempo, altrimenti non potrebbe essere equivocata e trattata alla stregua del vaneggiamento di un uomo vissuto più quasi due millenni or sono.
La luce, si diceva. Immaginiamo il punto da cui emana una luce fortissima, come se stessimo parlando del Sole, ma senza alcun riferimento deistico o panteistico: pensiamo alla stella in quanto tale. Da essa partono fasci luminosi che arrivano caldissimi fino a noi. Il Sole è quell’emanazione dell’anima del mondo (inteso nel suo senso universalistico e totale) che, disperdendo i suoi raggi, permette la molteplicità dell’esistente in tanti miliardi di forme differenti. Queste differenti essenze stanno le une accanto alle altre, le une dopo le altre, separate fra loro e interdipendenti spesso e volentieri.
Che cosa se ne deduce? Che in Plotino c’è una spiritualizzazione del materiale, del corporeo, del fisico inteso come “ombra dell’anima“. L’uomo di cui parlavamo prima, come “ritorno a Dio” è materialità e spiritualità che dipende ma è anche indipendente in questo circolo virtuoso fatto di simbiosi immanente.
In quanto Anima, l’essere umano è riflesso dell’Anima universale. In quanto materialità corporea, è il riflesso della propria Anima e quindi un “riflesso del riflesso” più generale e, per l’appunto, dell’interezza dell’esistente. Potrebbe sembrare un gioco di parole tipico delle elucubrazioni filosofiche, ma se si studia un po’ più a fondo Plotino, ci si renderà conto che non è così.
L’intuizione forse più affascinante del Nostro è l’anima (intendiamola pure anche come psiche, come percezione sfuggente di noi stessi e continuamente cangiante) come parvenza della vera anima: la fisicità esprime praticamente (nella pratica, quindi, di ogni giorno) questa incorporeità che, a sua volta, deriva dall’Anima del mondo. Da Dio stesso. Impossibile non sottolineare un eccessivo ricorso da parte di Plotino ad una metafisica che, a ben vedere, tradisce la religiosità profonda dei suoi ragionamenti.
Noi non siamo, in sostanza, ciò che fisicamente, qui ed ora, pensiamo d’essere. Noi siamo, in quanto anima, in quanto parvenza della vera Anima, una illusione concreta. Siamo – dice il filosofo – una specie di ombra del nostro vero “io“; ne rappresentiamo inconsciamente un paradossale e inesplicabile inveramento mediante una percezione quasi esclusivamente materiale e da questo siamo traditi anche nel pensiero e nella figurazione di noi stessi in quanto tali, in quanto speciali ed unici in un contesto enormemente più ampio che comprende altrettante unicità.
La vita sensibile, così, è una sorta di rappresentazione teatrale, di quello spettacolo che Augusto aveva chiesto di applaudire alla fine della sua esistenza, sul letto di morte, dichiarando che la sua recitazione era degna, almeno, di un battere di mani. Qual è, dunque, il compito dell’anima? Ma quello di riportarci verso Dio: in una esposizione che mette insieme metafisica e ultrasensorialità teleologica (un finalismo ultimo che, tuttavia, non è la fine di qualcosa, ma l’eterno principio di qualcos’altro), Plotino pone tutto ciò in una direttrice che va dal sensibile all’intellegibile, perché l’Intelletto è e rimane la primissima irradiazione dell’Uno.
Qui siamo al capovolgimento del processo di compenetrazione dell’esistente: se da Dio tutto emana, qui verso Dio tutto si converte. Emanazione e conversione sono i due principi non opposti, ma certamente molto diversi tra loro, che vengono esaminati come base di una circolarità infinita che va immaginata non nello spazio e nel tempo, ma al di fuori di queste categorie tipicamente umane. Per poter, come in tutte le teorie filosofiche che seguono un certo filone cristocentrico o, per meglio dire ed essere precisi, teocentrico, avere una sua dignità di ascolto, la teorizzazione plotiniana ha anch’essa una scala di gradi e valori da seguire.
La conversione verso Dio è una strada di virtuosismi, di buoni propositi nella vita sociale, civile e morale. Ci si deve liberare dalle passioni, contemplare intellettivamente il sensibile che ha del miracoloso nelle espressioni armoniche dell’arte, dell’amore, della natura e del nostro rapporto con essa. E, allo stesso tempo, va sentita profondamente la bellezza come emanazione ulteriore non del “Creatore“, bensì dell'”Emanatore“.
Riuscire a bypassare il creazionismo dottrinario dei primi secoli del Cristianesimo che si andava diffondendo in tutto l’Impero romano, mantenendo intatta una idea di Dio eterno e indissolubile, inalterabile nella sua essenza imperscrutabile, è una delle fascinazioni che Plotino esercita. Ancora oggi. E pur essendo stato il punto di arrivo del neoplatonismo antico, coincidendo quindi con la fine del pensiero degli antichi, gli sviluppi successivi che ebbe la riformulazione del pensiero dall’idea di “creazione” a quella di “immanenza” dell’Universo è qualcosa che trascende persino tutto il filone patristico che vi ragionerà incessantemente.
Giamblico, Proclo e altri autori e pensatori riconsidereranno la permanenza dell’esistente, quindi la non-creazione, ma la continuità dell’essere senza tempo e senza spazio. Non nel senso che spazio e tempo non esistano ma che, esistano soltanto in relazione alle caratteristiche percettive dell’umano. Qualcuno proverà ad oltrepassare Platone e il neoplatonismo, inciampando nell’immobilità del motore aristotelico, pur senza accorgendosene. Altri interpreteranno Plotino descrivendone la filosofia come una teorizzazione dell’intero ciclo vitale dell’Universo.
Altri ancora proveranno approcci più definiti tra filosofia e scienza. Con poco successo. La voglia di divinizzare l’esistente pervaderà a lungo il pensiero occidentale e lo incatenerà alla prevenzione psicoattitudinale di una umanità vincolata all’etereo e trasportata oltre le miserie in cui vive per una finalizzazione che sia utile al potere “temporale” (e non solo a quello della Chiesa cattolica…).
Il Cristianesimo aprirà le porte ad una lunga fase di trasmutazione del pensiero filosofico: resterà poca indipendenza critica e toccherà, a molti pensatori, includere le proprie libere idee entro una cornice teleologica, deistica, congruente sempre e comunque col dettato biblico ed evangelico. Plotino, in fondo, rimane l’ultimo filosofo libero prima dell’avvento della pur grande e affascinante esprienza della Patristica medioevale.
MARCO SFERINI
11 agosto 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria