Quando rientra in Palestina dopo ventisette anni di esilio, più o meno tanti quanti ne ha sta passando Nelson Mandela nel Sudafrica dell’apartheid, Yasser Arafat è sempre quell’«uomo piccolo, dalle guance coperte da una lenuggine grigia ineguale, che dà l’impressione di una rasatura trascurata, il capo quasi completamente calvo sotto la kufia con il reticolo bianco e nero o sotto il berretto militare…».
La descrizione è particolareggiata perché – come bene annota Ennio Polito nella sua biografia del leader dell’OLP (“Organizzazione per la Liberazione della Palestina”), qui si parla di quella che oggi verrebbe definita qualcosa di più di una figura di spicco. Bensì una vera e propria “icona”.
Una immagine che, al pari di quella di altri combattenti per libertà dei popoli, viene affissa ovunque nel mondo arabo e, naturalmente, nelle case dei palestinesi che vivono nei Territori occupati di Cisgiordania e Gaza. Nomi di luoghi che anche oggi richiamano le immagini del terrorismo da un lato e della guerra genocidiaria dall’altro. Hamas e Israele che si affrontano in mezzo ad Medio Oriente diviso, influenzato dal liberismo nordamericano, sedotto da pulsioni e tensioni teocratiche e nazionalismi tutt’altro che panarabi.
Ennio Polito scrive “Arafat” (Datanews, 1992) poco prima che il leader dell’OLP rientri nella sua terra d’origine. Natale non si può dire perché, come centinaia di migliaia di palestinesi in esilio, Muḥammad ʿAbd al-Raḥman ʿAbd al-Raʾūf al-Qudwa al-Ḥusaynī nasce in un paese che non è il suo: l’Egitto.
La povertà spinge il padre a mandare lui e un fratello dalla famiglia della madre, a Gerusalemme. A sette anni, per la prima volta, Arafat vede la città dei tre monoteismi, l’incrocio di culture e di popoli che è stata capitale del Regno di Israele, presidio romano per secoli e baluardo della rivincita cristiana contro l’Islam per aprire un varco commerciale ed economico all’Europa che soffocava nel Mediterraneo e che ancora non conosceva l’esistenza di un Nuovo Mondo al di là del Mare Oceano.
Arafat, se si leggono le tante biografie scritte su di lui, alcune divenute delle vere e proprie agiografie che non servono altro se non a confondere il piano storico con quello politico (e viceversa) è “l’uomo della storia”. È colui che sembra predestinato a lasciare un segno nella tormentata vicenda del popolo palestinese. La sua casa d’infanzia, come se volesse essere anche questo uno sfregio inflitto dal sionismo alla lotta resistente di Fatah, dell’OLP prima e dell’ANP poi, viene rasa al suolo dai bulldozer israeliani dopo l’occupazione dei territori cisgiordani in seguito alla Guerra dei Sei Giorni.
Nelle interviste rilasciate a numerosi giornali e anche a tante televisioni, erano frequenti i suoi ricordi giovanili: aveva respirato l’aria del colonialismo praticamente ovunque. Dal mandato britannico in Palestina al resto del Medio Oriente e dell’Africa mediterranea. La prima impronta politica che lo segna e lo marca profondamente è, quindi una lotta contro l’occupazione occidentale delle terre arabe e, nello specifico, di quelle della Palestina. Alan Hart, attento biografico del Nostro, scrive che fin da ragazzo il suo pensiero era “semplice e logico”.
L’analisi della criticità della situazione del suo popolo, Arafat la fa partire dalla disfatta delle classi dirigenti manipolate dal colonialismo europeo ed occidentale. Negli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale, l’antisionismo si confonde con l’antisemitismo e non è semplice per il giovane Arafat conservare intatta la sua visione anche sociale di un patriottismo che sposa l’uguaglianza come principio fondante del vivere in armonia tra i popoli.
Dopo la laurea, si stabilisce nel Kuwait e il motto del nuovo gruppo di lotta che riunisce intorno a sé è “Palestine first” (“La Palestina prima di tutto”). Qui non si disperde l’universalismo egualitario di colui che inizia a diventare il leader della Causa con la ci maiuscola. Ma, questo è certo, perché è storicamente provato, le idee universalistiche lasciano la scena e vengono messe in secondo piano. Tutte quelle concezioni globali dell’umanità che volevano la liberazione dei popoli ma anche l’emancipazione delle masse senza distinzioni troppo nazionalistiche, sono relegate sullo sfondo.
Comunismo, panarabismo, fondamentalismo islamico, con tutte le differenze immaginabili che si possono riscontrare tra loro, non servono in quel momento alla causa palestinese. La chiave di volta del successo Arafat la vede nell’autorganizzazione del suo popolo: deve liberarsi, se non da solo, agendo in piena autonomia rispetto ai poli che si scontrano nella dura competizione mondiale della Guerra fredda.
Il programma politico è una parte dell’azione che Fatah intende mettere in essere: si parla di linee di fondo che contemplano la liberazione completa della Palestina, la lotta armata per conseguire questo obiettivo, la cooperazione tra le forze arabe e la cooperazione con le forze internazionali amiche. Ma i palestinesi devono poter tracciare la via della loro indipendenza senza influenze esterne.
Per lunghi decenni lo scontro con Israele sarà a tratti diretto e a tratti invece indiretto, pur avendo ripercussioni gravi sulle condizioni dei palestinesi nei Territori occupati dal 1967. Ed è proprio in quegli anni che, dopo essere asceso fino alla guida dell’OLP, Arafat teorizza prima e pratica poi la rottura con una sorta di sudditanza dei palestinesi nei confronti di determinati regimi arabi.
La fondazione di al-Fatah, nel 1959, è segnata al principio, nel suo statuto, dalla convinzione che per far nascere lo Stato di Palestina occorre distruggere Israele. Praticamente quello che Hamas predica ossessivamente anche oggi. Quando aderisce all’OLP, che riunisce molte sigle della galassia indipendentista palestinese, Arafat mantiene la posizione annichilitrice del sionismo organizzato in Stato e ottiene così ingenti finanziamenti dai fratelli arabi come dai volontari di molti altri paesi.
Ma successivamente, dopo la guerra del Kippur e l’arrivo della destra israeliana al potere nel 1977, le posizioni muteranno e si inizierà a pensare alla formula tutt’ora in voga, sebbene difficilissima anche solo da immaginare nelle attuali condizioni di instabilità, guerra e genocidio, dei “due popoli, due Stati”.
La scelta di Arafat, fin dal principio della sua presidenza dell’OLP, di insediarsi in Cisgiordania è strategica tanto dal punto di vista politico quanto da quello operativamente militare e militante. Sul finire di quegli anni ‘70 tramonta la possibilità di un negoziato in stile “Camp David”. La mutazione dello scenario internazionale non aiuta in nessun modo i seppur tenui tentativi di dialogo tra le parti.
Arafat non demorde. In una intervista divenuta celebre, rilasciata al giornalista israeliano Uri Avnery (impegnato anche politicamente per una soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese), a domanda risponde: «Vorrei andare in Palestina. Lei pensa di avere il diritto di andarci? E che io non abbia questo diritto? Dove vuole che vada? Sono un essere umano anche io. Dove devo andare se non nella mia patria. Io voglio tornare nella mia patria».
Critici e detrattori, ma anche amici ed estimatori, hanno sottolineato una certa ambiguità del leader dell’OLP nello schierarsi sul piano internazionale, nel fare scelte certamente non tutte giuste, anzi, il più delle volte rivelatesi dei veri e propri fallimenti. Ma chi non avrebbe sbagliato in quel calderone di interessi che era ed è tutt’ora il Medio Oriente.
Israele è l’autore delle peggiori stragi tra il popolo palestinese negli ultimi settanta anni. Ed anche quando gli omicidi di massa non sono direttamente fatti dalle truppe del governo di Tel Aviv, il mandante morale o, se si vuole, la causa prima è il conflitto permanente determinato dallo Stato ebraico con la sua negazione del diritto all’esistenza della Palestina come nazione indipendente.
Così, il “settembre nero” e gli orrori successivi dei campi libanesi di Sabra e Chatila si inscrivono in questa circonferenza del terrore e fomentano la reazione rabbiosa tanto di Arafat quanto dei comandanti dell’OLP.
La cronistoria della vita di Arafat che Ennio Polito fa, necessita di un buon atlante della storia mediorientale degli ultimi due secoli, perché, pur essendo un libriccino esile, è fitto, denso di avvenimenti e, se non adeguatamente preparati, si rischia di perdere ogni tanto il filo del discorso storico. Tuttavia la chiara esposizione permette di farsi una altrettanto limpida idea di tutto ciò che è stata l’esistenza di quest’uomo che ha dato tutto sé stesso per una causa tutt’ora non risolta.
Diventa protagonista, bandiera, emblema del suo popolo in tutto il mondo. Lo acclamano nei consessi internazionali, lo insigniscono di premi e onorificenze.
Lo mostrano come un eroe a metà tra il guerrigliero Guevara e il mahatma Ghandi. E lui, nonostante tutte le accuse che gli vengono mosse contro, d’essere un terrorista, di fiancheggiare il terrorismo in altri Stati, di non volersi allineare con il cosiddetto “mondo libero“, passa oltre e guarda alla causa palestinese come ad esempio per tutti gli altri popoli che lottano per la libertà.
Irlandesi, baschi, chiapanechi, curdi. Per fare alcuni esempi che hanno attraversato i secoli fronteggiando potenti forze colonialiste e grandi imperi globali. Un giorno, un giornalista gli chiede se non è stanco di questa lotta, delle sconfitte… La sua risposta è perentoria ma non lapidaria. Argomenta: «Si possono immaginare le nostre ansie e la nostra pena. No, non siamo stanchi. Ci si chiede di mantenere un atteggiamento positivo e lo facciamo. Ma non possiamo essere insensibili alle sofferenze del nostro popolo».
Sono parole pronunciate all’epoca di Shamir. I coloni israeliani imperversano nel Territorio palestinese occupato e si diffondono in Cisgiordania e a Gaza. Arafat intravede ancora una volta una concreta possibilità di ribaltare la situazione con le alleanze internazionali e guarda all’Europa come ad una superpotenza che, indubbiamente anche per la sudditanza militare alla NATO, non sarà mai tale.
Muore poco dopo aver cercato di rompere un isolamento interno all’OLP, ad al-Fatah e alla da poco nata Autorità Nazionale Palestinese. Aveva appena deciso il licenziamento del suo fedele Abu Mazen da capo del governo. Non si saprà veramente mai quale sarà la causa della morte. Qualcuno parlerà dell’AIDS, altri presupporranno un avvelenamento; altri ancora ipotizzeranno l’uso del polonio…
Ma di tutte queste ipotesi non vi sarà mai alcuna prova scientifica, perché sulla sua salma non sarà effettuata alcuna autopsia. La sepoltura di Arafat, nell’essere anch’essa emblematica, stabilisce un passaggio di poteri ad una nuova classe dirigente palestinese che criticava il suo leader ma che, in tre decenni scarsi non è riuscita a capovolgere gli errori e a dare enfasi pratica ai valori portati avanti dal vecchio grande capo.
Oramai quello tracciato da Polito, anche perché oggettivamente incompleto, visto che è stato scritto ben prima che Arafat morisse (ben dodici anni…), può sembrare un tracciamento di un profilo monco e, a posteriori, persino tendenzialmente agiografico nel descrivere le qualità di un uomo politico che, comunque, lo si apprezzi o lo si detragga ha impersonato la lotta per l’esistenza di un intero popolo.
Un popolo che oggi viene minacciato di genocidio da una guerra che Israele ha scatenato come ritorsione e vendetta per l’odioso crimine terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023. Un popolo che non ha trovato la via dell’indipendenza, della libertà, dell’autogestione. Un popolo costretto a scegliere tra l’inefficienza dell’ANP e il fanatismo islamista.
Ecco, se reintrodotto nella storia odierna, nella più stretta attualità della crudele sopravvivenza dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania, il mito di Arafat esce da questi confini ristretti di esclusiva esaltazione e ritorna ad essere una figura storica che può, soprattutto oggi, parlare ad un presente sempre più tremendamente assente, ad un futuro invisibile, ad un passato che non va per niente dimenticato.
ARAFAT
ENNIO POLITO
DATANEWS, 1992
REPERIBILE SU ALCUNE LIBRERIE ONLINE
Dello stesso autore si consiglia anche la lettura di YASSER ARAFAT, UNA VITA PER LA PALESTINA (edizioni Alegre, 2004).
MARCO SFERINI
7 agosto 2024
foto: particolare della copertina del libro
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