Israele e la tentazione dell’apertura del fronte libanese

La minaccia più risolutamente energica arriva dal presidente turco Erdoğan: se il conflitto preannunciato da Israele contro le milizie del partito Hezbollah in Libano dovesse avere un carattere di...

La minaccia più risolutamente energica arriva dal presidente turco Erdoğan: se il conflitto preannunciato da Israele contro le milizie del partito Hezbollah in Libano dovesse avere un carattere di guerra aperta, di bombardamenti e di invasione di truppe di terra, le truppe di Ankara potrebbero, passando per Beirut arrivare fin dentro i confini dello Stato ebraico. Sarebbe la rivoluzione mediorientale in tutto e per tutto. Una rivoluzione degli assetti instabili attuali, un capovolgimento delle geostrategie regionali, una riconfigurazione globale dei rapporti con l’Occidente e con l’Oriente.

Ma, per ora, le minacce rimangono tali, anche se la situazione si fa sempre più complicata. Gli osservatori internazionali affermano che tanto l’Iran quanto gli Stati Uniti d’America, almeno in questa fase, non hanno nessun interesse a che il conflitto si espanda e divampi nell’intera regione: quant’anche sia già abbondantemente trasceso e abbia oltrepassato i confini ristretti della Striscia di Gaza. In quella porzione del Territorio palestinese occupato da Israele, Tel Aviv ha praticamente dichiarato da evacuare l’84% della prigione a cielo aperto.

I civili di Gaza, Khan Younis e Rafah non hanno praticamente più un lembo di terra in cui rifugiarsi e, tanto meno, quindi sentirsi al sicuro. Mentre i morti arrivano quasi alla fatidica cifra di quarantamila, mentre i dispersi sono oltre diecimila e i feriti oltre centomila, il governo di Netanyahu tenta tutte le carte per rimanere in sella e salvarsi come esecutivo di guerra: un conflitto che non vede la fine perché a decidere il tutto è soltanto Israele. In quasi un anno di scontri, Hamas avrebbe dovuto essere sconfitta, distrutta, annichilita nella sua dirigenza militare e politica.

Invece la resistenza palestinese persiste, gli ostaggi per la gran parte sono ancora nelle sue mani e davvero stride il fatto di riferirsi col pensiero ad un piccolo angolino di terra, ad una così grande concentrazione urbana (ormai praticamente rasa al suolo), ad una densità di popolazione tanto alta e fitta e all’impossibilità per Israele di venire a capo di un rebus in cui si è cacciata dopo le orribili stragi del 7 ottobre. L’ultima di queste, avvenuta nel villaggio di Majd el Sham nelle alture del Golan (regione siriana occupata illegalmente dallo Stato ebraico dal 1967), ha visto l’uccisione di dodici bambini di etnia drusa.

Israele considera questa etnia ormai parte integrante della propria popolazione: ma i drusi, per la maggior parte, rivendicano ancora la loro origine siriana, nonostante una piccola percentuale abbia preso la cittadinanza israeliana e dipenda economicamente da lavori con il resto dello Stato ebraico. Strumentalizzando la morte di quei poveri dodici piccoli che giocavano a calcio in un campetto improvvisato tale, Netanyahu e Smotrich si sono recati sul luogo dell’eccidio per deporre una corona e ribadire che il crimine di Hezbollah non rimarrà impunito.

Ma ad oggi non esiste una inchiesta internazionale su di che provenienza fosse il missile, chi lo abbia sparato e perché sia caduto proprio su un obiettivo che nulla aveva a che fare con la sporca guerra tra le due parti. Le ipotesi sono tante: tra queste che sia stato lanciato da Israele, oppure da Hezbollah verso un obiettivo militare e per sbaglio sia finito invece dove non doveva cadere. Oppure che, invece del Partito di Dio, sia stato qualche altro gruppo della resistenza libanese ad aver agito di propria iniziativa. Oppure, ancora, che si sia trattato di una sorta di casus belli, di una provocazione lanciata per dare adito alla fiammata contro Beirut.

In un contesto come quello mediorientale è tutto davvero possibile e nulla può essere escluso. Ma sta di fatto che il tira e molla diplomatico di questi ultimi mesi tra Israele ed Hezbollah ora rischia di scivolare nella spirale di un secondo fronte aperto, dopo quello di Gaza, in una fascia di terra che sta a ridosso di un mare in cui le attività militari navali americane, russe, turche ed anche europee sono fittissime. Washington aveva inviato una serie di convogli per pattugliare il Mediterraneo orientale e per costruire delle piattaforme di appoggio per i rifornimenti alla popolazione palestinese.

Ma aveva anche inviato lì navi militari pronte ad intercettare gli attacchi degli iraniani verso Israele. Se ne è avuta prova nel momento in cui Teheran rispose, seppure con un carattere del tutto dimostrativo, all’attacco della sua ambasciata a Damasco e all’uccisione dei propri diplomatici e di alti generali dei pasdaran: non solo il sistema difensivo di Tel Aviv, ma anche l’aviazione e le batterie di fuoco sulle navi americane avevano risposto intercettando la maggior parte degli ordigni che solcavano i cieli di Israele.

Tutto era già pronto allora per una guerra molto più vasta della sola zona di Gaza. Tutto, dunque, rimane pronto anche oggi. Le minacce di Erdoğan, però, pongono Israele davanti alla questione irrisolta della reale capacità offensiva tanto di Hezbollah, armata fino ai denti dall’Iran, quanto dell’eventuale diretto appoggio al partito di Hassan Nasrallah da parte tanto di Teheran quanto di Ankara. Quest’ultima si troverebbe in una posizione multilaterale per via del fatto di essere anche membro della NATO e, quindi, legata a rapporti diretti con il nordatlantismo e l’asse euro-americano.

Ma la causa del popolo palestinese rimane per Erdoğan un punto imprescindibile di considerazione tanto di sé stesso quanto dell’intera nazione come di un presidio di difesa di un panarabismo che può anche prescindere dalle tendenze islamiste, ma che non trascura la comune origine mediorientale rispetto alla presenza dello Stato di Israele vissuta come una “estraneità” e, ancora di più, come una usurpazione del diritto della Palestina ad esistere. E su questo punto non si può non essere concordi persino con un autocrate come il presidente turco.

La questione quindi riguarda, oggi più di ieri, la triangolazione tra Iran, Israele e Turchia, con in mezzo la guerra civile siriana e quella libanese che, da sfondo della secolare irrequietudine locale, si propongono ora come elementi di primordine nell’intersecazione dei conflitti mai sopiti tra Tel Aviv, Damasco e Beirut. La stessa provvisorietà dello status di territorio occupato del Golan è lì a dimostrare come, nel tempo, si siano cumulate una serie di problematiche locali che si sono sommate proprio internamente allo Stato fondato da Ben Gurion.

E questi problemi non sono stati risolti con la politica annessionistica, d’apartheid e imperialista dei governi tanto di destra quanto di centrosinistra di Israele. Si sono acuiti perché la narrazione della messa in discussione dell’esistenza stessa dello Stato è divenuta sempre più comprimaria dell’aspetto religioso della cultura israeliana ed ebraica. L’una, se vogliamo “laicamente“, ha declinato il tutto sul piano della sopravvivenza della nazione; l’altra, per l’appunto più religiosamente, ha teleologizzato il messaggio degli antichi padri e patriarchi finalizzandolo alla moderno diritto di Israele di esistere a scapito di qualunque cosa o persona.

Per questo la risposta araba è stata altrettanto dura ed intransigente: la cancellazione totale di quella che viene definite l'”entità sionista“, a cui, quindi, non si riconosce nessun status di paese sovrano. La guerra di Gaza è, spesso, definita dai commentatori giornalistici come “guerra totale“. Una locuzione sinistra, che rimanda alla concezione del conflitto che avevano mortiferi e omicidiari esponenti del Terzo Reich quando si riferivano al completamento dell’opera di invasione dell’intera Europa da parte della Germania. Nulla doveva essere escluso dal passaggio delle armate.

La guerra doveva comprendere tutto e tutti. Che Israele si stia ancora una volta disponendo a sfidare più nemici del consentito lo pensano in molti. Che da questo possa derivarne una sua disfatta lo pensano invece in pochi. Visti i pregressi storici, viste le attuali alleanze internazionali e la situazione in cui versa il multipolarismo nella competizione mondiale. Se, ad oggi, Tel Aviv non ha ancora aperto il secondo fronte libanese è perché sono fondati i timori di non riuscire nell’impresa così come pretenderebbe il governo di guerra e così come vorrebbero anche le alte sfere di Tsahal.

La possibilità che la reazione di Hezbollah sia tanto energica da far subire un contraccolpo forte per Israele, influenzando così anche l’andamento della guerra di Gaza, è tutt’altro che nel novero delle ipotesi aleatorie, lasciate alle considerazioni meramente illazionistiche. Se la minaccia turca, poi, si concretizzasse e seguisse in appoggio al Libano e alle milizie di Nasrallah, allora il secondo fronte diventerebbe molto più problematico del primo. Vero è che il campo di battaglia di Gaza langue e stagna, per cui Netanyahu e i generali sentono il bisogno di una nuova energia bellica da mostrare e dimostrare.

Uno spiraglio cinico in questo versante l’ha offerto la vicenda degli Houthi e degli attacchi nel canale di Bab al-Mandab: gli attacchi dei ribelli al governo dello Yemen hanno permesso ad Israele di ottenere, almeno mediaticamente, la risonanza cercata per distrarre l’opinione pubblica dagli insuccessi di Gaza e dal pantano in cui versa il conflitto. Ed è, soprattutto, stato il tentativo di aprire un secondo fronte meno direttamente impegnativo rispetto a quello libanese, attaccando nel contempo l'”asse della resistenza” che unisce la Repubblica islamica allo Yemen rivoltoso e, quindi, anche ad Hezbollah e Hamas.

Ora è probabile che Israele valuti l’attacco al Libano, che deve sempre leggersi come “attacco ad Hezbollah“, ritenendo di essere nella migliore condizione bellica per poterlo fare: indubbiamente Hamas è fortemente indebolita. Gli Houthi hanno da gestire una crisi interna che è fatta di una miriade di distinguo e di fazioni armate ora spalleggiate dall’Arabia Saudita, ora invece dall’Iran. E, nel frattempo, la guerra di Gaza continua e non se ne viene fuori.

Intanto, alla frontiera tra Libano ed Israele, la zona cuscinetto ONU pullula di caschi blu che provengono anche dall’Italia, mentre nella repubblica dei cedri abitano migliaia di europei e americani. Chi per lavoro, chi per affari, chi per relazioni familiari. Tutti vengono invitati ad abbandonare il paese se possibile. Perché l’aria che tira è davvero brutta e tira da due parti diverse e contrapposte: da nord e da sud, dalla Ankara e da Tel Aviv. In mezzo c’è una milizia armata di tutto punto con cui Israele vuole regolare i conti.

Ma se questo sia il momento migliore è davvero un grande enigma, difficile da poter interpretare prima ancora che da risolvere…

MARCO SFERINI

30 luglio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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