Che cos’è un errore? Paradossalmente, nel tentare di rispondere a questa domanda, potremmo incappare proprio in uno sbaglio e, quindi, in un errore, dando luogo ad un cortocircuito in cui ci troveremmo invischiati come tra le mura di un non fuggibile labirintico percorso. Defatigante, deprimente e quindi domanda destinata a rimanere senza una risposta.
L’errore è, per definizione, qualcosa che non corrisponde al vero, a ciò che deve essere e non può non essere. Tanto che questa descrizione un po’ sofistica ci ripropone il tema della presenza e dell’assenza di una determinata cosa, se stiamo nel campo della fisica e della riscontrabilità scientifica, o dell’ipotesi e del pensiero se ci rifugiamo in quello della metafisica e dell’elucubrazione un po’ fine a sé stessa ma, non per questo, inutile.
Se si riavvolge un po’ il nastro dello studio della filosofia nei secoli dei secoli, anzi nei millenni, ci si ricorderà di un Platone che nel congetturare le “idee negative” esclude anzitutto una ontologia del male: non esiste di per sé, ma soltanto per contrarietà rispetto all'”assenza” di idee positive”. Quindi il male “non è“, ma diviene nel momento in cui c’è un vuoto lasciato dal non fare, dal non pensare, dal non agire (si direbbe oggi) il bene.
Se per Agostino diventa necessaria una correlazione, anzi una vera e propria identificazione, tra errore e male, quindi tra sbaglio e peccato (un nesso dunque in cui la dipendenza dell’etica dalla religione è il presupposto della riconscibilità stessa dell’errore nell’errante), secoli più avanti Cartesio riprenderà la questione socratica dell’intelletto e della volontà che, come uniti una pericolosa associazione a delinquere, sono i motori primi dell’esistenza degli errori.
Nemmeno a dirlo, tanto è oggettivo (e quindi affidato anche al campo dell’antropologia, del comportamento umano nel mondo e nei confronti del mondo), l’errore è propriamente dell’essere umano. Perché molto spesso è una scelta indotta da una volontà che, senza fare nessuna confusione semiologica o semantica, è volontaria ma che non sempre è spontaneità diretta dell’individuo.
La volontà, sosteneva Carmelo Bene, «non è mai buona». Presa così, la frase può caricarsi di un significato tutt’altro che facile da comprendere. Ma se la si applica al discorso che stiamo inanellando, ci si renderà conto che la “bontà” è, più altro, la traduzione aggettivale di un soggetto che è implicito nell’essere umano ma che, nel fondersi con altre volontà, può essere un elemento di costituzione del libero arbitrio sufficientemente fallace da trarre ampiamente in inganno.
Quante volte si sente affermare: «Sentitevi liberi di sbagliare». Per imparare dai propri errori. E, quindi, ne dovremmo dedurre che la correlazione stabilita da Agostino tra errore e male è una equazione possibile soltanto su un piano metafisico che tende ad imporsi come morale superiore in una realtà dove non sempre, per l’appunto, quando si sbaglia si commette anche il male.
Si può errare senza procurare nocumento a sé stessi o ad altri. Se il fallimento è un maestro, l’errore è un professore. Una certa criminalizzazione degli sbagli è all’origine della ricerca ossessiva del perfezionamento, non tanto delle scienze e del metodo per avvicinarsi sempre di più alla verità oggettiva dei rapporti di causa ed effetto tra gli eventi fisici, ma di sé stessi. Il che conduce ad una osservazione accurata sul fenomeno egotico ed egocentristico, ad un individualismo edonistico che travalica la bontà, per l’appunto della volontà.
Tuttavia migliorarsi ed essere “unici” nell’essere sé stessi, potrebbe essere una delle vie principali attraverso cui far emergere quelle pulsioni nascoste nell’inconscio che, il più delle volte emergono come nevrosi e, quindi, ci inducono a tradire la nostra vera essenza e, nemmeno a dirlo, a commettere errori di valutazione su noi stessi: ad iniziare dal tentativo di valutarci.
Chi, in tempi ormai relativamente contemporanei, ha indagato molto attentamente l’errore è stato Karl Popper, da grande epistemologo quale era. Per prima cosa – sostiene il filosofo austriaco – bisogna abbandonare ogni velleità “induttiva” (per “induzione” si intende il ricorso all’esperienza al fine della conoscenza) che stagna in un parzialismo tale da impedire qualunque aspirazione all’universalismo (tendenza, quindi, non certezza di poterlo raggiungere…).
La verifica meticolosa delle circostanza oggettive, per quanto possa essere uno dei princìpi conoscitivi o, quanto meno, aspiri ad esserlo, rischia di farci fare dei passi falsi proprio nel momento in cui siamo più sicuri che mai di aver raggiunto una qualche specie di verità concreta e fattuale.
Famosa è la favola del tacchino induttivista: dopo, giorni, mesi in cui alla povera bestiola viene dato da mangiare sempre alle nove del mattino, anche il giorno della vigilia di Natale il povero animale si illude di ricevere lo stesso, logico, abitudinario trattamento. Invece finisce sgozzato e poi buttato in pentola. Popper insegna, quindi, che dall’induzione non si può avere alcuna certezza quanto meno epistemologica, ergo scientificamente provata e provabile.
La semplice osservazione dei rapporti di causa ed effetto o di ciò che mi appare sotto gli occhi ogni giorno, come ad esempio il fatto che le rose che vedo sono tutte con le spine, mi induce a pensare qualunque rosa sia così, ma non avrò mai la certezza se davvero sia realmente quella la verità. Cadrò immediatamente nell’errore allorquando troverò una rosa senza spine…
La scientificità di una realtà non dimostra che una teoria è vera: dimostra soltanto che resiste molto più di altre alla possibile falsificazione, alla confutazione. L’errore scientifico, quindi, diversamente da quello metafisico – morale – concettuale, è un errore che si produce mediante un metodo che include ipotesi, conseguenze della stessa e sperimentazione necessaria per mettere alla prova la prima e provare a smontarla.
Se ciò non riesce, significa che, ad ogni errore non sviluppato, si ha una resistenza della teoria scientifica che, per questo, si avvicina sempre di più alla verità oggettiva di un evento, di un fatto, di una cosa, di una parte della materia che si comporta in un determinato modo rispetto ad un altro magari solamente immaginato da noi fino alla prova della verifica pratica.
L’errore, dunque, per Popper non è un accidente o un incidente di percorso, ma è il viatico attraverso cui passare per affinare la conoscenza, per dimostrare che l’ipotesi è giusta fino a che non viene smentita o sorpassata da altre. Così procede la scienza: per dubbi e per sperimentazioni senza avere mai delle certezze precostituite e tanto meno dei preconcetti e delle prevenzioni arbitrarie.
Spinoza affermava che l’errore è una mancata conoscenza di ciò che è vero e che, quindi, sarebbe immanente nella realtà oggettiva della Natura, opera di Dio, quindi della perfezione in sé e per sé senza sfumature o definizioni ulteriori. Prescindendo dalla questione escatologia dell’origine del bene e del giusto, del vero e dell’incontestabile, non si sbaglia se si afferma che l’errore è frutto dell’esperienza.
Quindi è un prodotto del confronto tra noi e il resto del mondo: dagli altri esseri viventi al pianeta, alla relazione tanto materiale quanto immateriale e metafisica che abbiamo con ciò che ci circonda. Nel momento in cui tentiamo una interpretazione delle cose, dei sentimenti, dei rapporti di causa ed effetto, noi siamo in potenza quella giustezza o quello sbaglio che stiamo per commettere.
Possiamo dire che l’errore ci abita, è in noi a prescindere dai nostri comportamenti e, quindi, è una sorta di bagaglio innato del nostro modo di essere e di divenire giorno per giorno? La domanda rimane sospesa e lasciata alla libera interpretazione di chi legge, perché siamo tornati, inevitabilmente, nel perimetro della metafisica e, quindi, dell’imponderabile se non per mezzo dell’illazione e del confronto tra le concezioni più diverse.
Se rimaniamo, invece, aderenti – per così dire – alla realtà concreta e oggettiva, scientificamente studiabile anche tramite l’esperienza (ma senza scadere nell’induzione e soltanto in essa), più che ricercare mondi terreni assolutamente perfetti ed armonici o dimensioni ultraterrene e post-mortem in cui immaginare la felicità senza se e senza ma, è sufficientemente chiaro che l’errore ci è necessario.
Noi possiamo anche ritenere che vivere senza commettere errori sia il miglior modo per puntare alla perfezione, alla felicità assoluta, al miglior modo di interpretare l’esistenza lontana quindi da inciampi, cadute, fermate e riprese faticose. Ma i mutamenti, proprio a partire da noi, sono possibili se impostiamo un rapporto dialettico moderno del pensiero e dell’azione in una traduzione pratica che contempli obiettivamente l’errore come parte della stessa.
La scienza non è un insieme di metodi che puntano al raggiungimento della verità insuperabile, del limite entro cui stare e da non oltrepassare. Tutto il contrario. La scienza è un metodo errante, che vagabonda nell’errore perché si produce e si riproduce nella sperimentazione. E ciò vuol dire, appunto, tentare: anzitutto sbagliando.
La demistificazione dell’errore in quanto mortificante male per l’umano essere è quello che ci eravamo proposti di descrivere in queste poche righe. Non avendo la presunzione di esaurire il discorso, ma di fare esattamente quello che Popper sintetizza nella definizione di “utilitarismo negativo“: provare e riprovare, a pensare, scrivere, fare per dare adito ad altre prove.
L’errore non è peccaminoso e non è uno stigma da sentirsi appiccicato addosso. L’interpretazione agostiniana è piuttosto isolata in questo senso nella storia della filosofia. È molto più avvincente e interessante seguire la descrizione kantiana della formulazione dell’errore in noi e fuori di noi:
«La ragione umana, anche senza il pungolo della semplice vanità dell’onniscienza, è perpetuamente sospinta da un proprio bisogno verso quei problemi che non possono in nessun modo esser risolti da un uso empirico della ragione. E così in tutti gli uomini una qualche metafisica è sempre esistita e sempre esisterà, appena che la ragione s’innalzi alla speculazione».
Non si scappa dall’induzione empirica che tradisce una tendenza metafisica nel provare a desiderare ciò che vorremmo fosse vero, perfetto, immutabile nel momento in cui corrisponde alla nostra idea o percezione di felicità. Quella di Kant non è rassegnazione al fatto che empirismo, fisicità dei fenomeni e metafisica devono, tutto sommato, provare a convivere in una qualche forma di sintesi nella ricerca della verità. Più che altro è constatazione del comportamento umano.
La scienza per Kant è una certezza, la metifisica è oggetto della sua domanda sulla possibilità che possa esistere, proprio perché non è una scienza. Senza forzare i confini tra i differenti sistemi filosofico-epistemologici, in fondo Popper non fa che dire questo: la caratteristica della controprova costante, della ricerca della fallibilità dei teoremi è la dimostrazione, nella negazione dell’errore mentre l’errore viene cercato, che il metodo scientifico tende alla verità.
Il criticismo kantiano è, del resto, il pilastro della conoscenza che è possibile solo mediante il giudizio. Quindi siamo perfettamente dentro un contesto di corso e ricorso costante al confronto tra ciò che presupponiamo vero e ciò che diviene temporaneamente vero fino a che non è surclassato da un’altra verità che si dimostra più efficace, quindi aderente meglio all’oggettività che ci preme così tanto.
La metafisica è invece una prateria in cui l’errore non è un mezzo conoscitivo, ma una plausibilità costante. Non può aggiungere nulla a ciò che è stato pensato, perché quel pensiero è una speculazione soggettiva e non può pretendere di dimostrare niente. Può solo interpretare e rimanere ben al di qua della parzialità induttiva.
Possiamo sbagliare, dobbiamo sbagliare. Ma sapendo che l’errore fine a sé stesso è altrettanto deleterio ed inutile quanto quello che vive nell’empireo della metafisica: immaginare e riflettere giova all’animo, ma poi, comunque, un accostamento alla realtà materiale bisogna comunque averlo. Altrimenti negheremmo la nostra natura di esseri auto-coscienti e capaci di intervenire nell’essere delle cose per modificarle in meglio.
Almeno questo dovrebbe essere il compito di un essere umano perfettibile che non fa dell’errore l’alibi per non migliora sé stesso e tutto ciò che lo circonda.
MARCO SFERINI
21 luglio 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria