Il 18 floreale dell’anno II della Repubblica francese, Maximilien Robespierre pronuncia alla tribuna della Convenzione nazionale un discorso “Sui rapporti delle idee religiose e morali con i princípi repubblicani e sulle feste nazionali“.
Prescindendo dall’abbondante dose di retorica patriottarda che l’Incorruttibile mette enfaticamente nel sua perorazione davanti ai deputati della Nazione, il testo che ci è arrivato è importantissimo per comprendere non solo il pensiero del capo giacobino sui temi trascendenti la materialità delle cose, quasi oltre la fisicità dell’evento che dal 1789 ha spinto l’Europa e il mondo al cambiamento radicale, ma anzitutto i rapporti che, in quel caotico eppure anche lineare avvicendamento cronologico degli avvenimenti in successione fra loro, si andavano piano piano modificando.
Rapporti tra coscienza appunto rivoluzionaria e coscienza anche intima, personale: la convinzione di una credenza, di una fede che si andava, suo malgrado, confrontando col passato della tradizione cattolica millenaria e una nuova idea tanto del divino quanto del divino raccontato dall’essere umano e, quindi, tradotto teleologicamente in una narrazione tutt’altro che accettabile per quel mondo che, proprio nei re e negli imperatori, identificava la missione loro affidata per grazia esclusivamente di Dio.
La volontà della Nazione inizierà a farsi sentire, per l’appunto, con la Rivoluzione e come compromesso per poter regnare costituzionalmente in molte parti d’Europa senza vedersi rovesciare il trono e tagliare, di conseguenza, la testa. Non era stato il motivo religioso-fideista a scatenare la Rivoluzione inglese delle teste rotonde e dei puritani, ma va oltre ogni ragionevole dubbio storico il fatto che la presenza alla corte di Londra di una regina cattolica non aiutò, per così dire, la sorte di Carlo I Stuart. Il primo re ad essere decollato dal boia.
Luigi XVI non aveva affatto messo in conto di fare la stessa sorte e, probabilmente, nemmeno i capi rivoluzionari che le lotte fra le fazioni spinsero gli uni contro gli altri per il controllo di un mutamento così radicale e repentino che, nonostante si fosse spalmato nel corso di un lustro, non faceva che innovarsi continuamente per via delle reazioni cui costringeva le monarchie europee che non volevano fare la stessa sorte dell’ultimo Capeto.
La questione religiosa, a partire dal 1789 assume, così, in Francia il connotato secondario, ma non irrilevante o trascurabile, di un aspetto dell’esistenza che deve cambiare al pari di tutto il resto.
Nei massacri del settembre 1792, quando la Rivoluzione percepisce nettamente l’accerchiamento fra l’attacco degli austro-prussiani che invadono il territorio francese e gli amici del re che complottano in patria, vengono quindi inseriti i preti, il clero che faceva parte degli Stati Generali, al pari dei nobili che sono, oggettivamente, i primi nemici del popolo insorto e ingestibile dal comitato esecutivo di un governo provvisorio che non può fare altro, almeno in quel preciso istante, se non assistere impotente alla furia della disperazione.
Si è, quindi, oltrepassato il confine storico, ideale, religioso e politico del rispetto dell’abito talare, della sudditanza, oltre che ai monarchi, anche nei confronti di una Chiesa che esigeva le decime e che viveva, nel nome di Dio, alle spalle della povera gente.
La Rivoluzione è processo autocosciente e, quindi, mutante le coscienze. Permette, mentre si rivela giorno per giorno nella sua eccentrica novità di cambiamento irrefrenabile, la corroborazione di una morale fondata su valori sociali, su una condivisione che infrange l’esclusivismo del privilegio e, pertanto, anche la fede assume una dimensione intima e collettiva differente rispetto al passato.
Le fazioni, anche qui, non tardano a farsi sentire: c’è chi, come Chaumette, vorrebbe la “scristianizzazione” completa della nuova Francia repubblicana. C’è chi invece, seguendo la vecchia (ma nemmeno tanto) via della “Costituzione civile del clero” preferirebbe la via del compromesso, seppure l’impianto morale e legale della Rivoluzione è così emergenziale in quel momento da impedire una certezza in questa direzione e, quindi, nessuno sa davvero quale potrà essere la natura e giusta conclusione del processo avviatosi con l’apertura degli Stati Generali e poi con la presa della Bastiglia il 14 luglio 1789.
Quando la barca della Rivoluzione sembra prendere acque più calme, stabilizzando la sua rotta, mentre gli eserciti della Convenzione ottengono successi su quasi tutti i fronti aperti nelle guerre contro la prima coalizione delle potenze monarchiche all’assalto della Repubblica, è Robespierre a ritenere utile, esattamente da un punto di vista socio-antropologico, dare nuovi punti di riferimento al popolo sul terreno della moralità, dell’eticità, della religiosità. Per quanto disprezzi il potere della Chiesa di Roma, l’Incorruttibile non è, di conseguenza, un ateo impenitente.
A suo modo ha, fin da ragazzo, conservato in sé una proiezione della sua visione più generale del mondo e dell’umanità affidata ad un teleologismo che lo ha ispirato anche nella missione rivoluzionaria in cui, in parte, si è trovato e in cui, per altra parte, si è immerso con una passione invidiabile.
Nel discorso che si citava all’inizio di queste righe, puntualizza anzitutto che «…il mondo morale, assai più che il mondo fisico, appare pieno di contrasti e di enigmi. La natura ci dice che l’uomo è nato per la libertà, mentre l’esperienza dei secoli ci mostra l’uomo ridotto in schiavitù…».
La sua credenza è a metà tra il vecchio culto cattolico, ereditato più per tradizione che per convinzione, e un nuovo culto di cui egli stesso deve ancora scoprire le connotazioni e i contorni. Non si può nascondere il misticismo robespierrista nel fervore che anima Maximilien: è un giovane le cui speranze di felicità sono tutte nella causa rivoluzionaria. Se non fosse per la fine che gli è toccata, si potrebbe, a posteriori, dire che è stato molto fortunato a vivere in un’epoca in cui ha potuto esprimere al meglio la sua enigmatica, controversa, affascinante natura.
L’uomo che guida la Rivoluzione nella sua seconda fase, quella dell’assestamento del potere e della vita quotidiana di un popolo attanagliato dalla povertà e dalle restrizioni imposte dal regime di guerra permanente con più di mezza Europa, è, a differenza di Danton, Desmoulins, Brissot, Vadier o anche Hébert, un indagatore del dubbio, un seguace della Ragione che lo alimenta, un convinto assertore della necessità umana di rivolgersi a qualcosa più grande di sé stessa.
Il cambiamento del mondo – sostiene davanti alla Convenzione in quel giorno di maggio del 1794 – è parte di una dialettica della natura che non esclude niente e nessuno e comprende ovviamente ogni relazione che intercorre tra l’essere umano e il resto dell’esistente.
Il Robespierre mistico, pur non commettendo l’errore di non considerare prioritari i rapporti di forza economici, pure in una interpretazione tutt’altro che classista e tutt’altro che marxista ante litteram, attribuisce alla moralità e alla credenza religiosa una rilevanza che è trascendente ed immanente al tempo stesso. L’inseparabilità di questi due aspetti dell’uomo e del cittadino sono sintetizzabili nel concetto di “Virtù” che l’Incorruttibile esprime come principio di un’etica laica che non si sovrappone ma si integra al culto dell’Essere Supremo.
Ciò che intende combattere è quell’egoismo che è alla base delle monarchie e dei privilegi nobiliari, e che definisce come “crudele e vile“, proprio perché è l’attitudine mediante cui si incrostano le differenze sociali e si favorisce un pugno di individui a scapito della grande massa popolare che sopravvive nella più infame indigenza. La Chiesa romana è stata parte di questo sistema di potere. Che la Rivoluzione scardina, stravolge, letteralmente lo capovolge.
Ma ciò che Maximilien vuole provare a far prevalere, con la religione della Ragione che non va messa in contrapposizione al nuovo culto repubblicano che inaugura alla Convenzione in quel floreale dell’anno II della Repubblica, è «…un egoismo generoso e benefico che confonde la nostra felicità nella felicità di tutti, che lega la nostra gloria a quella della patria».
Per quanto questo secondo egoismo sia più una affermazione di mero principio che un dettato morale vero e proprio, è significativo il fatto che sia messo in correlazione con la “Virtù” repubblicana e, quindi, venga in pratica reso uno dei presupposti della nuova religione francese di massa: sono sempre le passioni che – sottolinea – rivelano all’uomo chi è veramente. Sono loro che lo guidano nell’elevazione o nelle profondità dell’abiezione. E, quindi, la finalità istituzionale della Repubblica ha come compito primo l’esaltazione delle pulsioni singole che si richiamano al benessere comune.
L’idea di “Essere Supremo” che propone alla Convenzione non è quella di un Dio inventato al pari degli altri “falsi dei” di quello che chiama “l’ateismo delle religioni“, ma di una ispirazione sovraumana che sia contemplazione della bellezza dell’esistente: dalla volta celeste alla Nazione francese. Dal mondo intero a Parigi e viceversa. L’universalità dei princípi cui si richiama è teleologica: tutto ha un fine e si rivolge verso un fine.
L’Essere Supremo è l’idea più vicina a Dio che la religiosità rivoluzionaria riesce a partorire. Robespierre è un convinto assertore della necessità della credenza religiosa, ma non della religione in quanto tale. Il suo è un misticismo interiore che si coniuga con un afflato eversivo nei confronti dei culti fino ad allora esistiti. Non c’è negazione del Cristianesimo in quanto tale, ma non si cita nessun profeta nel nuovo culto panteistico (o cosmoteistico) robespierrista.
La polemica con Chaumette, del resto, si fondava proprio sul punto del divieto di professare un credo religioso. Robespierre non vieta ma afferma, non proibisce ma invita ad abbracciare una nuova idea di Dio: scorgendolo nel “tempio” della Natura e dell’Universo e nella pratica quotidiana del virtuosismo cittadino da buon repubblicano egualitarista.
Proprio l’aspirazione alla conoscenza di una finalità dell’esistente e l’intuizione, tutta umana, dell’immortalità dell’anima (o se vogliamo l’idea della stessa…), sono per lui uno dei gradi più alti cui è giunta la bellezza del pensiero autoconsapevole. Ne consegue che c’è una sorta di ancestralismo in tutto questo, per cui la proibizione dei culti è un capriccio del potere, una ingenuità del dominio di una parte della società sull’interezza rappresentata dal popolo.
Il contrasto di un culto consolidato, così come gli scristianizzatori alla Chaumette erano intenzionati a portare avanti la loro azione politico-morale-antireligiosa – è per Robespierre un’azione che nuoce alla Rivoluzione: perché crea smarrimento, impedisce un passaggio indolore da una credenza millenaria ad un nuovo modo di leggere e vedere il mondo che muta nel corso della breve esistenza di una vita umana.
Nel sistema sociale c’è, per l’Incorruttibile, un “surrogato” della divinità: la Rivoluzione è ciò che più tende ad una perfezione esistenziale che guarda ad una armonia tra immanente e trascendente, tra vita terrena e pensiero dell’ultraterrenità. Ne è così convinto che, per persuadere i deputati, cita Leonida poco prima della battaglia delle Termopili e Socrate: il primo che promette un banchetto nell’aldilà uguale a quello che sta tenendo con i suoi soldati; il secondo che non insegna ma apprende di continuo, anche nel momento della morte e parla di immortalità ai suoi amici.
Norman Hampson, che è stato uno dei più grandi studiosi della figura del più iconico rivoluzionario della Francia di fine Settecento, ha ammesso di non riuscire a risolvere l'”enigma Robespierre“. Se lo rileggiamo alla luce anche del suo pensiero religioso, non possiamo non dargli ragione.
MARCO SFERINI
14 luglio 2024
foto: elaborazione propria