Prende tempo Macron. E proprio nel senso più letterale del termine. Se lo prende, sottraendolo alle forze politiche che potrebbero, con tutte le buone intenzioni, provare a formare una maggioranza di governo nell’Assemblea nazionale che non sia di compromissione ma che, oggettivamente, comunque ricalchi un certo qual compromesso con una inevitabile propensione alle ragioni sociali e civili portate avanti dalla gauche.
Sarebbe inevitabile se si seguisse alla lettera il risultato delle urne: dove la sinistra non vince ma prevale di gran lunga sui suoi concorrenti e riesce nell’impresa di dare un contributo determinante alla retrocessione del Rassemblement National in terza posizione; dove il centro della macronie recupera ma perde; dove la destra avanza ma perde e sonoramente.
Sarebbe ma non è inevitabile, perché il presidente sta lavorando proprio all’evitamento di quella conseguente assegnazione del primo ministero al Nuouveau Front Populaire, lì dove La France Insoumise è la forza di maggioranza.
Il terremoto politico (ed istituzionale) che si è aperto in Francia con la chiusura delle urne europee nella prima decade di giugno emana il suo sciame sismico nel pieno di una estate che si preannuncia davvero torrida per la tenuta di un fronte repubblicano anche sul piano delle riforme e che, dunque, rimetta al centro dell’azione assembleare i princìpi ed i valori della Repubblica francese: ad iniziare dalle garanzie per i più deboli e, pertanto, dal rovesciamento delle politiche macroniane fatte fino ad oggi.
Politiche che hanno creato i presupposti di un malcontento popolare generale che, saldato alla voglia di stabilità di larga parte del ceto medio, ha dirottato i consensi trasversali sul Rassemblement National che, però, ha fatto il pieno di voti al primo turno e non è riuscito ad intercettare il voto moderato da un lato e quello di un astensionismo di sinistra al secondo passaggio elettivo.
Se, provando a fare una analisi del post-voto, si riscontra un piano di equilibrio tra pessimismo ed ottimismo un po’ in tutti e tre i grandi blocchi formatisi, un dato esclusivamente positivo è fornito dal reingresso in scena del blocco contro le destre estreme, contro il pericolo di sovvertimento di quella contrattazione sociale che è una eredità mai dimenticata della Rivoluzione.
Paradossalmente, la maggiore partecipazione al doppio turno dei collegi, con triangoli e persino quadrangolari nei singoli dipartimenti, non dà come effetto quella maggiore governabilità che ne dovrebbe in qualche modo derivare, ma offre un quadro ancora più incerto rispetto alla prima turnazione.
Perché, nel momento in cui sono messi in pericolo i fondamentali della Repubblica francese, i francesi si riconoscono in sé stessi proprio nell’antifascismo, nella preservazione di una libertà civile che, magari, vorrebbero tradotta anche in diritti ed eguaglianza sociale. Ed è qui che si complica un po’ tutto: perché il timore del riformismo di sinistra spaventa a morte non tanto la borsa parigina, che infatti non reagisce negativamente, ma il lungo corso di governo che si prospetta.
Non è l’incertezza sulla formazione del nuovo esecutivo ad agitare i sonni dei macroniani e dei loro amici liberisti, finanzieri e banchieri. È il fatto che, in qualche modo, quel primo posto raggiunto dalla sinistra vuol dire non poter trascurare del tutto la volontà del popolo e, quindi, prendere atto che – a rigor di logica – il primo ministro dovrebbe essere del Nouveau Front Populaire. Ed il governo, di conseguenza, seppure magari di compromesso (ma non certamente di caratura tecnocratica) avrebbe una conseguente, politicamente logica connotazione progressista e rifomatrice.
In chiave sociale, ovvio. Per cui riforme e riformismo non sempre necessariamente coincidono. Anzi, spesso le forze che si dichiarano tali sono proprio quelle che maggiormente spingono le basi sociali ad un atteggiamento conservatore, quando non anche apertamente reazionario. È facile utilizzare le terminologie; più difficile è mettere in pratica quei valori che sono alle fondamenta di compromessi che non intendono scadere al livello infimo delle compromissioni.
La lettera di Macron sullo stato attuale della politica francese ha consegnato al paese qualcosa di più della sensazione di una sospensione della “prassi repubblicana“, per cui si affida al primo partito (o coalizione), uscito tale per numero di voti dall’elezione legislativa, il compito di tentare la formazione della maggioranza a sostegno del futuro governo. L’attendismo macroniano è la chiave di lettura del timore che hanno le classi economicamente dirigenti nell’affidare l’esecutivo alla sinistra. Ma questo attendismo non può durare a lungo.
A rompere il disincanto del Presidente, peraltro nemmeno seguito completamente da Attal su questo terreno accidentato, sarà la CGT nei prossimi giorni: la chiamata alla mobilitazione a sostegno di un incarico ad un nome – che prima o poi dovrà venire fuori dal Nouveau Front Populaire – per il o la primo ministro francese della guache è quindi l’obiettivo di una radunanza dei rapporti di forza necessari per capovolgere il temporeggiamento presidenziale che l’ultima frontiera di una sconfitta elettorale che non viene ammessa.
Se oggi, numeri alla mano, possiamo raccontare di una sostanziale tenuta di Ensemble, questo lo si deve anche a qualcosa di più di una trentina di deputati centristi eletti con i voti desistenziali delle cittadine e dei cittadini sostenitori del NFP. Quindi, l’ipoteca della sinistra sul centro pesa anche in questo senso; soprattutto se si considera il fatto che, di converso, altrettanto impegno nella formazione del “blocco repubblicano” contro il Rassemblement National non si è potuto registrare da parte macroniana. Di più dalle dichiarazione del solito, ex socialisteggiante Gabriel Attal.
Promette la CGT che, già dai prossimi giorni e sicuramente il 18 luglio, data di insediamento della nuova Assemblea Nazionale, il sindacato scenderà in piazza invitando chiunque voglia un governo progressista e riformatore, che capovolga le politiche liberiste, ad unirsi alla mobilitazione che, c’è da crederci conoscendo la capacità di partecipazione – anche su un lungo periodo – delle e dei francesi, sarà una nuova spina nel fianco per il tentativo di Macron di dichiarare che, tutto sommato, visti i risultati, dal secondo turno non appare abbia vinto nessuno.
Ci prova il presidente a prendere per stanchezza il NFP, a logorarne l’unità, a scavare contraddizioni interne che, oggettivamente, esistono ma che, almeno fino ad oggi, sono risultate indubbiamente non rilevanti davanti alla possibilità concreta di accedere al governo di una grande nazione che, facendo il paio con quello spagnolo, e dialogando con le timide socialdemocrazie tedesche e il laburismo inglese, potrebbe ribaltare l’asse strategico-politico dell’intera Unione Europea, spostandone il baricentro da destra verso sinistra.
Chiaramente, qualunque sia alla fine lo scenario che si andrà componendo, tessera dopo tessera dell’intricato puzzle venuto fuori dal risultato delle urne, nulla sarà davvero più come prima.
Le dimissioni di Attal, che oggi sembra saranno accettate proprio nella data di convocazione dell’Assemblea Nazionale, sono un atto dovuto ma tutt’altro che scontato: per quanto breve sia il lasso di tempo che separa la fine del secondo turno delle legislative con il 18 luglio, queste settimane sono servite e serviranno ancora a Macron per tentare di escludere quegli “estremi” che, in una perfetta logica liberista, non possono condizionare la politica e l’economia di Francia.
C’è, sostanzialmente, una crisi di identità politica che finisce, quindi, col riverberarsi sul diretto rapporto con il mondo dell’impresa che sta cercando di capire ora su quale partito puntare: difficile possano essere La France Insoumise e il Partito Comunista Francese. Difficile possano essere ormai il Rassemblement National (che pure lo è stato in un primissimo tempo, col vento delle europee in poppa) o i socialisti di per sé stessi, vista la loro appartenenze (e quella dell’ex presidente Hollande) al campo del NFP. Difficile anche possano esserlo soltanto i macroniani.
Così, il voto ha praticamente istituzionalizzato la crisi di fisionomia socio-politico-economica di un paese dove, però, forte è ancora il sentimento laico di un repubblicanesimo dei valori che echeggiano nei secoli dei secoli passati e che sono la chiamata a non regalare la nazione a chi vorrebbe mettere da parte i diritti e i doveri nel nome delle differenze come stigmi, come esclusivismi, come criticità da combattere.
La forza della Francia egualitaria e antifascista oggi è stata, in tutta onestà intellettiva più che intellettuale, quindi facendo ricorso semplicemente ad un tenero e condiscendente buon senso, rimessa in moto da un balzo energizzate provocato da una sinistra che non era affatto data per prevalente su lepenisti e bardelliani. Chi avrebbe scommesso che al secondo turno la guache avrebbe relegato, con la formula desistenziale vittoriosa (ecco chi ha veramente vinto), il RN al terzo posto?
Pochissimi. Forse nessuno. Ne parlò Mélenchon poco dopo il primo turno, in alcune interviste cartecee e televisive e quasi tutti gli diedero del funanbolico visionario. Come sempre accade a chi si spinge in previsioni che, quanto meno, effettivamente risultano un po’ strampalatamente azzardate. Eppure la capacità aggregativa della sinistra si è fatta sentire e ha indotto anche una parte del centro a muoversi nella direzione della salvezza nazionale, del blocco, del fronte più unitario possibile contro il pericolo lepenista.
Se il Nouveau Front Populaire non avesse fatto così ostinatamente e duramente appello ai suoi elettori per un voto contro ogni candidato del RN, oggi probabilmente commenteremmo – e già da qualche settimana – i destini della Francia affidati ad una forza di estrema destra, conservatrice e reazionaria. Non parleremmo della possibilità di avere un governo progressista che capovolga le politiche di Macron, che punti all’introduzione del salario minimo a milleseicento euro al mese. Ci confronteremmo su come limitare i danni possibili.
Nelle prossime giornate, quindi, si decideranno, con le mobilitazioni di piazza, quei rapporti di forza che potranno incidere sulle decisioni presidenziali. Se saranno così numericamente importanti da indurre l’inquilino dell’Eliseo a rientrare nei margini della “prassi repubblicana“, lo sapremo molto presto. Che si debbano tenere è già una anomalia rispetto ad un passato in cui incertezze nel merito non ve ne sarebbero state.
Il timore della sinistra al governo spaventa questi finti liberali più di qualunque recupero di consensi dei postfascisti, dell’alterità delle destre estreme rispetto ai valori fondamentali della Répubblique. Ed è giusto che sia così. Ed è giusto che continui, lotta dopo lotta, ad essere sempre così.
MARCO SFERINI
12 luglio 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria