Matteo Salvini, ieri, non si è accontentato di smentire gli articoli che gli attribuivano commenti molto più che minacciosi all’indirizzo dell’alleata Giorgia Meloni, «Se votasse von der Leyen potrebbe essere la sua fine». Ha dovuto anche annunciare il mandato ai legali per procedere contro chi gli avrebbe messo in bocca parole mai pronunciate.

Se alla reazione inusualmente dura si aggiunge che la smentita è arrivata solo verso le 15 ora italiana, quando a Washington, dove si trovava Meloni, erano mattina, è inevitabile sospettare la sfuriata telefonica, per quanto palazzo Chigi categoricamente neghi.

La premier, del resto, era già irritatissima col vice leghista: di certo quegli articoli non le hanno rallegrato la giornata.

Soprattutto perché, indipendentemente da Salvini, il problema è reale. Il nodo del voto sulla candidata del Ppe alla presidenza bis della Commissione europea è diventato molto più dirimente di quanto la premier prevedesse e soprattutto si augurasse.

Ci hanno pensato i Patrioti, facendo del no a Ursula una specie di bandiera della destra europea. Smentite a parte, Salvini ci ha tenuto a precisare che lui e i Patrioti non potrebbero mai sostenere quella candidata e attestata sulla stessa linea è anche buona parte dei i Conservatori, con il Pis polacco tentato dalle sirene di Orbán, Le Pen e Salvini.

Per la leader di FdI votare per l’amica von der Leyen senza passare per fiancheggiatrice, oltre tutto mal pagata, del Ppe è diventato un grosso problema. Ma d’altro lato non votarla è quasi impossibile: significherebbe ammettere il fallimento totale di tutta la sua strategia da quando si è insediata a paqlazzo Chigi. Che Salvini lo abbia sottolineato o meno, sconfitte del genere in politica costano sempre caro.

Insomma, di qui al 18 luglio, data fatidica del voto sulla presidenza nell’aula di Strasburgo, Meloni deve trovare una via per appoggiare la ripresidente senza che ciò suoni come asservimento ai Popolari.

Molto dipenderà da come si comporterà l’establishment europeo, se insisterà o meno nella decisione di umiliare l’italiana come nella scelta dei vertici europei.

La spartizione delle presidenze di commissione decisa ieri dai partiti della maggioranza Ursula è un segno moderatamente positivo.

Intorno ai Patrioti resta il «cordone sanitario», apertamente rivendicato dal presidente del Ppe Weber, che li tiene fuori dalla porta. I Conservatori invece la presidenza della commissione Agricoltura, più altre due presidenze: segno che Giorgia Meloni è considerata ormai presentabile.

Nel giro di consultazioni in vista del voto, poi, la candidata von der Leyen dovrebbe incontrare anche il gruppo Ecr e anche questo è un segnale confortante. Segnerebbe ancora di più la linea di demarcazione tra gli antieuropeisti indegni di essere consultati e la ex sovranista quasi ravveduta.

Del resto non è un mistero che proprio von der Leyen stia facendo il possibile per conquistare il voto almeno di FdI, se non di tutta Ecr, nonostante il veto di Macron e Scholz.

Un passaggio importante sarà l’incontro di oggi tra la candidata e i Verdi. Se a fornire la principale rete di salvataggio anti-franchi tiratori fossero loro, il voto di Meloni somiglierebbe molto a una ruota di scorta.

Senza contare lo sbilanciamento politico della Commissione in direzione del Green Deal, bestia nera della destra europea quasi quanto l’immigrazione.

Ma alla fine la partita si giocherà sul commissario che l’Italia otterrà e soprattutto sulle deleghe che gli verranno attribuite. Se non fossero davvero soddisfacenti Meloni si troverebbe di fronte alla situazione peggiore: quella che in gergo si chiama lose-lose. Quando perdi comunque.

ANDREA COLOMBO

da il manifesto.it

foto: screenshot ed elaborazione propria