Curiosa patologia quella che, ad ogni termine di spoglio delle schede di un’elezione (ormai poco importa che si tratti di politiche, amministrative o europee), prende vita nell’astio di un popolo della sinistra di alternativa che inizia ad insultarsi, ad anatemizzare, a disprezzare ciò che poco prima aveva sostenuto.
Pare che sia un fenomeno, comunque, abbastanza comune agli sconfitti. Ma noi, come gente di sinistra, in particolare come comuniste e comunisti, dovremmo aver capito che, almeno a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, il capitalismo ha imposto la sua visione e il suo modello di anti-società alla società stessa e che, quindi, se la lotta di classe ha avuto una possibilità nel Novecento, in quell’inizio di ultimo trentennio l’ha poi smarrita.
La vittoria del liberismo, per carità, non è sempiterna. Come ci ha insegnato il lungo lavoro di analisi di Marx ed Engels, (non di meno di Rosa Luxemburg e Lenin), ci troviamo sempre dentro un divenire di fenomeni che dalla loro storicizzazione passano ad un presente che diviene futuro sempre più in brevi lassi di tempo produttivo e, quindi, di repentina trasformazione sociale.
Quindi, dovremmo aver capito – ma pare invece proprio di no – che la fase in cui ci troviamo è di sconfitta storica; mentre l’altalenante ed estenuante alternanza tra centodestra e centrosinistra, nel gioco perverso del bipolarismo esportato (ed importato da certi agenti della sinistra ultramoderata di casa nostra), fa parte del tentativo di stabilizzazione di uno status quo economico-finanziario protetto da un sovrastrutturalismo istituzional-politico che gioca alla differenza sui diritti civili e ritrova una sintonia su economia e, nello specifico, sulla variante di guerra della stessa.
Il ruolo che la sinistra in Italia ha assunto dopo il 1989, dopo quindi la fine della Guerra fredda e l’avvento dell’era breve dell’unipolarismo statunitense, è stato quello di comprimarietà da un lato, di opposizione e compromesso dall’altro alla gestione di governi in cui la trasformazione del mai veramente sviluppato socialdemocraticismo del Bel Paese è stata la premessa per una domanda di alternativa al berlusconismo che gli fosse quasi speculare nella composizione di forze.
Con la sola, importantissima, differenza sull’eterogeneità e omogeneità delle stesse fra loro. Lega Nord e Alleanza Nazionale, per quanto distanti fra loro, politicamente ed anche osservando la stessa geografia del voto, federate da Silvio Berlusconi e dalla sua Forza Italia, sono diventate quel polo di destra che l’Italia non aveva mai avuto.
Nemmeno quando la Democrazia Cristiana si era spinta, molti decenni addietro, ad esperimenti di avvicinamento a quell’area proibita dal patto costituente.
Alla nascita, quindi, della destra italiana moderna ha corrisposto non la nascita di una sinistra moderata e di alternativa che ha trovato un punto di sintesi nella programmazione sociale, nella difesa dei diritti del mondo del lavoro, di quelli civili ed umani al tempo stesso. Al berlusconismo si è risposto non con una piattaforma di giustizia dal basso, ma di ricerca del governismo a tutti i costi dal’alto.
La legislazione elettorale, utilizzata a proprio piacere da vincitore a vincitore, di volta in volta, ha penalizzato ogni tentativo di costruire un polo della sinistra senza centro che si incuneasse tra i due maxi-contendenti composti da eterogenee omogeneità messe insieme per opportunismo più che per sincera propensione alla tutela del pubblico interesse e dei beni comuni.
Se la destra questa ipocrisia l’ha connaturata nella sua disposizione alla convergenza tra potere politico e privilegi delle alte caste economiche e persino militari, per la cosiddetta “sinistra” diventata sempre più centro col renzismo (salutato da un disperato popolo di sinistra come il salvatore del nuovo progressismo italiano…), tecnicizzata dal draghismo e ora tornata su posizioni socialdemocratico-liberali, è stata ed è tutt’ora una scelta consapevole.
Voler rappresentare, dal lato progressista, un interclassismo politico coniugando le ragioni del lavoro con quelle dell’impresa ha sbiadito le prime in quanto elemento caratterizzante da sempre la sinistra tanto comunista quanto socialdemocratica.
Il punto è che, dopo la fine dei Democratici di Sinistra, il PD ha rappresentato una anomalia tutta italiana: la convergenza tra ex comunisti ed ex democristiani nel nome di una alternanza di governo, di una accettazione del liberalismo come base culturale e politica a cui abituare le masse.
Convincendole che gli interessi dei lavoratori e quelli degli imprenditori, se fatti camminare insieme, facevano il bene nazionale, quello addirittura comune. La risposta a questa palese e pelosa incongruenza è stata, da sinistra, un tentativo di proporre vecchi schemi che non hanno più funzionato.
Mentre hanno prevalso parole d’ordine pure vecchie ma innovate da un bisogno di populismo che ha sopperito le deficienze di una democrazia piegata al privato in quasi tutto e per tutto. Tanto dai governi delle destre quanto da quelli dei diversi centrosinistra che si sono avvicendati.
Oggi, il dramma esponenzialissimo della guerra che rischia la globalizzazione, l’estensione su ogni continente, pone tutte queste problematiche cumulate, irrisolte e su cui vecchi e nuovi compagni ritornano con una pesantezza antidialettica che rasenta il parossismo quando non si accorgono dell’urgenza di un movimento per la pace amplissimo e interculturale, transideologico, le pone in secondo piano.
Quanto meno in secondo piano, se non in terzo o quarto. Non se può davvero più di leggere fiumane di commenti sui social in cui, invece di tentare anche un brevissimo ragionamento politico, si insulta chi non la pensa allo stesso modo o chi critica un percorso fatto piuttosto che un altro.
Dovremmo anzitutto smetterla di fare la guerra tra noi per poter essere credibili quando parliamo di pace. Siccome, e dico anche più che giustamente e doverosamente, non ci abituiamo alle sconfitte, perché la rassegnazione non ci appartiene, non è però conseguente che si debba aprire un clima da resa dei conti ogni post-voto.
Il momento storico in cui siamo immersi è platealmente una tragedia che investe interi popoli. Alla guerra si accompagnano rigurgiti neonazionalisti che ricordano sempre più la crisi proprio delle democrazie e del liberalismo dei primi decenni del Novecento. Ci sono decine di avvisaglie in questo senso. Eppure noi ci consentiamo il lusso di aprire dibattiti sulla purezza ideale, sull’anti-atlantismo di questo o quell’altro, creando animosità che non servono a niente.
Siamo caduti nella trappola dei social fin troppe volte. Bisogna vedersi, incontrarsi, parlare di persona, guardarsi negli occhi ed avere il coraggio delle proprie parole e dei propri pensieri.
Non replicare compulsivamente ad ogni commento, come se avessimo la missione di far conoscere una sorta di verità rivelata da noi medesimi a tutti gli altri. La fine dei grandi comparti ideologici ha portato con sé una singolarizzazione egocentrica del ragionamento che, portata alle estreme conseguenze, finisce coll’essere scollegamento dal resto della realtà.
Ognuno tenta di pensarla a suo modo e pretende che questo metodo sia foriero di un merito che non può essere oggetto di critica. Il pensiero di massa ha lasciato il posto alla radicalizzazione dell’individualismo anti-culturale, della soggettivizzazione delle considerazioni che, quindi, sono le nostre celebrità a cui non può essere negato il palcoscenico dei social, megafono di una pochezza argomentativa che, lo scopriranno le future generazioni, produrrà un analfabetismo di ritorno impressionante.
Se intendiamo anche solo ipotizzare una unità della sinistra di alternativa, una collaborazione di questa con quella moderata che può, ora, sotto la guida di Elly Schlein forse trovare una sua identità di partito, anzitutto ci tocca ripensare ai modi in cui ci consideriamo reciprocamente. In questi anni la spersonalizzazione delle comunicazioni è progredita attraverso il sempre maggiore tempo che dedichiamo non tanto ad Internet quanto ai social network.
L’alienazione classica intesa da Marx, come fenomeno di espropriazione della personalità e della vita del singolo lavoratore, dell’essere umano in quanto tale ad opera del capitale, oggi non è soltanto più una caratteristica della produzione delle merci, dell’acquisizione della forza lavoro e dello sfruttamento. Quella rimane ascritta alla struttura economica.
C’è una alienazione sovrastrutturale, riconducibile all’influenza che i mezzi di comunicazione e di interazione di massa hanno su miliardi di persone. Questa nuova forma di scissione tra il nostro io e la collettività di cui fa parte, paradossalmente, si concretizza proprio nel momento in cui, attraverso la mediazione delle reti (anti)sociali ognuno di noi tenta di ricongiungersi col maggior numero di persone possibili al di là di ogni schermo e tastiera.
Si è così venuta via via rappresentando una deformazione dei rapporti, per cui la parificazione tra “da remoto” e “in presenza” vale come legge non scritta, come tradizione oramai acquisita: il biennio pandemico, in tutto ciò, ha una responsabilità enorme, veramente inimmaginabile anche solo pochi mesi prima la catastrofe che ha colpito il mondo intero.
Siamo talmente circondati da commenti, post, immagini, meme e qualunque altro tipo di trasmissione del pensiero personale, da non riuscire a tenere aggiornate le informazioni che abbiamo, perché così veloce è l’aggiornamento dei dati da impedire di poterli conoscere prima che un altro aggiornamento subentri.
Il problema, dunque, per una sinistra che voglia ricostruirsi e collaborare alla cacciata del governo Meloni da Palazzo Chigi, è prima di ogni altra cosa l’abbandono dell’arroganza saccente della linea esclusiva che non può essere messa in discussione. Dobbiamo smetterla di pensare esclusivisticamente. Dobbiamo ragionare in termini di condivisione delle idee, di proposta e non metterci tutti in modalità offensiva per difendere le nostre posizioni aprioristiche.
E dobbiamo anche rinunciare ad un po’ di egoismo anticulturale, ad un edonismo antirazionalistico che ci ottunde le menti e ci fa ritenere imperturbabile la nostra visione singolare di una socialità che è in continuo mutamento. Ci sono delle lotte importantissimi cui fare fronte: qui, ora, subito.
Non possiamo rinviare di un istante il progetto di un vasto movimento pacifista che, accanto a quello contro le controriforme costituzionali del governo, accanto alle lotte operaie, a quelle sociali e civili, sia il punto di svolta.
Una svolta non anti-ideologica e nemmeno a-ideologica. Ma plurale, che accetti chiunque sia antifascista, antimilitarista, antimperialista, per la pace, per la democrazia, per i diritti di chi è sfruttato, per un ambiente in cui lo sviluppo sia integrabile e gestibile senza ulteriori violenze alla natura tutta, compresi ovviamente gli animali non umani.
Tengo a ribadirlo alla fine di queste righe: non sottovalutiamo la problematica culturale che ci riguarda. Possiamo trascurarla se si tratta della destra, abituata agli egoismi concettuali e al rampantismo come modello di competizione. Ma non possiamo essere sempre mal disposti nei confronti delle nostre compagne e dei nostri compagni. Ritenendoli dei “traditori” se la pensano differentemente da noi, estranei nello stesso partito, addirittura quasi nemici.
Pace, disarmo e giustizia sociale dovrebbero essere le tre priorità cui affidare oggi la politica che come comuniste e comunisti abbiamo il dovere di portare avanti. Con la giusta presenza sui social, con una ritrovata esperienza di persona, riunendo le nostre comunità, i nostri circoli, assemblearizzandoci e non vedendoci “da remoto” o, peggio, facendo pseudo-dibattiti sulle chat di Whatsapp.
A queste cento trappole dobbiamo sfuggire. Necessariamente. E da subito.
MARCO SFERINI
13 giugno 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria