Il presupposto della pace, per salvare la terra, per ritrovare la dignità

«Io ho voluto, col disegno e col colore, dato che queste sono le mie armi, penetrare sempre più avanti nella conoscenza del mondo e degli uomini, affinché questa conoscenza...

«Io ho voluto, col disegno e col colore, dato che queste sono le mie armi, penetrare sempre più avanti nella conoscenza del mondo e degli uomini, affinché questa conoscenza ci liberi tutti ogni giorno di più».
Pablo Picasso, ottobre 1944, “L’Humanité”, quotidiano del Partito Comunista Francese

Ho dato un’occhiata agli articoli che ho scritto in questi ultimi anni. Ho contato quelli che parlano di guerra e quelli che parlano – o provano a parlare – di altro. Non c’è partita, come si suol dire. La guerra vince anche in questo frangente. Perché è talmente importante, nella sua gravità, da sovrastare ogni altro pensiero, ogni altra considerazione su quello che ci avviene intorno.

I tentativi di distrazione di massa, intendiamoci, sono all’ordine del giorno. Ma non è semplice nemmeno per gli artefici delle mistificazioni e del riduzionismo degli eventi caotici in corso riuscire nell’impresa di mettere in secondo piano la crisi mondiale che va dall’Ucraina al Medio Oriente e da questo fino a Taiwan.

Senza contare che almeno un’altra cinquantina di conflitti vanno avanti da lungo tempo e nessuno ne parla.

In Africa, in Asia. Soprattutto. Ma non solo. Dunque, è proprio impossibile parlare meno di guerra di quanto se ne parla, scriverne meno di quanto se ne scrive. Ciò che è ancora più complicato è uscire dalla banalizzazione degli accadimenti che, spesso e volentieri, vengono tagliati di netto, draconianamente separata da manicheistici tentativi di contrapposizione dura e pura, senza sfumature, senza le pieghe della Storia e delle storie che antecedono i conflitti.

Il sensazionalismo delle notizie ha inquinato l’arte del giornalismo là dove cede alla narrazione che vogliono i governi.

Là dove, ad esempio, si fa finta che l’aggressione russa all’Ucraina sia quasi una sorta di incapricciamento putiniano dovuto alla spietatezza del leader del Cremlino e non, invece, la conseguenza di tutta una serie di punti e contrappunti tra est ed ovest, tra Russia, NATO e Stati Uniti che hanno sintetizzato nel territorio di Kiev il luogo ideale dello scontro.

La guerra del Donbass è la premessa oggettiva, quella guerra guerreggiata sul campo che, comunque, costituisce uno dei presupposti tanto dell’invasione russa quanto dell’armamento fino ai denti dell’esercito di Zelens’kyj mandato sulla linea di un fronte in cui oggi la penetrabilità delle forze di Mosca aumenta in virtù del fatto che il tempo gioca a favore di Putin.

A meno che Biden, Stoltenberg (mai cognome è suonato così onomatopeicamente profetico…), Macron e Scholz non decidano che è giunta l’ora di fare la guerra non più procura.

Quella linea rossa non è ancora stata passata, perché davvero aprirebbe lo scenario della guerra mondiale a tutto tondo e farebbe dell’Europa il fronte moderno per antonomasia. Anche perché lo diverrebbe senza alcuna ombra di dubbio. Ma le minacce si intensificano e provengono tanto dall’Eliseo quanto da ambienti che un tempo avremmo considerato quanto meno più moderati e dialoganti.

La divisione multipolare del mondo, eredità di un fallimento dell’impero americano nel riuscire a dominare da solo il pianeta dopo la conclusione della Guerra fredda e il crollo, come un castello di carta, del gigante sovietico, impone una concorrenzialità tra gli Stati emergenti e ri-emergenti che conduce inevitabilmente alla guerra. La torsione iperliberista del capitalismo ha accelerato questa degenerazione disumana ed esclusivista.

Là dove per esclusivismo va intesa la difesa totale del privilegio dei pochi grandi gruppi finanziari e bancari che hanno concentrate nelle loro mani immense ricchezze frutto di un impoverimento sociale ed ambientale che, infatti, è il punto di caduta tremendo di una crisi verticale che accomuna economia ed ecologia, produttività e natura, lavoro e salute in generale.

Non esiste più nessun grande agglomerato statale che investa in quello che, almeno fino alla fine degli anni ottanta del Novecento, è stato probabilmente l’unico prodotto felice del “socialismo reale“: lo stato sociale. Oggi gli Stati sono completamente al servizio del capitale e dalla grande finanza. La guerra è, quindi, davvero la riorganizzazione delle sfere di influenza particolari in un contesto globale in cui sgomitano tanto Putin quanto Biden, tanto Xi Jinping quanto Stoltenberg e Macron.

Si può dire, senza tema di smentita, che ci troviamo in una condizione di moderno arretramento sul piano dell’evoluzione sociale, civile, morale ed anche culturale; questo pur vivendo nell’epoca certamente più avanzata dal punto di vista scientifico e tecnologico.

Ma la corresponsione tra i due livelli di sviluppo non c’è, perché, mentre il progresso delle scienze e della medicina è anche influenzato dagli interessi privati, ma lavora quanto meno in senso astrattamente generale, per il benessere di tutte e tutti, l’ambito economico e politico si rivolge solamente alla sfera privata.

L’eclissi dello stato sociale è, pertanto, la premessa dell’aprirsi di una nuova fase di crisi generale che ci mostra come al centro dell’evoluzione umana del XXI secolo non c’è l’unità dei diritti sociali con quelli civili ed umani (oltre che animali) in un contesto di armonia con la natura che ci include e di cui siamo i devastatori primi, ma c’è invece il particolarismo degli interessi polarizzati di questo o quello Stato, di questa o quella zona del pianeta più o meno sviluppata.

Soltanto poche ore fa si potevano leggere sui giornali e su Internet le notizie allarmanti sul caldo in India, sulla siccità che colpisce intere zone africane, sulla mancanza di acqua anche dove la guerra non c’è.

Le temperature oltre i cinquanta gradi hanno fatto in un solo giorno nella terra di Ghandi più di ottanta morti. I colpi di calore uccidono come proiettili e, invece di prendere in considerazione la gravità della nemesi naturale che colpisce noi e tutti gli esseri viventi, perseveriamo nel considerare tutto ciò controllabile entro una certa data del secolo.

A condizione – si dice – che si riducano le emissioni di gas serra. Cosa che gli Stati che più inquinano al mondo, dagli USA alla Cina, dall’Europa nel suo insieme fino ad importanti settori mediorientali, non sembrano intenzionati a fare.

I documenti sottoscritti nei grandi rendez-vous vengono puntualmente smentiti da sollecitazioni opposte delle singole economia nazionali che investono sempre di più negli allevamenti intensivi di animali considerati ormai da un secolo non degli esseri senzienti a tutti gli effetti, ma prodotti da smerciare dopo una serie di crudelissime trasformazioni.

Il consumo di acqua per la produzione della carne è talmente sproporzionato rispetto all’effetto nutrizionale che produce da superare lo sviluppo ineguale tra profitti e povertà, tra privato e pubblico, tra mondo dell’impresa e mondo del lavoro. L’inquinamento che questi allevamenti emettono nell’atmosfera è esorbitante. Così per le falde acquifere, per l’impoverimento dei mari con pescaggi altrettanto intensivi.

Parliamo della guerra tra noi umani, ma noi abbiamo dichiarato guerra al mondo e alla natura da troppo tempo per il solo scopo di antropocentrizzare tutto.

Per poterci occupare di questo squilibrio globale, però, dobbiamo prima trovare un equilibrio tra noi animali umani e smetterla di trattarci come nemici. Sarebbe già una conquista per il futuro se fossimo in grado di raggiungere l’obiettivo di tollerarci (quindi di sopportarci, in pratica…), dismettendo gran parte degli armamenti che invece fanno la parte del leone nella produzione odierna delle industrie tanto russe quanto cinesi e americane.

Non c’è ambito della produzione tecnologica, dell’ingegneristica, dell’informatica che non sia ispirato dalla funzione bellica che può avere quella data scoperta, quel dato prodotto, quel dispositivo nuovissimo che, ovviamente, può diventare un bene fruibile su vasta scala me, comunque, sempre per una parte del mondo che se lo può permettere economicamente.

La guerra tutto pervade e ci coinvolge tutti, anche se pensiamo che sia ancora lontana dai nostri confini. È invece vicinissima perché noi le siamo andati incontro: sostenendo la NATO secondo il principio dell’aumento delle spese militari oltre il 2% del Prodotto Interno Lordo nazionale; sostenendo Israele con armamenti che sono prodotti anche nei siti produttivi presenti sul territorio italiano o che liberamente passano per i nostri confini.

Certo che c’è una differenza tra i bambini che muoiono di sete in India e in Bangladesh e quelli palestinesi che vengono ammazzati dalle bombe israeliane. Ma il risultato è sempre lo stesso: l’autodistruzione di noi stessi nel nome della sopravvivenza dei più forti rispetto ai più deboli, dei meritevoli – magari anche religiosamente, se si ascoltano le parole dei fanatici della destra sionista che appoggia Netanyahu – rispetto ai negletti che vanno marginalizzati ed espulsi.

La pace è condizione necessaria per tornare ad occuparci della terra e, quindi, per recuperare una dignità anzitutto per i più deboli e maltrattati da questo capitalismo vorace e feroce, da questo sistema di guerra imperialista permanente che annichilisce i popoli, devasta il pianeta e falcidia ogni speranza di recupero sul ritardo ecologico che è sempre più eclatante e spaventoso.

Nel 1949 il Partito Comunista Francese chiese a Pablo Picasso di disegnare un manifesto per il Congresso mondiale per la pace che si sarebbe dovuto tenere a Parigi.

Il pittore spagnolo disegnò con poche pennellate la forma di una colomba bianca con un rametto di ulivo nel becco. Reminiscenza forse della sua infanzia, quando ammirava il padre fare lo stesso. Forse anche un cenno culturale – biblico, che diviene rappresentazione laica del movimento pacifista, all’uccello che Noè manda fuori dall’arca, dopo il fallimento del corvo, per capire se le acque si sono ritirate.

Ecco, la colomba è la messaggera della fine della collera di Dio nei confronti dell’umanità: perché torna con un rametto di ulivo nel becco. Segno che la terra è riemersa e che vi sono ricresciute anche le piante e gli alberi. Il colore bianco del suo manto è, come è abbastanza ovvio ed intuitivo, simbolo di purezza e di genuinità.

Incompatibile quindi con le vischiosità interessate dei conflitti, con i maneggi economici e disumani di una umanità che, almeno nei sacri testi del monoteismo mediorientale ed europeo, è stata spazzata via perché corrotta e irrecuperabile a sé stessa da sé medesima.

In Europa si vota in questi giorni.

Siamo ad un passaggio se non storico, certamente molto importante in cui è concreto il rischio che le destre estreme di ogni Stato dell’Unione abbiano il sopravvento sulle forze progressiste e su quelle di centro. Sappiamo bene che, se dobbiamo individuare una responsabilità in merito, questa è proprio di chi ha governato il Vecchio continente fino ad oggi, rendendolo servo suicida del liberismo americano e del bellicismo atlantista.

In nome di un tentativo di recupero della dignità, di difesa della terra e di rinascita di un movimento pacifista che si faccia sentire anche a Strasburgo e a Bruxelles, non possiamo avere esitazioni. Votare può sembrare poca cosa davanti ai grandi, enormi, titanico-ciclopici problemi dell’umanità e del mondo. Ma non votare è il niente.

Non siamo più all’astensionismo di protesta, bensì a quello della rassegnazione.

È comprensibile, visti i tradimenti delle speranze popolari da parte della politica di palazzo e delle tante maggioranze che hanno governato tanto in Italia quanto in Europa. Ma non ce lo possiamo permettere. Per questo, se sulla scheda elettorale trovate, come troverete, una colomba bianca, stilizzata e simile a quella disegnata da Pablo Picasso, votatela.

Sarà il primo passo di una acquisizione nuova di una coscienza che vince l’egoismo dei nostri tempi e si sostanzia nella volontà di partecipazione, smentendo gli iper-ottimisti negazionisti del cambiamento climatico e i teorizzatori del benessere universale derivante dal liberismo.

Votatela la colomba bianca. Perché, come diceva una vecchia canzone, possa volare e farci sentire tutti un po’ meno soli di quanto pensiamo d’essere, di quanto siamo stati costretti a diventare.

MARCO SFERINI

8 giugno 2024

foto: screenshot de la colomba della pace disegnata da Pablo Picasso nel 1949

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