Edoardo Sanguineti sosteneva che l’odio di classe è necessario. Probabilmente l’unico tollerabile da una umanità che aspira al socialismo, quindi alla liberazione di tutti gli esseri viventi (andiamo oltre il concetto ristretto antropocentrico che ci riguarda…), perché l’altra parte, quella opposta al proletariato, alla povera gente, ergo i padroni, modernamente chiamati “imprenditori” per nascondere la loro natura “violenta” (sempre di classe) e ammantarli di un aura di produttivismo benefico per chiunque, ci odia.
Odia noi che non abbiamo i loro privilegi, che non deteniamo la proprietà privata dei mezzi di produzione e che, quindi, siamo coloro che prestano le loro capacità intellettive e manuali al servizio di chi si arricchisce e fa quei profitti che non si traducono mai in prodotto comune, a sostegno della socialità, ma si stratificano e sono quell’accumulazione capitalistica che, in quanto comunisti, combattiamo.
Odio e violenza. Odio di classe e violenza di classe. Sono bastate poche righe per riuscire ad estrinsecarli dal sottobosco dei pensieri e delle idee e farne i protagonisti di questo tentativo di comprendere se c’è un limite tanto all’odio quanto alla violenza. Se, quindi, il progresso sociale può fare a meno di una serie di contrapposizioni che danno seguito a scontri su vasta scala che, inevitabilmente, determinano punte di disprezzo che, se vogliamo, è un po’ la forma blanda dell’odio, l’al di qual del principio di violenza.
Sanguineti non ha mai inteso far parte di quella schiera di cosiddetti (e molto impropriamente apostrofati) “cattivi maestri“, incitatori al linciaggio di chissà chi. Ha inteso, invece, sollecitare una renovatio culturale, critica, individuale e collettiva di un proletariato moderno che si è fatto sedurre dalle sirene consumistiche, economiciste e finanziarie di un mercato che ha comperato tutto, su vastissima scala globale e non ha lasciato, nel trapasso dal Novecento al Duemila, nulla al caso.
Della cosiddetta “evoluzione creatrice” si è trattato in merito alla “rivincita bergsoniana” di quello che abbiamo chiamato lo “spiritualismo antidogmatico“. Ma è utile qui farvi riferimento, collegandoci ad un rapporto di causa ed effetto che non può non richiamarci alla mente le teorizzazioni di George Sorel esattamente sulla violenza come moto del divenire della Storia e, più ancora, dell’attualità in cui ci troviamo.
Se ciò che ci circonda e ci permea, di cui intrinsecamente facciamo parte, è il frutto di un processo di formazione e disfacimento della materialità dell’esistente e dell’esistenza della materia medesima, dobbiamo convenire che, se non proprio nell’assenza di empatia che è nella cosiddetta “natura morta“, ossia in ciò che non si esprime direttamente mediante pensiero ed azione, quanto meno in noi, nel profondo imperscrutabile ad occhio nudo del nostro inconscio c’è in nuce ogni sentimento, ogni tensione, ogni desiderio.
Amore e odio, gioia e tristezza, calma e rabbia, mitezza e ferocia fanno tutt’uno nell’animalità umana che, nell’incontro quotidiano tra simili e dissimili, tra esseri umani e esseri animali, stabilendo dei rapporti di forza diviene la forza motrice della Storia o, per meglio dire, di tutto ciò che ci vede protagonisti del nostro modo di intendere l’esistenza. Noi siamo i fabbri della nostra fortuna, coloro che forgiano il proprio destino.
Per questo dobbiamo fare i conti, nell’essere comunisti e quindi nel cercare la via di una nuova umanità che riduca al minimo l’odio, l’invidia e il senso di proprietà di cose, persone, animali e ambito naturale, con tutti quei sentimenti negativi che ci abitano e che non possiamo pensare di abolire per decreto di qualche comune rivoluzionaria del futuro. Siamo, dunque, destinati, anche nell’immaginario mondo non più capitalista a venire, a trovarci sempre e comunque a confronto con la tentazione del ritorno al passato?
Poniamo che si riesca, prima che ce lo imponga la Natura con la enne maiuscola, ad andare oltre il sistema di produzione capitalistico. Ecco, in quel caso, in cosa consiste la garanzia di una incontrovertibilità delle conquiste sociali, civili, morali e culturali ottenute? Se la rottura sarà rivoluzionaria, di per sé, un grado di violenza sarà necessaria per battere le forze che premeranno contro il mutamento, che si opporranno al cambiamento a centottanta gradi dell’esistente.
L’odio di classe, in questo senso, appare molto meno virulento e crudele di quello che, di primo acchito potrebbe sembrare se invocato come primigenio, istintivo moto di rabbia emotiva degli sfruttati contro gli sfruttatori, dei lavoratori, dei precari, dei moderni schiavi nei confronti degli altrettanto moderni padroni, imprenditori, capitalisti e finanzieri.
Bergson ci parlava, a proposito del divenire delle cose, di due tempi differenti: quello “interno” e quello “esterno“. Qui entra in gioco la “percezione” tutta umana degli accadimenti nella loro successione logica e cronologica. Dentro noi viviamo le emozioni come l’odio rapportate ad una esternità temporale in cui la trasmutazione dei pensieri in atti è altra cosa dal solo pensato. Per questo io posso disprezzare l’imprenditore che mi sfrutta ma ciò non si traduce nell’immediato in un atto contro il suo ruolo di classe.
Per fare in modo che l’odio di classe dei lavoratori e dei precari dell’oggi, dei salariati del XXI secolo, possa conoscere una sua fattività, una concretizzazione come vera e propria lotta contro il mondo dell’impresa, contro il liberismo che Bernie Sanders definisce – più che opportunamente – übercapitalista, occorre la trasformazione da concezione a prassi, da concepimento a sviluppo del sentimento che è, di per sé, un veicolo di canalizzazione di una trasformazione sociale tutta da verificarsi e quindi da costruire.
George Sorel, riprendendo Bergson, seppure indirettamente, nelle sue “Riflessioni sulla violenza” (datate 1906, e in tale contesto temporale conviene che si collochino mentalmente mentre nel scriviamo e ne immaginiamo qui il portato successivo nell’influenza che ebbero nell’ambito del mondo del lavoro e del sindacato e dell’impresa) trasporta il divenire dell’evoluzione creatrice da un piano latamente metafisico ad uno più propriamente materialistico.
Ciò che è nel profondo dell’animo umano subisce condizionamenti dalle relazioni sociali che si vanno formando e dai rapporti di forza tra le classi sociali. Non è possibile più, pensare, almeno per la filosofia e la politica ottocentesca, tanto in Francia quanto nel resto dell’Europa che si avvia alle grandi tragedie belliche mondiali, alla singolarità dell’essere umano come prototipo universale da sottoporre all’analisi della lente della verità.
La conoscenza, è stato ormai stabilito, è frutto essa stessa di tutta una serie di interazioni che prescindono da un dogmatismo tanto religioso quanto laico. Con Sorel la distinzione tra il piano dell’elucubrazione anche ideologica del socialismo e la messa in pratica della lotta politica, sindacale e di massa per arrivarvi si sostanzia nella mitizzazione del mito. È proprio il caso di usare questo gioco di parole per farsi comprendere meglio.
Secondo il teorizzatore del sindacalismo rivoluzionario, attraverso il mito delle grandi lotte gli esseri umani sono spinti alle conquiste che possono realizzare e raggiungere. Ciò che gli sfruttati immaginano diventa così, spesso e volentieri, una sorta di archetipizzazione delle rivendicazioni sociali che, trasfigurando da sé stessa, si elevano ad una altezza irraggiungibile, perché restano nella trasmissione di una narrazione che enfatizza e non crea, che seduce ma non concretizza.
Ciò non significa che non sia utile empatizzarsi al punto da arrivare alla soglia dell’illusione per stimolare le proprie capacità di azione collettiva. Ma, per evitare di cadere nel tranello della mitizzazione fine a sé stessa delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità, è bene ricondurre il tutto ad una criticità consapevole di quelli che Marx richiama sempre come fondamenta stesse dell’analisi concreta del reale: i rapporti tra le classi.
E questi, lo si voglia o no, sono rapporti tanto ideali quanto pratici: i primi sono ascrivibili al tentativo propagandistico del liberismo di farci intendere di essere, nonostante tutte le evidenti contraddizioni del capitalismo in crisi, ancora nel migliore dei mondi possibili; i secondi sono invece riconducibili al lavoro di tessitura della rete della piena consapevolezza del proprio stato di sfruttati, in quanto salariati, in quanto dipendenti da un padrone oppure nella condizione di essere dipendenti di sé stessi in un regime di quasi-auto-sfruttamento, visto che alla struttura economica più generale non si sfugge.
Odio e violenza, pertanto, se concepiti entro questa evoluzione creatrice che non è spiritualistica ma molto materialista, hanno la loro dignità di forze motrici del processo di liberazione dell’essere umano dall’essere umano stesso, perché solo così possono essere tolte da una autofinalizzazione che è utile soltanto all’imbarbarimento antisociale.
Chi prova a utilizzare l’odio oggi, politicamente, sollecitato dai bisogni di stabilizzazione delle crisi da parte del capitale, lo fa mettendo in contrapposizione orizzontale le masse e non verticalizzando il tutto. La verticalizzazione, infatti, vorrebbe dire rendere consapevoli miliardi di sfruttati della loro condizione a causa di un sistema in cui un pugno di iper-ricchissimi detiene la quasi totalità dei frutti della produzione mondiale. Si può non provare odio per questi sfruttatori? Certo che non si può.
Ma non è abbastanza. Perché odiare senza tradurre questo sentimento di classe in una azione politica o sindacale, in un atto sociale che vada nella direzione opposta in cui va il mondo, è fare il percorso inverso dello stimolo primordiale dell’odio sanguinetiano citato all’inizio. Odiare per odiare è come amare tanto per amare. Per l’una e per l’altra ispirazione occorre una ragione.
La ragione migliore per odiare è la voglia di giustizia sociale. La ragione migliore per amare è solidarizzare e stare con chi vive la tua stessa condizione di disagio. Comprenderla, viverla come elemento comune e come passione che non si mitizza, ma come tensione che si alimenta costantemente. Giorno per giorno. Il mito delle grandi conquiste sociali ha aiutato il raggiungimento di queste tappe importanti per l’evoluzione sociale, civile e morale dell’umanità. Ma non ha risolto il problema del mantenimento delle stesse.
Al di là del principio del mito non c’è altro se non la sterilità della mera immaginazione. Qui sta l’illusione. Non nel darsi reciprocamente sostegno credendo a quello che si reputa impossibile. Come molti rivoluzionari novecenteschi hanno detto e ripetuto: senza puntare a ciò che pareva irraggiungibile non si sarebbe giunti nemmeno a quello che era raggiungibile.
Dopo l’immersione, seppure latente, nello spiritualismo bergsoniano, Sorel si accosta nuovamente al superatore delle vecchie tendenze filosofiche e, questa volta, lo fa criticando il positivismo. La cieca fiducia nella scienza gli sembra una schermatura borghese sulle effettive capacità di innovazione che, invece, sono negate all’umanità della nuova schiavitù delle macchine.
Della potenza della violenza si è qui parlato sino ad ora in termini materialitico-rivoluzionari, soprattutto facendo riferimento a ciò che potrebbe fare il mondo del lavoro e dello sfruttamento moderno contro il mondo delle imprese e dei moderni sfruttatori. Poco si è trattato e, in generale, si tratta di ciò che è sotto gli occhi di tutti: della violenza che è insita nel capitalismo, nel liberismo.
La sofferenza, moltiplicata all’ennesima potenza in ogni parte del globo, è violenza che si esprime, laddove non riesce a penetrare con i classici metodi dell’influenza economica, col metodo bellico, con l’espressione bellica, con l’omicidio di massa, con il genocidio dei popoli, con la penetrazione cuneale nel cuore delle società. Viene meno ogni identità, ogni dignità concepibile in quanto tale e, ancora di più rispetto alla lotta di classe propriamente intesa, qui la separazione tra tempo interiore ed esteriore si fa crudele e dirimente.
La singola vita non conta se non come accidente rispetto ai piani di guerra. La comunità che deve essere piegata alla dominazione che si vuole imporre prova un odio e alimenta in sé stessa sentimenti e propositi di violenza che sono elevati al cubo rispetto al quadrato dell’odio di classe. Perché qui si tratta non di sopravvivenza quotidiana, ma di esistenza dal minuto in cui siamo al minuto in cui saremo.
La fase neo-imperialista del multipolarismo mondiale impone, quindi, un aggiornamento delle categorie classiste di odio e violenza. Tanto dal lato degli sfruttati quanto da quello degli sfruttatori e dei governi che li sostengono come tanti capi bastone servilissimi e devoti.
Per chiudere queste riflessioni, nulla di meglio di quanto aveva scritto Edoardo Sanguineti in quel di Genova nel nemmeno troppo lontano 2007:
“Bisogna restaurare l’odio di classe. Perché loro ci odiano, dobbiamo ricambiare.
Loro sono i capitalisti, noi siamo i proletari del mondo d’oggi: non più gli operai di Marx o i contadini di Mao, ma “tutti coloro che lavorano per un capitalista, chi in qualche modo sta dove c’è un capitalista che sfrutta il suo lavoro”.
A me sta a cuore un punto. Vedo che oggi si rinuncia a parlare di proletariato. Credo invece che non c’è nulla da vergognarsi a riproporre la questione.
E’ il segreto di pulcinella: il proletariato esiste. E’ un male che la coscienza di classe sia lasciata alla destra mentre la sinistra via via si sproletarizza.
Bisogna invece restaurare l’odio di classe, perché loro ci odiano e noi dobbiamo ricambiare.
Loro fanno la lotta di classe, perché chi lavora non deve farla proprio in una fase in cui la merce dell’uomo è la più deprezzata e svenduta in assoluto?
Recuperare la coscienza di una classe del proletariato di oggi, è essenziale. E importante riaffermare l’esistenza del proletariato.
Oggi i proletari sono pure gli ingegneri, i laureati, i lavoratori precari, i pensionati. Poi c’è il sottoproletariato, che ha problemi di sopravvivenza e al quale la destra propone con successo un libro dei sogni.
[Edoardo Sanguineti, Genova, 2007].
Niente altro odio se non questo, niente altra violenza se non quella di massa che abolisca la preconcettualità, il pregiudizio proprio della competizione, dell’arrivismo, della voglia di primeggiare invece che vivere insieme senza primi o ultimi posti.
MARCO SFERINI
9 giugno 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria, Goerge Sorel ed Edoardo Sanguineti