Il tempo. Non quello meteorologico, ma la quarta dimensione, quella che si insinua nelle guerre e che non è uguale per le parti che le alimentano o che le subiscono. La differenza sta anche nei ruoli: aggressore, aggredito, governo imperialista e popolo colonizzato o costretto ad un regime di apartheid.
Il tempo viaggia differentemente non soltanto per chi agisce militarmente nei conflitti, ma soprattutto per chi si trova in mezzo alle pallottole, ai missili e, giorno dopo giorno, assiste alla distruzione delle città, alla fine di quella già misera sopravvivenza che aveva conosciuto in un piccolo recinto di terra, alla morte dei figli, dei parenti, degli amici.
Il tempo viene sottovalutato dalla cronaca giornalistica che, raramente, mette in evidenza come, ad esempio nella guerra contro Gaza e contro il popolo palestinese (ma non di meno in quella in Donbass prima e nel resto dell’Ucraina poi) le tattiche belliche si giochino proprio da un lato nella dilatazione della successione dei piani operativi che puntano ad un logoramento del nemico, dall’altro lato nell’immediatezza con cui colpire.
Netanyahu e il suo governo rientrano in questa seconda opzione un po’ distopica, che pare avulsa dalla realtà perché intende forzarla contro la stessa natura degli eventi, mentre è il prodromo di ciò che accade quotidianamente a Gaza e in Cisgiordania.
Per evitare di essere rovesciato dalla sua stessa maggioranza etno-teocratico-nazionalista, il premier israeliano deve, contro le aspettative di Washington (che tutto sono tranne che volte al ristabilimento dell’assenza di guerra (‘che chiamarla “pace” è davvero una mistificazione della realtà ante-7 ottobre), auspicare il fallimento delle trattative con Hamas.
Paradossalmente, più si allungano i tempi della fine dell’aggressione a Gaza, meno si fa certo il ritorno degli ostaggi israeliani presso le loro famiglie che, giustamente, ormai protestano non per incitare il governo al rilascio dei loro cari con azioni fattive, ma per far cadere il gabinetto di guerra e mettere fine alle atrocità che impediscono la risoluzione del conflitto. A sud dello Stato ebraico Gaza è praticamente distrutta. Rafah è invasa, non c’è più via di scampo per i palestinesi.
Ad est la minaccia iraniana necessita, come quella a nord di Hezbollah, di una tempistica diametralmente opposta a quella di Netanyahu. Nonostante le milizie del “partito di Dio” si dicano pronte alla lotta, la situazione nel sud del Libano è in preallarme da parecchio tempo e non è mai scesa al di sotto della soglia dell’evacuazione permanente dei villaggi a ridosso del confine con Israele, del lancio di missili tanto da parte dell’una quanto dell’altra parte.
Con la differenza – dicono fonti di organizzazioni terze, non governative – che Tel Aviv utilizza munizioni al fosforo bianco, i cui effetti devastanti si sono visti a suo tempo in Iraq nelle guerre del Golfo Persico e poi anche a Gaza una ventina di anni fa. L’ostinazione del gabinetto di guerra a proseguire nella criminale offensiva contro la Striscia non deve purtroppo stupire più di tanto.
Netanyahu ci ha abituato fin dai primi anni dei suoi governi neri ad una perseverante lotta anti-palestinese che ha spostato sempre più a destra l’asse dei suoi esecutivi, sulla scorta di dichiarazioni fatte al Congresso sionista mondiale per cui «Hitler non voleva sterminare gli ebrei, solo espellerli». La narrazione, ovviamente, puntava già da allora a costruire il mito della contrapposizione senza alcun se e senza alcun ma con il mondo arabo e, nello specifico, con il popolo palestinese.
La storia ha dimostrato, caso mai ve ne fosse bisogno (ma pare proprio di sì), che i piani olocaustici hitleriani hanno preso concretezza durante la Seconda guerra mondiale seguendo l’ispirazione antisemita del Partito Nazionalsocialista che altro non era se non la traduzione netta e chiara di quello che, più genericamente, veniva chiamato “Führerprinzip“: il principio del capo. E Hitler gli ebrei lo voleva certamente deportare tutti quanti, ad est o nel Madagascar (come gli era stato suggerito dalla sua cerchia più stretta), ma poi la guerra mutò i piani.
E i piani furono quelli dello sterminio di massa, senza alcuna remora, richiedendo ai funzionari, alla Gestapo e alle SS, anche in questo caso, di non domandare quali fossero gli ordini di Hitler: era tutto chiaro. I semiti andavano eliminati per fare spazio alla nuova colonizzazione germanica ad est, nel “Lebensraum “, nello “spazio vitale“.
La teorizzazione di Netanyahu è, quindi, quanto di più revisionistico si possa inventare per dare una giustificazione oggi alla ferocia con cui i suoi governi hanno trattato la questione palestinese, esigendo che il mondo intero riconoscesse il pieno diritto di Israele di farsi spazio in Cisgiordania e a Gaza per questioni di sicurezza. La spregiudicatezza aggiornata ai tempi dell’oggi non è minore di quella di ieri, quando era alleato con Smotrich e l’impresentebilissimo Ben-Gvir.
Due sono le direttrici dell’azione politica di Netanyahu dal 2009 ad oggi: il supporto pressoché totale alla frenetica ripresa della colonizzazione nella West Bank (frenata, ma non sospesa, da Rabin), per cui ad oggi tra Gerusalemme, Samaria e Giudea, vivono – più o meno nella legalità stabilita da Israele – oltre settecentomila coloni in decine di migliaia di insediamenti che fanno del territorio palestinese altro da sé stesso prima di tutto sul piano sociale, politico ed anche etnico-antropologico; il mirino puntato contro l’oggettiva debolezza dell’ANP di Abu Mazen.
I famosi e famigerati “Accordi di Abramo” del 2020 sono stati un altro duro colpo per la dirigenza palestinese e, non troppo paradossalmente, sono stati una tegola sulla testa di Hamas che, pure, nei suoi giochi politici perversi, intrisi soltanto di suprematismo sionista, Netanyahu aveva sostenuto (con la mediazione del Qatar e di altri stati arabi) per indebolire e annichilire l’ANP, progettando una annessione della Cisgiordania che, nei fatti non poté realizzarsi.
Questa impossibilità fu anzitutto tale per il semplice fatto che, se inglobata nello Stato di Israele, la popolazione araba della West Bank avrebbe costituito un bacino elettorale non da poco a sostegno di partiti arabo-palestinesi nella Knesset e la specificità ebraica avrebbe rischiato di essere surclassata imponendo nuovamente una visione multietnica di uno Stato che, invece, diventerà sempre più confessionale e “nazione” del solo popolo di Davide.
Il tempo, dunque, non ha lo stesso valore per israeliani e palestinesi. Non lo aveva ieri e non lo ha di più ancora oggi, alle soglie di una apertura di nuovi fronti dopo il furibondo scatenamento dell’operazione “Spada di Ferro” contro Gaza. Nessuno oggi mette in discussione il fatto che la guerra sia funzionale quasi esclusivamente alla sopravvivenza politica di Netanyahu e dei suoi accoliti.
La tragedia del popolo palestinese non assume per questo i toni della farsa, perché quarantamila morti e oltre centomila feriti sono un numero spropositato di vittime e non c’è modo di minimizzare questo genocidio che, del resto, è nei piani di una politica di espulsione dei gazawiti e dei cisgiordani ben da prima del fatidico e orrorifico 7 ottobre 2023. Hamas è divenuto ciò che Netanyahu voleva divenisse: una minaccia per gli stessi palestinesi ma, nel diventarlo, si è anche rafforzato e ha stretto relazioni internazionali oggi difficili da superare.
Hezbollah a nord è pronto ad un confronto diretto con le truppe di Tsahal, soprattutto dopo le minacce che in queste ore riceve dal governo di Tel Aviv. Ancora una volta Israele pare decidere di voler sfidare un quantitativo di nemici su fronti diversi per far rimanere a galla un fondamentalismo sionista – religioso che si evidenzia plasticamente nella “marcia delle bandiere“, nella rivendicazione dell’identificazione della regione palestinese con il solo Stato ebraico.
I nodi però, prima o poi, al pettine vengono: Hamas è tutt’altro che sconfitto. L’Iran è in grado di colpire Israele in ogni momento. Hezbollah fa da retroguardia ed Recep Tayyip Erdoğan rimane un certo sostenitore del fondamentalismo religioso palestinese.
Il cortocircuito politico-istituzionale interno ed esterno che si è creato per Netanyahu è una trappola da cui, qualunque esito abbia la guerra di Gaza, uscirà sconfitto: nel momento in cui il conflitto sarà concluso è possibile che il suo governo sia già stato archiviato e lui stesso sottoposto al giudizio della magistratura che lo ha incriminato diverse volte per corruzione (quando era ministro delle telecomunicazioni) e per quella che in Israele si chiama “violazione della fiducia“.
È stata proprio la tragedia del 7 ottobre ad essere funzionale tanto ad Hamas quanto al primo ministro imputato.
Al governo gazawita di Haniyeh per il rapporto di causa – effetto tra la più grande strage di israeliani dalla fondazione dello Stato e la fine dei rapporti di Tel Aviv con quelle nazioni arabe che avevano intessuto i patti abramitici, ed a Bibi per aver permesso la fine delle lunghe proteste contro lui nel momento in cui la controriforma sulla Corte Suprema stava andando in porto per salvarlo dai processi, per evitare che si colmasse il vulnus del diritto israeliano che consente ad un primo ministro di rimanere in carica anche se indagato e imputato.
Il 7 ottobre è stato certamente funzionale per il disastro politico-amministrativo di Netanyahu al governo di Israele quasi ininterrottamente del 2009, ma è stato anche un fortissimo boomerang che gli è piombato addosso dimostrando quanto la politica di protezione ed incentivazione colonialista in Cisgiordania abbia provocato una falla enorme nei servizi di sicurezza, nella dislocazione delle armate a protezione del territorio israeliano.
La tanto vantata politica di tutela della popolazione dal pericolo palestinese ed arabo gli si è frantumata sotto i piedi. Un terreno argilloso che è franato nel momento in cui, a difesa del confine tra la Striscia di Gaza e Israele, si trovavano soltanto due compagnie di reclute e un po’ di polizia locale.
Il grosso dell’esercito, ventisei battaglioni, sta a presidiare il maculatissimo territorio della Valle dei Giordano: guardia personale delle centinaia di migliaia di coloni che distruggono le case dei palestinesi, li cacciano e li privano delle risorse idriche e poi lamentano gli attacchi della resistenza popolare. Così Netanyahu crea le condizioni per la tempesta perfetta del fanatismo jihadista che gioca la sua partita contro l’ANP.
Sulla pelle del popolo palestinese si gioca quindi un risiko multilivello, il cui unico effetto è l’ostracizzazione all’ennesima potenza dei civili, la loro morte in massa, la distruzione praticamente totale di Gaza di Khan Yunis e ora di Rafah. Il tempo, dunque, adesso a chi gioca a favore e a chi contro? Forse una divisione così netta tra favoriti e sfavoriti non è più possibile.
Nel momento in cui la guerra si espande e travalica i confini ristretti di Gaza, diviene un problema globale e le tempistiche non hanno quel valore dirimente che potevano avere al principio: la disperazione di Netanyahu indubbiamente si accresce di giorno in giorno, perché la contrarietà alla politica imperialista del gabinetto bellico ormai si manifesta anche nelle cancellerie europee e qualche aggrottamento di ciglia lo si scorge anche tra le pieghe ipocrite dei proclami della Casa Bianca.
La lunghezza delle guerra non è un mistero nelle intenzioni tanto del primo ministro israeliano quanto in quelle, ad esempio, di Hezbollah che, però, non cerca – perché non può sostenere – una guerra ad alta intensità spalmata su tempi molto dilatati. L’Iran può offrire la sua copertura militare, ma deve guardarsi anche dalle manovre americane nel Golfo Persico e dalla crisi di Taiwan che potrebbe prendere fuoco alle sue spalle.
Come è evidente, la conflittualità internazionale impedisce la determinazione di quelle che potremmo definire delle “linee guida” della guerra di Gaza. Non c’è una soluzione predisponibile, se non quella del cessate il fuoco immediato e permanente per dare anzitutto sollievo ai milioni di civili che non hanno più niente per sopravvivere.
Questa è una pagina che sarà scritta nei libri di Storia ed entrerà negli atlanti insieme alla guerra d’Ucraina. Una pagina tragica, come del resto tantissime di quelle che l’umanità ha vergato fino ad oggi da migliaia di anni. Una ennesima dimostrazione del fallimento dei nazionalismi religiosi legati ad interessi privati ed economici su vasta scale.
Un fallimento anche per le democrazie, tra le quali Israele pretende di rimanere nonostante tutto questo, che non paiono migliori dei regimi autoritari sparsi dall’Euroasia all’America. Un fallimento globale che solamente un movimento altrettanto globale per la pace e il disarmo può fermare.
Senza la pace ogni altra lotta politica e sociale sembra davvero non avere senso o, quanto meno, di senso ne perde purtroppo tanto…
MARCO SFERINI
6 giugno 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria