Quante vie del cambiamento europeo si intravedono alla vigilia della campagna elettorale dell’8-9 giugno?
A dire il vero, quelle che si possono evidenziare, mettendo insieme un po’ tutte le opinioni espresse, sia pure per grandi filoni di sintesi un po’ abborracciate, sono essenzialmente tre: la prima, più roboante nelle nostre televisioni (non di meno su Internet), è la presunzione meloniana di un mutamento continentale ispirato dai nazionalismi che vengono a più miti consigli con i popolari europei.
La seconda è un appello alla riscoperta dei valori comunitari, popolari, socialdemocratici e moderati che punterebbe ad un mitigamento degli eccessi del liberismo, pur sempre in una cornice atlantista per quanto concerne la politica estera. La terza è una sorta di voce nemmeno tanto dal sen fuggita che Letta e Draghi hanno lasciato intendere in questi ultimi giorni: serve più integrazione e non più autonomia da parte dei singoli Stati dell’Unione.
Vi sarebbe anche una quarta via del cambiamento, molto più radicale e di sinistra di quella proposta dalle forze appartenenti al socialismo democratico: quella della pace come elemento cardine su cui fare leva per cambiare i rapporti di forza interni, per passare da una economia di guerra ad una economia sociale che, quindi, riveda i trattati e i patti dal punto di vista del mondo del lavoro e della previdenza.
Nessuna di queste quattro vie sembra avere l’autonomia necessaria per imporsi nel futuro assetto del Parlamento di Strasburgo. Quella proposta da Giorgia Meloni, con annessa autocandidatura dal valore plebiscitario per l’operato del governo italiano, non fa il paio con una parte delle forze politiche facenti parte dell’ECR (il Partito dei Conservatori e dei Riformisti europei, di cui la leader di Fratelli d’Italia è presidente), tipo quelle del partito polacco “PiS” (“Diritto e Giustizia“), ma pure con Fidesz dell’amico Orbán.
Il principale punto di frizione è proprio il rapporto tra lo Stato nazionale, tra la sovranità che, in questo caso richiama l’identità del paese come fondamentale punto di sviluppo attorno a cui costruire il resto dell’armamentario demagogico delle destre: Giorgia Meloni si oppone ad un antieuropeismo che, prima di salire a Palazzo Chigi, carezzava anche lei. Governare vuol dire scendere a patti anche con i propri princìpi, nonostante lei neghi che questo sia avvenuto.
Di necessità si fa virtù, soprattutto se si vuole continuare a conservare un potere che non è mai così troppo solido come si crederebbe essere.
Questo antieuropeismo, di contro, è invece il principale argomento con cui i suoi alleati dell’Est Europa, parte dei vecchi paesi di Visegrad, cavalcano le ondate populiste e cercano di sedurre i propri elettorati bidonandoli con promesse altisonanti tanto quanto inconcludenti. L’Europa sarà anche politicamente priva di spina dorsale, dipenderà militarmente dal Patto Atlantico, ma su di una cosa mantiene le sue certezze: l’impianto economico-finanziario non si discute.
E, siccome non va discusso, la BCE continuerà ad opporsi a qualunque cambiamento nei rapporti tra le direttive delle istituzioni monetarie (quindi anche la Commissione guidata da Ursula von der Leyen) e le rispettive economie nazionali. L’uniformità qui è un valore non condiviso, ma imposto da chi traina il carrozzone della UE. L’asse franco-tedesco, in questo scenario, si pone che il perno di una stabilità tanto fragile quanto necessaria ad un assetto liberista che non intende mitigarsi.
Non che le destre estreme siano in grado di proporre dei cambiamenti in tal senso; tanto meno Giorgia Meloni, slogan a parte, visto che avrebbe sicuramente preferito votare come candidato alla Commissione europea, almeno in prima battuta, un esponente del suo Partito dei Conservatori e Riformisti, non fosse che quello proposto proprio dai polacchi del PiS è un asperrimo nemico dell’Unione stessa.
Dunque, l’unità delle destre, almeno su questo piano, sembra incrinarsi, seppure debolmente. Perché l’obiettivo comune è costringere i popolari ad una alleanza che li scinda dalle socialdemocrazie e dai liberali, pur mantenendo la leadership di Ursula von der Leyen che, per quanto riguarda l’Italia, trova proprio in Giorgia Meloni, nonché in Antonio Tajani, degli alleati preziosissimi. Divide et impera, del resto… Le destre imparano dai loro pseudo-avversari e mettono quest’arte da parte.
La seconda via del presunto cambiamento europeo, dopo la fase del biennio pandemico e la crisi determinatasi a livello globale, in piena economia di guerra e con tutti gli sviluppi annessi e connessi riguardo la questione israelo-palestinese, sarebbe quella teorizzata dal PD di Elly Schlein: siamo, anche in questo caso, nell’orbita del compatibilismo teso a sostenere un pragmatico realismo dei conti che non ha il coraggio di denunciarne la catastroficità a livello sociale.
Nonostante la “svolta a sinistra” (molto tra virgolette) impressa da Schlein al suo partito, le forze socialiste e democratiche non propongono una alternativa alla “maggioranza Ursula” nei fatti: la sostenibilità ambientale e i nuovi modelli di sviluppo che la componente democratica all’Europarlamento descrive da tempo non prevedono un mutamento pari delle ragioni sociali che dovrebbero surclassare quelle esclusivamente economiciste e liberiste della UE.
Differentemente da Macron, ma molto similmente a Scholz, il PD rimanda ad una grande alleanza social-liberale la questione dirimente del lavoro, del salario, della previdenza, dei diritti sociali.
Diverso è il quadro se si parla di diritti civili ed umani, anche se, per questi ultimi, le forze socialiste e democratiche non si sono sempre dimostrate al passo con i tempi di un progressismo degno di questo nome ed hanno sovente piegato alla ragione finanziaria quell’impianto valoriale che invece avrebbe dovuto contraddire la chiusura dell’Europa a fortezza blindata contro le migrazioni.
Se le destre meloniane sono pronte al compromesso con l’attuale dirigenza della Commissione europea, le sinistre moderate e i centrosinistra di mezzo continente non risolvono anzitutto le contraddizioni che derivano da una ambivalenza tra difesa del lavoro e politica monetarista, cercando un equilibrio interclassista che, la storia recente ce lo dimostra più e più volte, alla fine risulta vantaggioso solamente per il mondo dell’impresa.
Quando si fa riferimento al diritto al lavoro, dovrebbe ormai essere implicito che si parla anche del problema inerente il non-lavoro, la disoccupazione di lungo corso, il variegato universo della precarietà e dello sfruttamento becero che una sinistra propriamente detta dovrebbe contrastare con ogni mezzo a sua disposizione, a fianco di sindacati decisi a recuperare terreno per le classi popolari e per il moderno proletariato europeo.
Ma il PD, nonostante appunto l’impronta più sociale data da Schlein, se proiettato nell’agone dell’europeismo per prima cosa si avvinghia al compatibilismo monetario, ai rapporti tra una Italia sempre più povera, anche a causa delle clausole imposte dalla Commissione vonderlayana, e un asse mercatista e finanziario che contraddice l’impostazione para-sociale del timidissimo progressimo del Bel Paese. La destra non dovrebbe essere credibile quando parla di influenzare le istituzioni continentali con le proprie politiche nazionali.
Ciò che oggi è l’eredità del vecchio-nuovo centrosinistra di prodiana memoria, invece, finisce con il non essere credibile perché scende in piazza con i sindacati contro le politiche liberiste del governo meloniano ma poi, quando si tratta di scegliere da che parte stare, mette lavoro e imprese praticamente sullo stesso piano nella rivendicazione dei diritti e nella preservazione di una vasta gamma di privilegi.
Terza via, senza alcun riferimento al blairismo di vecchia maniera, è quella indicata da Letta e Draghi: più Europa in stile boniniano e calendiano. Mentre un po’ tutte le forze politiche fanno a gara per evidenziare e rimarcare gli interessi nazionali dentro la cornice diroccata dei Ventisette, l’ex popolare e segretario del PD, unitamente all’ex presidente della Banca Centrale Europea, va a sostenere e teorizzare una ancora maggiore integrazione sul piano tanto della diritto quanto dell’economia della UE.
I dissapori tra Parigi e Berlino in merito alla questione del riarmo e, segnatamente, riguardo la guerra in Ucraina, i rapporti con la NATO e, non di meno, finanziamenti e armamenti anche per Israele, oltre all’impegno dei vari Stati europei nelle missioni in giro per il pianeta (vedasi Golfo di Aden, tanto per intenderci), non fanno ben sperare gli investitori sulla stabilità della politica complessiva dell’Unione.
Macron incalza Scholz sull’invio dei missili Taurus a Kiev. Il cancelliere tedesco frena. La competizione a destra su una uscita dall’economia di guerra mette in crisi in Germania il fronte di governo, mentre in Francia non ha questo effetto boomerang.
I calcoli elettorali li fanno un po’ tutti, a dispetto del pragmatismo iperliberista di Draghi che sancisce il primato del monetarismo continentale, dando per scontato che qualunque maggioranza arrivi a Strasburgo nelle aule parlamentari, in fondo la politica attuale devierà di poco dal corso che sta seguendo. Le guerre lo esigono. Non lo vuole solo più l’Europa. Ma in tutto questo, spazio per un recupero dei diritti sociali ve ne è davvero poco, pochissimo. Praticamente niente.
La quarta via del cambiamento europeo potrebbe passare da una proposta radicalmente e sinceramente di sinistra, ma le debolezze dei vari partiti che compongono l’Europen Left e il gruppo “The Left” non consento oggi di azzardare nemmeno l’ipotesi di un ruolo così necessario nel parlamento continentale quanto improbabile: quello di essere determinanti per la formazione di una maggioranza progressista o moderata.
Ma è quella necessaria per potare nelle istituzioni europee un grido di pace che non soffochi quello del dolore, ma che se ne faccia carico interamente, inchiodando alle loro responsabilità i tecnocrati di Bruxelles che sostengono il riarmo, che osteggiano qualunque trattativa tra Ucraina e Russia e che, anzi, sono perfettamente allineati con la linea oltranzisticamente bellicista della NATO e dell’amministrazione nordamericana.
Se esiste una pur timida speranza che la pace faccia capolino nel Parlamento europeo senza essere merce di scambio con i diritti sociali, facendo subire l’ennesimo ricatto tra stabilità economica (e quindi lavoro) e stabilità politica, questa la si può avere sostenendo le liste dei partiti della Sinistra Europea.
Con tutte le dovute distinzioni, le tre precedenti vie del presunto e presuntuoso cambiamento della UE rappresentano la conservazione di ciò che oggi arriva ad un termine che non sarà del tutto tale: la ricandidatura di Ursula von der Leyen alla guida della prossima Commissione europea ne è la cartina di tornasole. La protervia con cui il capitale esige dai popoli sacrifici, lacrime e sangue per finanziare la sua incertezza strutturale è la cifra della politica liberista dei partiti che guidano e guideranno le istituzioni continentali.
La pace, in questa fase, è veramente un grimaldello rivoluzionario. E’ una leva di scardinamento di una riformulazione conservatrice che trova nell’esasperazione antisociale, governata abilmente dai trasformismi neonazionalistici e dalle pulsioni securitariste e xenofobe, la sua espletazione più che simbolica.
Contrapporsi al moderno liberismo vuol dire unire diritti sociali e diritti umani, diritti civili e giustizia ambientale sotto la bandiera della pace, della fine dei conflitti, dell’inversione a quella che è molto più di una tendenza: il riarmo. Una precisa politica di ristrutturazione finanziaria del multipolarismo attuale.
La pace e tutti i diritti. Diritti di tutti per tutti. Questo è l’unico vero cambiamento per l’Italia e per l’Europa davvero dei popoli e non più delle banche, delle alleanze guerrafondaie e delle industrie di armamenti.
MARCO SFERINI
30 aprile 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria