Bruciare libri

I libri si bruciano essenzialmente per paura. Lungo il plurimillenario cammino umano, quando andiamo a sbattere contro una data in cui si è verificato un rogo di testi, manifesti,...

I libri si bruciano essenzialmente per paura. Lungo il plurimillenario cammino umano, quando andiamo a sbattere contro una data in cui si è verificato un rogo di testi, manifesti, scritti scientifici, politici, poetici, artistici o filosofici, dietro a tutto questo, senza alcun mascheramento, c’è un motivo che attiene alla natura dei libri che vengono dati alle fiamme.

I conquistatori arabi, giunti in Egitto nel 642, decisero che solamente nel Corano fosse contenuta tutta la saggezza e la conoscenza universale a cui gli uomini avrebbero potuto attingere e dalla quale sarebbero potuti essere ispirati. Così decretarono la fine della grande bibliotecad di Alessandria.

Non da meno sono stati i cristiani: il secondo Concilio di Nicea decise che i testi eretici non andavano letti, trascritti e diffusi. Ne fecero le spese le opere di Pietro Abelardo, Arnaldo da Brescia e, già che ci si era, misero sulla pira anche il Talmud.

Alla fine del ‘400, in quella Firenze repubblicana che si era liberata dalla dominazione dei Medici, le fiamme arsero per spegnere la “vanità” di certe opere considerate oltremodo immorali. Frate Girolamo Savonarola fu il protagonista di questo anatema.

Nemmeno Lutero, che spesso viene considerato più aperto di mente e progressista rispetto alla Curia romana, può dirsi estraneo alla biblioclastia: circa trent’anni dopo i fatti di Firenze, il riformatore fece bruciare i testi del diritto canonico, le bolle papali (e questo poteva essere considerato un atto politico-religioso e non, invece, un “semplice” furore piretico nei confronti di libri poco apprezzati…) e la “Summa Theologiae” di Tommaso d’Aquino.

Passano i secoli ma la motivazione che induce al rogo è sempre la stessa, uguale a quella che condannava ad essere arsi vivi tutti coloro che non rispettavano il dettame del potere, la narrazione corrente e comunemente accettata tanto dell’esistenza quanto dell’interpretazione delle azioni di governo. In particolare di quelle delle teocrazie, a partire dallo Stato della Chiesa.

Non va meglio nell’Estremo Oriente. Solo per il fatto che lo studio della nostra storia è eurocentrico e rivolto prevalentemente al Vecchio Continente che va alla conquista del mondo, ciò non significa che anche nella Cina dei secoli precristiani non sia mai stato dato alle fiamme un libro. Il primo imperatore, Qin Shi Huangdi, dovette fronteggiare un dissenso piuttosto imponente all’avvento del suo regime.

Queste proteste avevano sia un carattere culturale, e quindi si esprimevano attraverso la diffusione di testi scritti e affissi nelle città, sia il tipico carattere della sommossa popolare e miliare. Alla seconda il sovrano rispose con lo schieramento dei suoi eserciti. Alla prima con un rogo di libri.

Il timore che le critiche potessero dilagare e diventare il presupposto di una alternativa politica al suo regno, generò anche nella culla della saggezza orientale un atto vile come quello del mettere a morte non solo i dissidenti ma, con loro, anzitutto il dissenso in quanto tale.

Con la scoperta del Nuovo Mondo, gli europei vengono a contatto con la cultura maya e azteca. La Santa Inquisizione fa la sua parte anche qui: è un intransigente vescovo cattolico spagnolo, Diego de Landa, che dà ordine di dare alle fiamme gli scritti dei due popoli autoctoni. Paradossalmente, dopo averne annichilito il grande patrimonio intellettuale ed anche scientifico, il prelato passò gran parte della sua vita a cercare di ricostruire la storia di quelle civiltà.

Pari pari è quello che accade alla biblioteca alessandrina con la conquista araba, circa mille anni prima. E se andiamo avanti ed indietro nel tunnel temporale della storia, ci rendiamo sempre più conto che i roghi dei libri e la messa al bando del pensiero e della cultura viene fatta ad opera di popoli che sottomettono altri popoli, nel mome di una purezza che determina uno status quo economico e politico.

Potremmo affermare che le forme antiche dell’imperialismo sono alla base del cambiamento culturale forzato, indotto appunto dall’espansione del dominio europeo in un caso, arabo in un altro, cinese in un altro ancora, verso terre in cui erano fiorite storie millenarie di popolazioni che, a partire dai roghi dei libri, avrebbero conosciuto la totale sottomissione nei confronti dei conquistatori.

Per arrivare al ‘600 potremmo ovviamente citare, come emblema del più grande terrore provato dalla Chiesa cattolica, del rogo subito da Giordano Bruno, da un libero pensatore che, proprio per il tentativo di non scindere fede e ragione, di dare alla catechesi un posto accanto alle scienze, alla filosofia e alle arti, negandone quindi il primato assoluto nei confronti di una dialettica e di una critica laica, è stato ereticizzato e mandato a morte in Campo de’ Fiori.

Ancora una volta, è la paura che il potere prova davanti ai possibili cambiamenti epocali ad ispirare la distruzione: non si nasconde, non si cela. Si annienta. All’ombra della maestosità delle piramidi, prima che tre millenni di storia guardino i soldati francesi di Napoleone, la censura si abbatte anche sui geroglifici che compongono i nomi dei nemici dei faraoni e della casta sacerdotale.

Quando cade in disgrazia, il sovrano Akhenaton subisce l’ostracismo da ogni colonna, ogni monumento, ogni piramide. Il suo nome viene sostituito con la dicitura molto icastica e diretta: “il nemico“. Per antonomasia. La pratica era così in voga che, persino in un film come “I dieci comandamenti” di Cecil Blount DeMille (celebre per l’interpretazione di Charlton Heston (Mosè) e di Yul Brynner (Ramesse II)), si odono le parole di anatema del faraone che intima la cancellazione del nome di quello che per gli ebrei sarà il Rabbino con la erre maiuscola.

Se la paura è la premessa del rogo dei libri o delle cancellazioni di nomi che ricordano epoche da archiviare, qual è la conseguenza che si vorrebbe immediata? L’oblio, la certezza che nulla potrà intaccare lo status quo e che i popoli seguiranno i precetti che sono loro indicati dal sovrano o dal dittatore di turno.

Infatti, in quella che noi definiamo molto impropriamente la nostra “modernità“, scindendola da un primitivismo del passato in cui releghiamo epoche invece fantastiche come il Medio Evo, sono soprattutto stati i regimi assoluti e poi quelli totalitari a scagliarsi contro il libero pensiero, contro la critica, contro la satira, contro l’alternativa in qualunque modo fosse espressa.

Le monarchie europee e non di meno le presunte repubbliche più libere e ipocritamente democratiche, sono state le protagoniste della condanna insieme statale e religiosa verso tutte quelle opere ritenute immorali, sovversive e, per questo, accusate ad esempio di lesività della maestà regale o imperiale (nonché ovviamente papale, nel caso di potenze cattoliche).

Bisogna tristemente attendere gli orrori del Nazionalsocialismo per rivedere ardere le fiamme con dentro tutte le opere considerate antinaziste, inferiori e indegne della grandezza del popolo tedesco e del suo futuro nel Reich di Hitler.

I “Bücherverbrennungen” includono tutto ciò che non si allinea perfettamente al nuovo ordine del terrore. Ne fanno le spese autori tra i più grandi nelle loro discipline e arti: Walter Benjamin, Ernst Bloch, Bertolt Brecht, Charles Darwin, Albert Einstein (che riparerà negli Stati Uniti d’America), ovviamente Karl Marx e Friedrich Engels, ma pure Sigmund Freud, Heinrich Heine, Ernst Emingway, Herman Hesse, James Joyce, Franz Kafka, naturalmente Lenin, Thomas Mann (anche lui costretto all’esilio), Robert Musil, Émile Zola e molti, molti altri.

Per ironia della sorte, i libri di Kafka sfuggiranno, grazie alla disobbedienza antitestamentaria del suo amico Max Brod, al rogo decretato dall’autore dopo la sua dipartita: «Carissimo Max, la mia ultima richiesta: tutto quello che lascio dietro di me… diari, manoscritti, lettere (mie e di altri), bozze e così via, [sono] per essere bruciate e non lette“, mentre lo stesso Brod cadrà vittima dell’odio nazista per le sue opere e fuggirà in Palestina nel 1939.

Questo lungo racconto nozionistico di alcuni degli episodi più rilevanti della volontà politica e religiosa di bruciare i libri è solo una tenue, misurata e per niente esaustiva premessa, come invece meriterebbe di avere, per l’opera scritta da Richard Ovenden che, per l’appunto si intitola: “Bruciare libri. La cultura sotto attacco: una storia millenaria” (edito da Solferino nel 2021. Nelle trecento e più pagine lettori e lettrici ritroveranno prima di ogni altra cosa l’amore per la cultura. L’amore per la conoscenza.

Ovenden, infatti, non si limita a parlarci dei roghi dei libri, ma anche delle tante omissioni che governi assoluti, repubblicani, democratici (per dirla un po’ alla “Manifesto“) hanno messo in essere, tentando di occultare per lunghissimo tempo ai propri cittadini verità venute a galla su grandi dilemmi che sarebbero altrimenti rimasti insoluti.

Si tratta non di battibecchi parlamentari, ma di vere e proprie tragedie sociali: dall’immigrazione britannica alle stragi militari; dai piani di guerra a quelli di finte paci. Quando si tenta di eliminare ciò che può essere conosciuto, si commette un vero delitto. Un delitto contro la conoscenza della storia e un vilipendio dell’attualità in cui si prova a sopravvivere.

Ed è proprio in questi frangenti che spunta l’imprevedibile: colui che salva dal rogo i libri di un grande scrittore o che getta un fascio di luce sulle carte rinchiuse negli archivi che, al pari delle biblioteche, sono preziosi monumenti tanto di ciò che l’umanità ha fatto nella buona come nella cattiva sorte che si è scelta o che ha dovuto subire.

L’opera di Ovenden va letta attraverso questa lente di osservazione: la necessità della preservazione di qualunque documento, di qualunque fonte, piacevole o spiacevole che possa essere; così da non alterare la Storia, da non mistificare il presente, da non rendere non veritirero persino il futuro che ancora deve venire.

L’autore si pone, infine, un problema legato essenzialmente alla digitalizzazione globale della nostra epoca: come riuscire a salvare anche queste esperienze che, spesso, sulla grande ragnatela internettiana nascono e muiono in un batter veloce di tasti? Come salvare, oltretutto, dalla digitalizzazione la cultura cartacea? Come preservare i documenti dall’onnivorismo computeristico della rete delle reti?

Se è possibile, come deve esserlo, una convivenza tra il vecchio formato cartaceo e quello digitale, allora all’umanità si apre la possibilità di avere delle biblioteche e degli archivi del sapere molto più vasti di quelli del suo recente, seppure multimillenario, passato. E questa è una sfida che tocca alle giovani generazioni raccogliere. Per impedire che si passi dai roghi di libri alla cancellazione con un “click” di intere nuove, magari grandi opere.

BRUCIARE LIBRI
LA CULTURA SOTTO ATTACCO: UNA STORIA MILLENARIA
RICHARD OVENDEN
SOLFERINO, 2021
€ 20

MARCO SFERINI

1° maggio 2024

foto: particolare della copertina del libro

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la biblioteca

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