J’accuse

Il diritto internazionale è, probabilmente, l’insieme di norme che viene sistematicamente più violato al mondo da un numero di soggetti che hanno contribuito a fondarlo e che hanno sottoscritto...

Il diritto internazionale è, probabilmente, l’insieme di norme che viene sistematicamente più violato al mondo da un numero di soggetti che hanno contribuito a fondarlo e che hanno sottoscritto quindi un patto di vicendevole rispetto sulla base di leggi che, altrimenti, non avrebbero nessun valore universale.

In un tempo in cui le guerre alimentano le guerre e il conflitto si fa globale, pur essendo ancora denotato da regionalismi che appaiono slegati l’uno d’altro, il ruolo delle Nazioni Unite dovrebbe essere primario.

Invece, nel momento in cui il Segretario generale Guterrez ricorda ad Israele che sta violando proprio quel diritto internazionale che ha sottoscritto nel momento in cui è entrata a far parte dell’ONU, il ruolo del Palazzo di Vetro è sempre più messo in discussione, trattato come se fosse un chiacchierone d’altri tempi, incapace di adeguarsi ad una realtà dei fatti che esige invece pronte risposte militari ad ogni provocazione, ad ogni strage, ad ogni aggressione.

Una delle questioni più drammaticamente interessanti riguarda il rapporto tra l’essere uno Stato che si definisce e si lascia definire, naturalmente, democratico e il rispetto delle regole comuni.

Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per quello che lei, più che correttamente, appella al singolare, come “Territorio occupato palestinese“, ha redatto, in una molto tecnica intervista con Christian Elia, un vero e proprio moderno “J’accuse” (Fuori scena, 2023) che con quello dei Émile Zola ha in comune soltanto il sottofondo antisemitico che pervadeva tanto l’Ottocento quanto i nostri secoli che definiamo più civili.

Il libro può apparire complesso perché complesse sono le vicende mediorientali. Non è un “istant book“, anche se obtorto collo non può non divenirlo, perché pensato e scritto per essere pubblicato con una tempestività non cercata, a ridosso della strage criminale di Hamas nei kibbutz limitrofi al confine con Gaza e nel raid party nel deserto poco distante.

Si parte da tante osservazioni, ma per prima cosa Francesca Albanese mette, da rappresentante di una istituzione del diritto internazionale, i puntini sulle “i” per quanto riguarda i rapporti tra le parti in causa: Israele è uno Stato occupante, i palestinesi sono un popolo sotto occupazione.

Non è così, quindi per gli israeliani e per gli ebrei che vivono dall’altra parte del confine che separa Gaza e Cisgiordania dal resto della Palestina. La condanna degli attacchi di Hamas non è nemmeno messa in forse: ma ad un crimine efferato può uno Stato democratico rispondere con un crimine ancora più efferato?

Se di “legittima difesa” da parte di Israele si deve e si può parlare, non salta allora agli occhi come questa non sia mai stata presa in considerazione dal governo di Netanyahu che ha, invece, scatenato una nuova guerra contro i gazawiti piuttosto che mirare alle truppe e ai dirigenti di Hamas con azioni circospette?

Riesce sempre più difficile oggi ragionare sulle cause a monte dei conflitti che hanno incendiato e incendiano tutt’ora la ginepraica regione mediorientale. Nell’attimo esatto in cui si critica un governo filo-occidentale, si viene accusati di fare causa comune con il nemico che, evidentemente, non sta ad Occidente né geograficamente ma, soprattutto politicamente ed economicamente.

Israele sta etnicamente in Palestina, ma geopoliticamente si trova molto ad ovest rispetto ai paesi arabi che lo circondano da sempre. La contraddizione moderna per gli ebrei in particolare che hanno costituito e hanno continuato a vivere in Israele è che le relazioni tra loro e gli arabi non sono più quelle dell’Antico Testamento. Ma nemmeno più quelle precedenti la diaspora indotta dall’Impero Romano.

Fare chiarezza, quindi, sulle ragioni a monte dei conflitti è il primo passo per comprendere ancora meglio, proprio partendo dalla storicizzazione dei fatti, come si sia potuti arrivare al rinfocolamento del conflitto tra Tel Aviv, Cisgiordania ma soprattutto Gaza.

Sebbene gran parte dell’accusa di Francesca Albanese riguardi il dramma della striscia di terra in cui sono stati rinchiusi milioni di palestinesi per decine di anni, anche dopo il ritiro delle truppe e dei coloni israeliani nel 2005, ordinato dal governo di Ariel Sharon, la condizione di invivibilità della West Bank non è affatto sottovalutata come motore dell’esasperazione palestinese e dell’odio che le parti si scambiano a mani basse.

La colonizzazione della Cisgiordania, infatti, viene presentata da Israele come un “progetto di civilizzazione“, al pari della propaganda che gli europei spandevano per il mondo quando andavano a conquistare terre inesplorate e ricche di giacimenti e risorse da depredare. La relatrice speciale dell’ONU per il Territorio palestinese occupato lo rimarca più volte: Israele è un paese colonizzatore, occupante.

Ed in quanto tale contravviene da quasi settant’anni alle disposizioni delle Nazioni Unite che determinano il rientro delle forze armate e anche di quelle amministrative entro i confini del 1967, consentendo la formazione di una Repubblica di Palestina accanto a quella israeliana. Lo Stato di Palestina, del resto, siede all’ONU come osservatore, come Stato non membro dopo l’approvazione della risoluzione 67/19 del 29 novembre 2012.

Ma nemmeno questo è servito, almeno in una visione di più lungo periodo, a riconsiderare i rapporti con Israele e, magari, al porre sanzioni economiche per indurre lo Stato ebraico a mettere fine all’occupazione di quel che resta della Palestina dopo le guerre arabo-israeliane e dopo la definizione strutturale di una politica espansionistica (e quindi imperialista) che ha rappresentato nella regione mediorientale un trampolino di lancio di più vaste visioni egemoniche a stelle e strisce.

Francesca Albanese afferma che «la violazione del diritto dei popoli all’autodeterminazione è intrinseca al colonialismo di insediamento». Dunque, quando Israele colonizza sempre più esponenzialmente la Cisgiordania (i coloni presenti nelle terre che dovrebbero essere soltanto palestinesi e amministrate dall’ANP sono ormai oltre seicentomila) contravviene tanto al diritto di un popolo di vivere sulla propria terra, quanto al diritto internazionale.

Quest’ultimo, infatti, è la formulazione dei diritti universali dell’uomo e del cittadino, di tutti gli esseri umani, di una comunità che si vorrebbe mondiale e che, invece, sulla spinta delle pulsioni economiche e finanziarie e della ricerca di un nuovo equilibrio egemonico da parte occidentale contro i paesi emergenti dell’Est e dell’Asia, risulta sempre più preda dei particolarismi e dei continentalismi regionalisti.

Qualcuno ha osservato che termini come “colonialismo“, “apartheid“, “etnocidio” e, da ultimo con l’offensiva contro Gaza, “genocidio” sono parole forti, che squalificano la vera natura della democrazia israeliana che, nel bene e nel male rappresenta là, nel Medio Oriente, i veri alti valori dell’occidentalismo: ossia quelli considerati gli unici rappresentativi di un vivere civile.

Ma si può definire altrimenti ciò che il popolo palestinese sta subendo da quasi un secolo? Se nella storia del conflitto tra Israele e Palestina si è insinuato prima ed è divenuto poi tratto comune dello scontro il terrorismo su vasta scala, non è forse perché già dalla fondazione dello Stato ebraico il progetto sionista si era espresso in questi termini nei confronti degli arabi che ancora vivevano sotto il retaggio del mandato britannico?

Irgun e Haganah prima, l’OLP poi, poi ancora Hamas, hanno lottato, su fronti chiaramente opposti, per una affermazione violenta dei propri princìpi. Ma, mentre per Israele si è trattato di sopravvivere come Stato, autoproclamatosi il 14 maggio del 1948, per lo meno in quella prima fase di consolidamento strutturale del potere sionista, per i palestinesi, privi di una organizzazione nazionale riconosciuta internazionalmente, si è sempre posta la questione della sopravvivenza anzitutto come popolo.

E’ per questo che spesso torna e ritorna il parallelo con l’Olocausto del popolo ebraico durante la Seconda guerra mondiale. Perché quella tragedia immane avrebbe dovuto insegnare al movimento sionista i fondamenti di un diritto internazionale da promuovere per scongiurare nuovi stermini, nuove aggressioni belliche ad interi popoli.

Invece, la questione della distruzione sistematica degli ebrei da parte del Terzo Reich viene evocata soltanto come diritto storico per una disperata affermazione a tutti i costi di un diritto ultra religioso, fanatico e, quindi politicamente devastante, di primazia rispetto agli altri popoli.

Un razzismo di Stato che contraddice, seppure provenga da una cultura più mitica che storica, quelli che dovrebbero invece essere i valori universali del riconoscimento reciproco dei diritti e dei doveri fra gli esseri umani. Proprio a questa dualità si riferisce la tremenda situazione di Gaza: Francesca Albanese ricorda che dal 2007 i gazawiti sopravvivono praticamente “sotto assedio“.

La loro condizione è quella di chi vive perennemente entro i confini di un «crimine di guerra, di una punizione collettiva, come riconoscono Croce Rossa e Nazioni Unite. Metà della popolazione non ha nemmeno diciotto anni, il 40 per cento ha meno di quindici anni, non mai usciti da Gaza, non sanno cosa sia un fiume o una montagna, non sanno cosa sia un israeliano se non i soldati che gli sparano dalle torrette, dalle navi che controllano i tre chilometri di mare che gli sono concessi e che decidono al di là del muro cosa i palestinesi possono mangiare, desiderare, fare…».

Questa privazione della libertà totale di un popolo dà un significato ancora più pregnante ad un capitolo del “J’accuse” un titolo nuovo rispetto ad altri già letti in molte pubblicazioni: “Carceralità“.  Perché Gaza è letteralmente una prigione e non meno vessazioni, torture e repressioni subiscono i prigionieri politici e civili palestinesi nelle carceri di Israele.

Gaza è un carcere a cielo aperto, poi esistono anche le vere carceri, quelle dove è detenuto Marwan Barghouti da tantissimi anni, dove sono imprigionati dai ragazzi che prendono parte alle rivolte spontanee contro le violenze dei coloni fino ai leader politici dell’ANP e di Hamas. Nel secondo rapporto per l’ONU che ha redatto sulla condizione del Territorio palestinese occupato, Francesca Albanese ha messo l’accento sulla “privazione arbitraria” della libertà personale così come di quella collettiva dei cisgiordani e dei gazawiti.

Nel contesto creato dalle politiche delle destre sioniste, la segregazione del popolo palestinese avviene con barriere fisiche e con barriere burocratiche. C’è quello che, in sintesi, la relatrice dell’ONU definisce un “continuum” carcerario che si concretizza in un «meccanismo di controllo che comprende diversi livelli di confinamento interconnessi». Se volessimo ulteriormente semplificare il concetto, potremmo dire che per i palestinesi non vi è esistenza libera in nessun luogo in cui si trovino, in nessuna condizione in cui provino a sopravvivere.

Il dialogo tra Fracesca Albanese e Christian Elia pone sotto una luce di coevità i problemi di un Medio Oriente che si sta sempre più accendendo sotto le spinte di una politica di annientamento degli avversari e che, quindi, non cerca il dialogo, la convivenza seppure in un perimetro di assoluta reciproca tolleranza (intendendo quest’ultima come espressione concettuale non certo positiva, a differenza della solidarietà reciproca…).

Tutta la questione che, a molti, pare nata soltanto il 7 ottobre, si carica di un pregresso storico e attualistico che non può più essere negato, sconnesso e separato da quello che sembra essere l’atto finale del governo israeliano contro il popolo della Palestina: un annientamento, un etnocidio che troppi hanno paura nel definire per quello che realmente rischia di essere. Un genocidio.

J’ACCUSE
FRANCESCA ALBANESE con CHRISTIAN ELIA
FUORI SCENA, 2023
€ 16,00

MARCO SFERINI

17 aprile 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria


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