L’occasione abruzzese: un freno alla prepotenza del governo

Le regionali abruzzesi sono un dilemma. Per le destre, anzitutto. Se l'”effetto Todde” dovesse avere qualche ripercussione nella regione di D’Annunzio, che ingloriosamente è diventata di Marsilio, qualche scossa...

Le regionali abruzzesi sono un dilemma. Per le destre, anzitutto. Se l'”effetto Todde” dovesse avere qualche ripercussione nella regione di D’Annunzio, che ingloriosamente è diventata di Marsilio, qualche scossa tellurica la si avvertirebbe in seno ad una maggioranza di governo che, per la competizione interna tra Lega e Fratelli d’Italia, ha già dato prova di tutta la sua tenuta nell’isola di Gramsci, Lussu e Berlinguer.

Se, d’altronde, l’elettorato dovesse riconfermare il candidatissimo da Giorgia Meloni, allora si parlerebbe di un successo per la Presidente del Consiglio che, ugualmente come con il sindaco di Cagliari, peraltro sconfitto nella sua stessa città dalla competitor contiana, ha reimposto il suo uomo di fiducia più prossimo per condiscendenza e immarcescibile ammirazione. Ne conseguirebbe per la Lega e per Salvini un ridimensionamento contrattuale nel governo e nella maggioranza.

I dati parleranno per sé stessi e per loro. L’assenza di quell’assurdità che è il voto disgiunto, potrebbe in Abruzzo frenare la fuga di voti verso l’economista sostenuto dal “campo giusto“, Luciano D’Amico. D’altro canto, un voto di protesta in questa direzione si potrebbe chiaramente manifestare con l’ingrossamento delle fila astensioniste, con un voto nullo, con molte schede bianche.

C’è da augurarsi, per il bene del Paese, che le elezioni abruzzesi determinino una sconfitta, anche di misura, della coalizione di governo, così da aprire una fase di incertezza costante che si riverberebbe, pur con tutte le contraddizioni interne alle opposizioni in Basilicata e in Piemonte, nelle successive tornate amministrative e, non da ultime, sulle prossime europee a giugno. E’ sufficientemente evidente che questo clima di contrapposizione così netta a tutto serve tranne che ad equilibrare un po’ il disfacimento sociale in cui versa l’Italia meloniana.

Il governo punta, in queste prossime quarantotto ore, quasi tutto sull’esito del voto in Abruzzo. Pletore ministeriali si sono riversate come fiumane fin dentro i borghi più remoti, là dove le campagne paiono offrire quasi sempre una maggiore simpatia nei confronti delle posizioni politiche e sociali più conservatrici. Ma non di meno sono state le presenze nei capoluoghi di provincia; e non di meno, pure, sono state le promesse e il ricorso ad artifici dell’ultimora per convincere le persone a preferire la destra al campo giusto.

Tra le tante, i settecentoventi milioni di euro ripresi per i capelli dai fondi del PNRR per la tratta ferroviaria Roma-Pescara che pare una storia proveniente dal vecchio West in cui si espropriavano gli stessi coloni americani, oltre che naturalmente gli autoctoni indiani delle loro case e delle loro terre per farci passare sopra i binari del modernissimo sviluppo. In alcune zone dell’Abruzzo sono sorti comitati spontanei che criticano il progetto, proprio perché passerebbe lì dove ora vivono.

La risposta di Marsilio è stata caustica: chi protesta, quando vedrà l’assegno di indennizzo, placherà le sue ire. Insomma, lasciateci lavorare e, per farlo, votate pure la coalizione meloniana. Sorrisi e pacche sulle spalle, la reciprocità della complicità elettorale si ferma dove inizia la competizione intestina alla maggioranza di governo. Il dilemma abruzzese sta proprio qui: se vincono, la crisi interna non si placa, se perdono nemmeno. Ma in caso di prevalenza sul campo giusto, potranno almeno rivendicare una tenuta complessiva della coalizione sul piano nazionale.

La partita, dunque, si gioca su percentuali molto vicine. Non è possibile conoscere gli ultimissimi sondaggi, ma per vie traverse si sa che un recupero di PD, Cinquestelle e Alleanza Verdi e Sinistra c’è. Dare retta alle sensazioni è pericoloso perché si scade nel soggettivismo, nell’interpretazione così personale da uscire completamente dal sentire comune che, in questo frangente, come in tanti altri simili, è imprendibile, inafferrabile.

Dal suo canto, il campo largo ci prova e fa bene. Bersani è convinto che da qui parta l’alternativa a Giorgia Meloni e che, comunque vada, si è già incrinato il dogma della graniticità indissolubile della prima donna Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica. C’è del vero. Anche perché, altro dato interessante, in Abruzzo il campo giusto è pure campo largo: la coincidenza la determina l’ex terzo polo: Renzi corre con i socialisti, Calenda con la sua Azione, ma tutti insieme.

Non c’è un terzo candidato che renderebbe impossibile all’ex centrosinistra la vittoria. La partita è aperta. Apertissima. I toni lo dimostrano: il comizio finale di Giorgia Meloni pareva uno di quelli fatti con la croce celtica al collo (la porta ancora?), chiamata alle armi per una lotta senza quartiere in una Italia che la starebbe assediando: «Per le europee sono pronta, ho l’elmetto», mimandone anche la militarissima posa dello stesso sul capo. Poi, sotto la pioggia scrosciante, un appello alle truppe che si galvanizzano con l’enfasi che cresce all’intonazione dell’Inno di Mameli.

I raffronti con cinque anni fa sono, almeno sul piano numerico, difficili da poter fare. Uno dei dati che, probabilmente, verrà bissato sarà quello dei partecipanti alla tornata elettorale: allora, nel 2019, andò alle urne il 53% degli aventi diritto. Oggi, vista la crescente disaffezione (anti)partecipativa, si può presumere che ci si attesterà su una percentuale simile (sperando di essere ampiamente smentiti).

Nel centrodestra il vento in poppa all’epoca l’aveva la Lega (27% con 165.008 voti); mentre Fratelli d’Italia era ancora un partito “in crescita” e raccoglieva il 6,5%. Sopra la media nazionale il consenso di Forza Italia (al 9%).

I candidati alla presidenza erano quattro invece di due: Marsilio, ovviamente, Giovanni Legnini per il centrosinistra, Sara Marcozzi per i Cinquestelle e Stefano Flajani per Casa Pound. Giocando con le percentuali di allora, mettendo insieme pere e mele, senza fare alcun paragone con i differenti schemi dell’oggi, con le pulsioni elettorali che si possono percepire alla vigilia di questo voto, se avessimo unito i consensi di PD e alleati con quelli dei Pentastellati, Marsilio, che ottenne il 48%, sarebbe stato superato da un ipotetico candidato inesistente ma unitario col 51% dei voti.

La compressione del consenso ex-grillino, i cambi leaderistici nel Partito Democratico, le nuove impostazioni frontiste e più marcatamente progressiste sono tutti elementi che alterano, come è ovvio che sia visto il lasso di tempo trascorso, qualunque possibile confronto tra il 2019 e il 2024. Tanto a destra quanto a sinistra; anche se, va sottolineato, nel rapporto tra le forze reazionarie e conservatrici c’è una compattezza diversa rispetto al campo giusto di oggi.

Che potrebbe entrare parzialmente in crisi se il taglio dato alle parole della Presidente del Consiglio nelle sue ultime dichiarazioni, così come in quelle di Marsilio, prendesse la via dell’interpretazione maggioritaria nel senso della ritorsione nei confronti dell’Abruzzo qualora venisse eletto D’Amico: affermare che la mancata riconferma del fedelissimo di Giorgia Meloni avrebbe degli “effetti devastanti” per la regione del centro-sud, lascia aperto il campo a più di una ipotesi e, comunque, non è un messaggio utile nemmeno in un confronto dialettico col proprio avversario.

E’ intendere la campagna elettorale come un momento di scontro di interessi, nella piena accettazione, oltre tutto, di quella devastante “autonomia differenziata” che non lascerebbe che le briciole al Sud, sbilanciando i diritti dei cittadini a favore delle zone in cui si vive relativamente meglio, in cui i servizi sono meno indecenti rispetto alle regioni più povere, in cui il privato è arrivato, ha saccheggiato e pretende di saccheggiare ancora col beneplacito della benedizione dello Stato.

I temi sociali rischiano di scivolare un po’ al di fuori del bordo che contiene tanta propaganda e che, del resto, non può non contenerla. Di pochi giorni fa era un servizio della trasmissione “Piazza Pulita” di Corrado Formigli sullo stato della sanità in Abruzzo e, nello specifico, sul diritto delle donne di poter interrompere volontariamente la gravidanza, così come previsto dalla Legge 194 del 1978. Tra obiezioni di coscienza e direttive regionali che oltrepassano i confini della Legge stessa, una donna rischia di vedersi negare quel diritto.

Magari proprio a ridosso dei tempi ultimi per poterlo esercitare senza rischi per la propria salute. Se paragonato all’inserimento nella Costituzione della Repubblica francese, il nostro diritto all’aborto rimane lontano anni luce da una piena attuazione in quanto tale, in quanto conquista di civiltà nello spettro più ampio degli altri diritti delle donne, delle cittadine, delle madri. Quelle donne che Giorgia Meloni pretenderebbe di rappresentare declinandosi al maschile negli atti pubblici, nelle diciture che vi sono impresse sopra.

Non è in ballo solamente una amministrazione regionale: il voto per il campo giusto, il voto anche contro le destre, sarebbe un segnale molto importante per contrastare il progetto calderoliano dell'”autonomia differenziata“. Non è più possibile sottovalutare nulla. Ogni azione di questo governo di destra è un allarme sociale, civile, istituzionale. Ogni tentativo di presunta riforma è una retrocessione neoconservatrice, un compattamento asfittico dei diritti tutti e delle libertà che ne sono parte integrante e sviluppo conseguente.

La partita del voto abruzzese è importante anche per questo: può allargare la già ampia crepa apertasi con l’esito delle regionali sarde. Può aprire un po’ gli occhi a chi si è illuso che non ci fosse più alternativa se non buttarsi tra le braccia di questa classe politica impropriamente detta e impropriamente tale. Può, se la sinistra moderata e quella di alternativa sapranno dialogare e fare passi insieme, offrire al Paese il principio di una fine. Quella del peggiore fra i governi della storia repubblicana.

E’ presto per dirlo, ma non è mai troppo presto per sperarlo, per praticare questa speranza con il voto di domenica in tutte le sezioni dell’Abruzzo.

MARCO SFERINI

9 marzo 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

categorie
Marco Sferini

altri articoli