«La Repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità: propugna l’italiana». Si tratta del IV principio fondamentale della Costituzione della Repubblica Romana del 1849. Partiamo da qui per cercare di definire meglio il concetto di “nazione” e le sue derivazioni otto-novecentesche che sono scivolate nel cosiddetto “nazionalismo“. Quando scrivono la carta fondamentale della breve e straordinaria esperienza del governo democratico nell’Urbe libera da Pio IX, i costituenti si trovano nella curiosa condizione di essere una nazionalità dentro la nazionalità stessa.
L’Italia divisa in Stati è una nazione. Ma, dal canto loro, ogni singolo Stato italiano si può definire “nazione“. Pertanto, quando precisano che la Repubblica Romana propugna la nazionalità italiana, i democratici mazziniani, gli intellettuali borghesi e persino i nobili con accenti liberali lo fanno per significare che gli ex Stati della Chiesa sono non qualcosa di diverso dalla Nazione anzitutto detta, intesa. Quella che è direttamente sinonimo tanto di Paese quanto di Patria.
Di suolo natio, di comune lingua, di storia passata. Tutto questo è già presente, prima ancora che la Costituzione venga redatta freneticamente nel pochissimo tempo che resta all’esperimento rivoluzionario in una Europa ancora fortemente reazionaria, nel Decreto fondamentale, là dove si dice, sempre – per ironia della sorte – al quarto comma: «La Repubblica Romana avrà col resto d’Italia le relazioni che esige la nazionalità comune». C’è, quindi, piena consapevolezza di essere italiani da nord a sud della Penisola. Di esserlo al di là dei confini che sono sempre più privi di senso.
L’antistoricità di una linea politica tratteggiata su una carta geografica, per evidenziare il territorio di pertinenza e di sovranità di uno Stato, divene tale nel momento in cui quel confine è nei fatti superato da una sentimento più ampio che riguarda prospettive di esistenza che si proiettano oltre le ristrette dimensioni di una organizzazione istituzionale. Perché a questo si riduce essere un potere che non ha più una evidente legittimità popolare, condivisa e sentita come espressione della propria personalità.
Federico Chabod, in quella lungimirante opera che è “L’idea di nazione” (Edizioni Laterza, 2021) raccoglie le lezioni da lui tenute nell’anno accademico 1943-1944, in piena Seconda guerra mondiale, definisce con precisione scientifica una esperienza consolidata consegnataci dall’osservazione minuziosa dell’evolversi e dell’implodere di Stati tra i più difersi: monarchie, repubbliche, confederazioni e aggregati di territori e di poteri in cui una commistione di fattori apparentemente slegati fra loro, favorisce la trasformazione sociale che è, anzitutto, mutamento economico e quindi cambiamento dei rapporti di forza tra le classi.
Mazzini e i democratici, per quanto possano essere considerati i più innovativi precursori della declinazione democratica del concetto di nazione, nell’analisi dello storico sono una delle forme che prende il sentimento di comunanza di una serie di individualità che, deve essere opportunamente sottolineato e precisato, non fanno immediatemente e meccanicisticamente rima con “individualismo“. Riconoscersi nella nazione vuole prima di tutto dire avvertire un interesse comune in cui proprio il singolo cittadino trova la sua piena espressione.
Il nazionalismo, come siamo costretti ad intenderlo noi oggi dopo le esperienze novecentesche dei totalitarismi e dei revanchismi di vario tipo che hanno infiammato i movimenti irredentisti tanto in Italia quanto in altre parti d’Europa, è qualcosa di molto diverso da ciò che si poteva presumere agli albori della sua comparsa con le rivoluzioni seguenti quella francese. Si tenta, spesso, di trovare il punto di origine tanto di un fenomeno quanto della dicitura dello stesso. Se non provassimo a fare ciò con il concetto di nazione, troveremmo qualche difficoltà nel poter dire quando veramente si è iniziato a parlarne.
Per i greci la nazione era la città-stato, la comunità che si riuniva attorno al potere popolare, alla “democrazia“. Per i romani più che la nazione, vale il concetto di Stato, di res publica, dell’amministrazione di un bene comune che è identificato col potere politico e militare. Le “nationes” sono le tribù di selvaggi barbari al di là del limes. Mentre chi sta al di qua del confine è quel “populus” cui il diritto romano attribuisce un valore di eccellenza tra le genti: sulle insegne delle legioni campeggia il vessillo con la scritta “Senatus populsque romanus“.
Il popolo è, insieme al Senato, quella che noi oggi chiameremmo la “nazione“, mentre l’impero è l’insieme dei territori che sono soggetti a Roma: uno Stato federativo, che rispetta le nazionalità proprio espressione particolare, singolare e insopprimibile di un insieme di persone accomunate da una tradizione consolidata nelle relazioni sociali, civili, morali e cultural-religiose. Dunque, la nazione esiste prima ancora di essere trasmissibile col nome con cui siamo abituati oggi a definirla.
Ne esiste, come sottolinea Chabod, la sua idea. E di questa tratta l’insieme delle lezioni tenute dallo storico in un periodo in cui in Italia il nazioalismo è l’estremizzazione progressiva, che conduce ad una esclusività imponente quanto ingombrante, che conduce alla guerra imperialista, alla sopraffazione di un popolo su altri, di un potere su altri, di un paese su altri. Non è questo – rimarca più volte Chabod – ciò che si intende per nazione quando si va alla ricerca della sua comparsa sulla scena della Storia umana.
Contrapponendosi comunque all’universalismo illuministico, il concetto e l’idea nazionale sono il frutto del Romanticismo, della rinascita delle passioni in una politica che, con l’idea controversa del “dispotismo illuminato” di Voltaire, aveva preteso un livellamento per nulla egualitarista, ma confacente al mantenimento di tanti status quo, considerando i popoli immaturi per evoluzioni liberali e democratiche. Non che Voltaire avesse poi così tanto torto, ma se prendiamo ad esempio la Rivoluzione francese, ci troviamo davanti ad una smentita di questo timore intellettualistico.
I dibattiti di attualità, rivisti col senno di poi, secoli dopo – esattamente come stiamo facendo noi – appaiono pieni di incongruenze, di contraddizioni. Ma, del resto, se così non fosse non si potrebbero nemmeno definire dialettiche discussioni che hanno coinvolto qualcosa di più dei semplici salotti aristocratici e borghesi dell’epoca. Proprio la diffusione della cultura è tra gli elementi che riproducono modernamente il concetto di nazione come apertura delle coscienze ad un panorama di vita più ampio e vasto del provincialismo italiano rinchiuso negli staterelli preunitari.
E la cultura, di per sé, è veicolata dalla comunicazione, dal linguaggio, dalla complicatissima mutazione che le parole riscontrano nel momento in cui in un dato territorio, come quello italiano, esempio emblematico e meglio calzante di tanti altri, si confondono e si incontrano, secolo dopo secolo, le genti più diverse che, così, entrano a contatto con gli autoctoni che da longobardi e bizantini divengono arabeggianti al sud e mittelimperiali e germanici al nord; per passare poi ad un comunalismo che fa somigliare l’Italia del ‘200 e del ‘300 ad una sorta di Grecia delle già citate polis.
Ad un tratto il concetto nazionale sembra sparire quando lo sminuzzamento delle comunità è così intensificato da un potere che si erge sul familismo, su oligarchie ristrette: le leggi differiscono da città a città, così i costumi e i dialetti che sono vere e proprie lingue. Neolatine in certi frangenti, germaniche in altri, francofone in altri ancora. Ma anche nell’Italia delle cento città, dei comuni e di Dante, la nazione come idea non sparisce poi del tutto. Il sommo poeta si ritiene fiorentino, è evidente. Per lui l’Italia è quel giardino dell’Impero che viene dimenticato mentre si dilania nelle tante faide interne.
Non c’è dubbio alcuno sul fatto che l’opera di unificazione lingusitica sia stata faticosa: basti pensare che a fine Ottocento, ad Italia politicamente unita, si parlavano ancora come prima lingua gli idiomi regionali e si utilizzava l’italiano come oggi si utilizza l’inglese internazionalmente. Ma Dante, ad iniziare dalla diffusione della “Commedia” che ne fece il figlio Jacopo, divenne lustro dopo lustro un valore condiviso: intellettualmente e politicamente. In questo senso, Durante Alighieri è considerabile un cardine nazionale, un fondamento della nazione stessa.
Ma ogni strumentalizzazione successiva, sopratttutto in occasione degli anniversari di vita e di morte, è da respingere. La nazione italiana è la lingua di Dante perché il grande poema è una allegoria galleristica immensa, che ha saputo affascinare al di là del pensabile quello che era, fino a poco tempo prima, “nave senza nocchiere in gran tempesta“. Chabod mette più volte l’accento sull’elemento linguistico, del resto richiamato anche da Mazzini in alcuni suoi scritti: la nazione è identità prima di tutto sociale e la socialità si esprime mediante il parlare, il confrontarsi, il riconoscersi come simili.
Se è capitato di trovarci all’estero ed essere circondati dagli autctoni, la prima voce che ci sembrava amica era quella di chi parlava come noi. Peché nella riconoscibilità dei concetti sta la simile condivisione dell’esistenza nella sua interpretazione comune, quanto meno afferente a quei valori in cui si è stati abituati a crescere e che, sinteticamente, chiamiamo “cultura“, includendovi tutte le abitudini che ci compenetrano di giorno in giorno.
Il Romanticismo, dunque, è per Chabod la quintessenza dell’origine della moderna idea di nazione: perché lì, nella riemersione passionale interiore, che si invera tanto nei versi quanto nei proclami politici, risiede la valorizzazione delle differenze, delle specificità che non possono essere soltanto affrontate col metodo razionale dell’Illuminismo. La Nazione con la enne maiuscola la si pensa, la si immagina, la si sogna. E questo è tipico del romantico, del fervore di uno Jacopo Ortis, dei tanti slanci giovanili verso quell’idea di libertà perduta che inizia ad identificarsi con l’Italia tutta intera.
La storia che Chabod tratta è una fitta indagine su come l’idea di nazione si passata attraverso le più diverse influenze culturali di ogni tempo e ne sia uscita per come è stata intesa tra il Settecento e il Nocento: sempre più lontana dal provincialismo dantesco e sempre più vicina all’identificarsi con lo Stato che, per l’appunto, si definisce “nazionale“. Lo Stato in cui i caratteri distintivi sono l’omogeneità sociale, civile e culturale, nonché religiosa. Diversa la questione economica: si può – come nel caso dell’Italia – entrare a far parte del consesso delle nazioni europee pur nella più asperrima dicotomia tra il proprio nord e il proprio sud.
Una lacerazione che nega l’unità sociale pur dentro una unità politica. Quindi la nazione moderna ha dei tratti di resilienza molto espliciti, riscontrabili nella sua capacità di adattamento che, di per sé, non sono un elemento risolutivo per le contraddizioni che un paese vive, trascinandosi dietro problemi che diventano intrinsecamente atavaci e cronicizzati tanto storicamente quanto attualisticamente. Ciò che Chabod riprende dall’idea romantica dell’unità di popolo, della condivisione passionale dei valori, è anzitutto la scoperta di quella che chiama “l’anima nazionale“.
Mazzini ne farà il fulcro dell’umanità internazionale in cui sogna la repubblica universale. In quella, le nazioni non si rivolgono contro sé stesse in bieche torsioni nazionalistiche, ma si compenetrano e si riconoscono l’una con l’altra nell’essere parti di una umanità inscindibile, il cui progresso non è esclusivo ma inclusivo. Un mondo utopico tanto quanto di utopismo è stato accusato l’ideale socialista e comunista. Che non è antinazionale in sé e per sé; ma che è indubbiamente antinazionalista, perché quando la divisione è considerazione dei soli propri interessi, si attua una gerarchizzazione che, paradossalmente, non appartiene a ciò che i romantici attribuivano alla nazione.
Può stupire che per molto tempo si sia pensato all’identità dei popoli come a qualcosa, ad esempio, di legato alla terra, al mondo produttivo contadino, così come alle altre maestranze che hanno dato seguito alla nascita di una economia nazionale. Ma, in fondo, la correlazione tra idea e concretezza della stessa come meglio poteva essere sintetizzata se non dall’appartenenza ad un dato luogo? Non di meno, nelle lezioni di Chabod, possiamo trovare curiosi riferimenti al modo in cui si categorizzavano i paesi e i popoli che vivevano, attribuendo così una fisionomia nazionale che, il più delle volte, era intrisa dei peggiori stereotipi.
Succede anche oggi: degli italiani si dice, generalizzando, che sono “pizza, spaghetti, mandolino e mafia“. O qualcosa di simile… Dei francesi che sono “mangiarane“; mentre dei tedeschi si parla in termini tanto di “birra e salsicce” (un po’ alla Totò) quanto di “rigidezza“, di “burocraticità“, di “obbedienza e rigore“. La nazione è anche questo: ciò che trasmette al suo esterno e che, fuori da ogni istinto nazionalistico, non necessariamente è esportazione della propria cultura a danno di altri. Così come di democrazie, modelli universali che, guerra dopo guerra, proprio universali non sembrano essere.
L’IDEA DI NAZIONE
FEDERICO CHABOD
EDIZIONI LATERZA, 2021
€ 16,00
MARCO SFERINI
21 febbraio 2024
foto: particolare della copertina del libro
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