Ecco l’annunciato Zeitenwende – il passaggio al tempo nuovo. Il cancelliere tedesco Scholtz e il ministro della difesa Pistorius in eleganti cappotti neri, raggiunti dalla premier danese Frederiksen: affondano le vanghe nella nuda terra ed inaugurano la nuova fabbrica Rheinmetall di munizioni d’artiglieria.

L’obiettivo che fu annunciato, il milione di pezzi in mano agli ucraini entro marzo, è un miraggio: dopo decine di migliaia di morti, cade Adviivka e si combatte con sempre meno risorse. Mine e droni russi hanno congelato l’iniziativa di Kyiv, circoscrivendola alla battaglia sul Mar Nero.

Nel frattempo Rheinmetall ha ottenuto commesse per 10 miliardi: da quando i carri armati russi hanno invaso l’Ucraina il valore delle azioni è più che raddoppiato. Il segretario Nato Stoltenberg punta il dito contro i ritardi del Congresso Usa.

E annuncia un milione di droni e nuove mine per le difese ucraine. Ma il candidato Donald Trump è sempre più ansioso di rimettersi a smantellare l’Alleanza, mentre Tucker Carlson loda Putin e la dolce vita moscovita, e nell’Artico le carceri russe restituiscono morto il capo-oppositore Navalny. In Occidente, Germania, Regno Unito e Giappone entrano in recessione.

La Conferenza sulla Sicurezza di Monaco si aperta con sondaggi che vedono un 87% dei cittadini Ue favorevoli a una difesa europea. Proprio a Monaco, nel 2007, Putin esplicitò le basi del revisionismo russo.

Oggi la standing ovation per Zelensky, che arriva con in tasca un accordo bilaterale con Londra, ed è passato a firmare a Parigi e Berlino (non a Roma). Nella sostanziale afasia sulla guerra contro Gaza, mentre Israele bombarda i palestinesi nella barriera fra la Striscia e il Sinai egiziano – nefasto annuncio della nuova Nakba -, la Germania parla con la Francia di condivisione dell’ombrello nucleare, e porta la Turchia – finora esclusa per via del flirt con gli S-400 russi – ad aderire all’iniziativa di scudo missilistico continentale: 17 paesi, fra cui le neutrali Austria e Svizzera. La Francia è critica, perché il sistema non sarà interamente made in Europe, ma includerà gli americani Patriot e gli israeliani Arrow.

I paesi europei spendono oggi per la difesa 380 miliardi di dollari: erano 230 del 2014, anno dell’invasione della Crimea. Ursula von der Leyen dichiara che l’Unione europea darà slancio alla propria industria di difesa, come già fece con vaccini e gas: spenderà più in commesse europee, invece che comprare da paesi terzi, come gli Usa.

Si prevedono resistenze da alcune capitali, ma la traccia è data per segnata. Lo stesso Draghi, del resto, si è detto fiducioso in caso di vittoria delle destre al voto europeo: arrivate al governo, non potranno negare che l’europeizzazione della difesa è imperativa e conveniente.

Eppure lo stesso Stoltenberg, lo scorso 31 gennaio, sottolineava candidamente alla Heritage Foundation che più Nato significa più mercato per l’industria militare Usa: prova ne sia che gli alleati atlantici negli ultimi due anni si sono impegnati ad acquistare armi Usa per 120 miliardi. Missili per Regno Unito, Finlandia e Lituania, carri armati per Polonia e Romania, e F-35 per tutti gli altri: dunque «la Nato è un buon affare per gli Stati Uniti».

A Monaco la vice-presidente Usa, Kamala Harris, ha denunciato le ideologie fallite dell’isolazionismo e dell’autoritarismo che stanno destabilizzando il mondo. Ha rivendicato l’importanza della leadership di Washington, mettendo al centro la Nato, allertando contro il rischio di un futuro presidente Usa che abbandona gli alleati per blandire le dittature.

Da tempo gli Usa dispongono di una space force, e guardano con sospetto i test anti-satellite condotti da altre potenze con lancio di missili balistici.

Bandita da ogni trattato, la militarizzazione dello spazio è uno scenario realistico, quale che sia il peso delle speculazioni accesesi a Washington attorno al presunto progetto di arma atomica russa nello spazio.

Se una deflagrazione nucleare fuori atmosfera avrebbe effetti indiscriminati, che mal si acconciano al calcolo strategico, resta il fatto che costi e vantaggi della proiezione di tecnologia nello spazio cambiano rapidamente, mentre dipendiamo sempre di più da reti satellitari vulnerabili – dalle infrastrutture civili ai sistemi di allerta missilistica nucleare.

Nelle loro interconnessioni con dati e comunicazione, i satelliti hanno un ruolo dirimente anche in guerra, come mostra l’impero di Elon Musk: dalla geopolitica all’astropolitica il passo è ormai breve, soprattutto se saltano i trattati per il controllo degli armamenti.

Una parte crescente di politici ed esperti si mobilita ad arginare la paura perorando l’ulteriore aumento delle spese militari, in nome del si vis pacem para bellum. Uno scenario che è quasi una professione di fede, in cui la democrazia viene difesa da forze di progresso che votano indiscriminatamente i crediti di guerra, le destre nazionaliste governano e sono ammansite dalla necessità di difesa del blocco occidentale, mentre le tante contraddizioni sociali, economiche e politiche che emergono sarebbero col tempo riassorbite dal giusto corso della Storia.

Un argomento che si consegna a una visione puramente geopolitica ed essenzialista dell’Occidente, smarrendo capacità di visione delle trasformazioni globali, delle dinamiche di disumanizzazione che ci attraversano e dell’orizzonte della sostenibilità.

Non si discuta quale modello di difesa. Si ignorino i fondamenti empirici su cui è stata storicamente costruita la pace (si pensi alla fine della Guerra Fredda), che non sono da rintracciare nella pura competizione al riarmo e nell’ancor più elusiva «vittoria» nello scontro militare, indiretto o diretto, ma semmai nella capacità di gestire trasformazioni contraddittorie, produrre consenso e opportunità per i molti.

Se vuoi la pace prepara la pace.

FRANCESCO STRAZZARI

da il manifesto.it

foto: screenshot tv