La strage di Kerman, durante la ricorrenza del quarto anniversario della morte del generale dei Pasdaran Soleimani, ucciso su ordine di Donald Trump nel 2020, così come gli attacchi a Damasco e a Beirut, mirati contro personalità filo-iraniane appartenenti alla dirigenza di Hamas, fanno parte di una qualche strategia di estensione del conflitto israelo-palestinese oppure si tratta di episodi scollegati fra loro, di matrice anche molto differente?
In sostanza, la domanda poi è questa: il mandante di queste azioni sono gli occidentali (Israele e Stati Uniti) oppure sono gruppi jihadisti sunniti che avversano tanto la dirigenza iraniana quanto, nell’insieme, lo sciitismo? Siccome al momento non c’è nessuna rivendicazione, almeno per quanto riguarda il più sanguinoso di questi atti che ha provocato oltre cento morti e ben duecento feriti, è davvero complicato poter dare una risposta.
Ma, a ben vedere, una risposta non esiste nemmeno se la si cerca nelle tante altre domande che sulla guerra in corso a Gaza ci si possono fare in merito agli ultimi posizionamenti tattici di Tsahal.
Lo spostamento di ben cinque brigate dalla Striscia al nord di Israele lascia presagire che lo Stato ebraico si prepari ad un conflitto con il sud libanese, con Hezbollah che, però, dopo il discorso del suo segretario generale Nasrallah, pare mantenere un profilo ancora basso, cercando di evitare di trascinare Beirut in una guerra devastante.
Il timore, più che giustificato riguarda la potenza di fuoco dell’esercito israeliano: la devastazione totale della Striscia di Gaza è lì a dimostrare che il gabinetto di guerra di Netanyahu non si risparmia in quanto ad eccidi e ad una messa in pratica di quel genocidio del popolo palestinese di cui lo accusano anche paesi come il Sudafrica che, con un certo coraggio, hanno aperto una procedura di riconoscimento di questi crimini da parte della ICJ, la corte di giustizia dell’ONU.
Uno Stato come quello sudafricano, sensibile alla sua storia di apartheid, non ha potuto non rilevare, con un carteggio minuziosamente compilato in ogni sua parte, che da settant’anni a questa parte i palestinesi vivono in quel regime di segregazione: dalla Cisgiordania a Gaza. La colonizzazione forzata del territorio occupato, in spregio alle risoluzioni delle Nazioni Unite, è una guerra di posizione, dai contorni asimmetrici, perché impegna lo Stato di Israele direttamente e indirettamente.
Ufficialmente Israele condanna una serie di occupazioni di terre, ma nella pratica sostiene ogni azione dei fanatici religiosi più votati alla causa dell’espansionismo tanto materiale e terrestre quanto culturale e sociale di uno Stato diventato la quintessenza dell’imperialismo nella regione mediorientale. Dopo gli attacchi del 7 ottobre scorso, tutto il mondo aveva manifestato solidarietà nei confronti del popolo israeliano; persino quei paesi che, storicamente, sono meno vicini a Tel Aviv.
Ma gli oltre ventiduemila morti fatti fino ad ora a Gaza, le atrocità compiute con bombardamenti a tappeto, che hanno falcidiato interi nuclei familiari, per cui il 70% dei palestinesi assassinati dall’invasione israeliana sono donne, bambini e ragazzi (la popolazione di Gaza è per un quarto formata da minori di diciotto anni), i continui raid sugli ospedali e i massacri perpetrati persino contro i campi profughi, hanno avuto l’effetto di mettere sempre più in secondo piano quanto avvenuto nei kibbutz e al rave party nel deserto, perché la sproporzione della reazione di Tel Aviv è abnorme.
Ed infatti non si può parlare di reazione, di rappresaglia contro Hamas per il crimine compiuto, per la strage avvenuta. Quello scriteriato atto di terrore è servito al governo israeliano per muovere una nuova guerra contro i palestinesi.
Senza alcuna distinzione. Se questa fosse stata fatta, Netanyahu, Gantz e i loro comandanti avrebbero disposto davvero degli attacchi mirati contro i miliziani jihadisti e non fatto terra bruciata di Gaza prima, Khan Yunis poi e, passo dopo passo, di ogni metro della Striscia spingendo le centinaia di migliaia di profughi verso la strada sbarrata di Rafah.
L’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica si basa essenzialmente sul presupposto dettato dall’articolo 2 della Convenzione del 1948, per cui ci si trova innanzi ad un proposito di tale fatta quando vi è «l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale». Se la corte dell’ONU dovesse decidere in favore della mozione proposta da Pretoria, Israele verrebbe giudicato colpevole di un crimine che parte del suo popolo ha patito proprio all’origine della sua stessa storia.
Lo sterminio di massa, calcolato come misura per liberare uno spazio fisico e sociale. Calcolato sulla base di mire espansionistiche associate ad una ritenuta superiorità del popolo israeliano (ed ebraico) di risiedere nelle terre di Palestina.
Non sono poche le esternazioni dei ministri del governo di Netanyahu che si sono lasciati andare a dichiarazioni apertamente xenofobe: l’ultradestra nazionalista di Smotrich, dopo essersi profusa in manifestazioni ostili ai diritti civili, contro la comunità LGBTQIA+ israeliana, ha fatto del 7 ottobre la madre di tutte le battaglie contro i palestinesi.
Il peggio del nazionalismo sionista è oggi alla guida di un Israele spaventato, ancora scosso dalla carneficina di Hamas, che risponde con uno sterminio di massa che coinvolge non solo il territorio occupato palestinese, da Gaza alla Cisgiordania, ma tutto il mondo mediorientale e arabo. Di qualche giorno fa è la notizia riportata da “The Times of Israel” secondo cui il governo di guerra starebbe trattando con il Congo il “reinserimento” dei profughi palestinesi nel suo territorio.
Vogliamo chiamarla più propriamente con il nome che spetta ad una ipotesi di questo genere? Vogliamo definirla per quello che potrebbe realmente essere? Una deportazione.
Anche qui la memoria torna a lugubri, orrorifici tempi passati, quando si pensava di deportare gli ebrei in Madagascar per liberare lo spazio vitale tedesco, liberandosi della razza inferiore, di quelli che venivano sprezzantemente e violentemente accusati di essere i rapinatori di una economia germanica che, altrimenti, avrebbe potuto spiegare le sue ali, con la politica omicidiaria di Hitler, alla conquista dell’Europa e del mondo nel segno del nazionalsocialismo.
Se il conflitto dovesse allargarsi al Libano, alla Siria e soprattutto all’Iran, non si potrebbe nemmeno più parlare di “destabilizzazione” dell’area mediorientale, ma semmai di una saldatura dei conflitti tra est ed ovest, tra America, Europa, mondo arabo e Asia. Russia e Cina in questi frangenti starebbero a guardare?
Ammesso che lo abbiano mai veramente fatto… E’ probabile che sosterrebbero “per procura“, al pari della NATO e degli USA con l’Ucraina, il controbilanciamento alla strapotenza israeliano-statunitense, muovendo nello scacchiere internazionale tutte le pedine che permettano la continuazione di un cinico gioco espansionistico.
Si parla tanto di “escalation” del conflitto, ma veramente riteniamo di essere al di fuori di questo concetto oggi, con oltre ventiduemila morti a Gaza, con bombardamenti incessanti, fatti con ordigni che nemmeno in Afghanistan erano stati utilizzati dalle truppe coalizzate e guidate dagli americani, con un azzeramento totale dei diritti umani, con una irrisione del ruolo delle Nazioni Unite tacciate di antisemitismo dopo le critiche del Segretario generale alla politica di aggressione bellica portata avanti da Israele?
L’escalation della guerra c’è ed è proprio tutta dentro il drammatico conto dei morti, dei feriti (centinaia di migliaia…), di donne e bambini traumatizzati per la vita, di un popolo intero trattato come se fosse per intero responsabile, oltre che del 7 ottobre, anche del semplice fatto di esistere…
Il capo del Mossad, a proposito dell’azzeramento dei vertici di Hamas ha dichiarato che «ci vorrà del tempo, proprio come dopo la strage di Monaco. Ma li troveremo, ovunque si nascondano». Ma intanto a morire sono i civili, mentre Hamas, nonostante la morte di molti comandanti e del vice di Haniyeh a Beirut, rimane comunque al governo di quel che resta di Gaza.
L’attacco al cimitero iraniano di Kerman può, nel quadro di questa illogica espansione del conflitto, avere una valenza politico-militare soltanto se lo si pensa come pura e semplice provocazione che, per l’appunto, con l’impatto devastante che ha avuto in numero di morti e feriti, dovrebbe trascinare l’Iran dentro la guerra, al pari di altri suoi alleati come Hezbollah. Oltre ad uno pseudo-valore simbolico che gli si potrebbe attribuire, proprio per la ricorrenza della morte di Soleimani, chi ha compiuto la strage del 3 gennaio lo ha certamente fatto con l’intento di causare una reazione oltremisura del regime degli ayatollah.
Nel mentre Israele posiziona le sue brigate anche in altre parti del territorio, a nord e al centro del paese, mentre intensifica i raid contro la popolazione civile e le milizie di Hamas senza operare nessunissima distinzione; mentre attacca le basi sciite in Libano e Siria, colpendo le periferie di due capitali come Beirut e Damasco, atti che di per sé basterebbero ad un governo per dichiarare guerra all’aggressore, sembra proprio che il mirino sia stato puntato contro Teheran.
Forse la parola che meglio rende questa inquietante sequela di provocazioni è: esasperazione.
Ogni tentativo dell’ONU e della diplomazia internazionale di far cessare anche temporaneamente in bombardamenti e l’invasione di Gaza è fallito e fallirà ancora, perché, dichiarazione tra le prime dell’anno, Israele giura che per tutto il 2024 la guerra continuerà. Non fino all’ultimo leader di Hamas ucciso, ma fino all’ultimo palestinese non scacciato. Le trattative con il Congo parrebbero andare in questa direzione.
La questione degli ostaggi che, proprio come i morti del 7 ottobre, appare sempre più sullo sfondo delle priorità del governo di Netanyahu, non è più una deterrenza. Per nessuna delle parti in causa. Le trattative del Qatar rimangono aperte, ma ormai la terra bruciata è sinonimo di inaffidabilità israeliana, tanto quanto la strage dei kibbutz lo è nei confronti del movimento jihadista. Non ci si può fidare di nessuno. Eppure a questo sterminio si dovrà mettere fine prima che sia finita del tutto per i palestinesi.
Genocidio o no? L’interrogativo sul piano meramente giuridico internazionale è affidato, per la sua soluzione, alla Corte di giustizia delle Nazioni Unite. Mentre nei fatti è evidente che, data la sproporzione della violenza, che pure violenza rimane in tutto e per tutto, Israele oggi di sé possa dire molte cose, ma non di essere una democrazia che rispetta il diritto di autodeterminazione dei popoli. Non lo può dire oggi e, ad essere sinceri, non lo poteva nemmeno dire ieri e l’altro ieri. Tutta la sua storia è solcata dal proposito sionista di annientamento del popolo palestinese.
Gli arabi ci provarono a scalzare lo Stato ebraico dal suo insediarsi nella parte delle terre dell’ex mandato britannico abitate per lo più da semiti. Mossero più di una guerra contro Tel Aviv. Poi, sconfitti, ricominciarono a pensare ad una soluzione che contemplasse la convivenza. Due Stati e due popoli sembra ormai una utopia più grande di qualunque altra. La ipotizzata confederazione tra israeliani e palestinesi, come speciale organizzazione autonoma e unitaria al tempo stesso, non pare molto lontana da questo utopismo conclamato.
Ormai questo Israele, guidato da una destra guerrafondaia, imperialista, colonialista, ultranazionalista e fanaticamente sionista, ha tutti i crismi di una teocrazia mancata. Esattamente quello che rimprovera all’Iran o ad altri Stati che adottano il credo religioso come fondamento legislativo generale e come modus vivendi dei propri popoli.
Questo Israele non può promettere a nessuno un futuro di pace, se non nell’annientamento del diverso da sé stesso. E se c’è lui, vuol dire che l’altro rispetto a lui non c’è. E questa davvero può essere definita “democrazia” e per giunta “liberale” sul modello occidentale…? Forse sì, se per democrazia ne si intende la famigerata “esportazione” che ha già fatto strame di intere culture, di gran parte dei popoli africani e asiatici…
Forse sì, forse questa è la democrazia moderna dell’Occidente. La negazione di sé stessa.
MARCO SFERINI
4 gennaio 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria