La morte di Toni Negri, alla veneranda età di novant’anni, induce benevolmente ad una serie di considerazioni che traggono spunto dal militante, intellettuale e politico marxista (“operaista” si sarebbe detto un tempo, o meglio ai suoi tempi) sul rapporto che si può ancora ricercare tra criticismo sociale antidogmatico a sinistra, modernità liberista fatta passare per modernità progressista e quattro conti con la storia del movimento anticapitalista ma piuttosto genericamente.
Controverso, amato, odiato, incarcerato ingiustamente e preventivamente perché le menti libere fanno molta paura al potere. Divisivo, critico, convinto delle sue idee fino a sfidare i confini labili di una politica troppo istituzionalizzata e piegata al politicienne. Anticonvenzionale e mai sceso a patti con la delusione dei tempi. Andati e tornati. Vecchi e moderni. Privo di banale retorica fino alla fine, Negri scrive con Micheal Hardt quell'”Impero” che, appena editato, diverrà uno dei testi più accattivanti degli ultimi decenni.
Quanto meno per la fascinosa tesi per cui l’impero strutturalmente economico, neocapitalista e liberista, è praticamente ovunque e, quindi, avrebbe avuto, dalla fine degli anni ’90 in poi, poco senso parlare di “imperialismo” situandolo in un preciso contesto statale (tanto per fare un esempio classico, gli Stati Uniti d’America); nell’ultimo Negri (ed in Hardt) l’effetto globalizzane del sistema coincide con la sua dominazione totalizzante. Le categorie sociali, politiche ed economiche hanno un estremo, grande valore e, per questo, vanno utilizzate parsimoniosamente ma senza reticenza.
A suo tempo, ad una prima lettura, mi convinsi che quella teorizzazione dell’impero globale, spalmatosi praticamente ovunque quasi uniformemente (almeno questa era la percezione che mi aveva investito nel primo approccio al testo negriano-hardtiano) era una semplificazione eccessiva. Aveva delle corrispondenze con la realtà, ma la sublimava, in un certo senso, e tendeva forse a sopravvalutare il liberismo nelle sue potenzialità dissolutive.
Figli di una narrazione che vedeva nel multipolarismo lo scontro delle civiltà, quantomeno presunte tali, riusciva difficile affidarsi completamente ad una nuova interpretazione che abbandonava il piano hegeliano declinato nella critica marxiana e si rivolgeva di più ai teorici francesi, alla critica deleuziana che si pone alla radice orizzontale, che non verticalizza, che non sistematizza, ma che fa dell’a-centrismo rizomatico il nuovo non-punto di osservazione del tutto.
Che non vi fosse, quindi, più un fulcro da cui far partire l’aggiornata teoretica dell’imperialismo di nuovo modello, post-guerra fredda, di un dopo-multipolare che diveniva praticamente la stagione dell’unipolarismo a stelle e strisce, era, come è facile capire, un nuovo approccio, molto anti-ortodosso, veramente rivoluzionario nell’interpretazione più complessiva del neocapitalismo in salsa liberista. Per operare una similitudine esemplificatrice, basterebbe immaginare la diatriba secolare tra geocentristi ed eliocentristi calata nella quotidianità sociale di un tempo.
Lo sconvolgimento, almeno per chi come noi ha inteso – al pari di Toni Negri – continuare a dirsi ed essere comunista, non è stato poco. Per un po’ ha dinamicizzato il dibattito, sparigliato schematizzazioni obsolete e permesso alla dialettica progressista di funzionare diversamente rispetto al consuetudinario meccanicismo che non ha fatto altro se non produrre corsi e ricorsi politici davvero estenuanti nel condannarsi alla sconfitta imperituramente masochista.
Il risultato, a quasi venticinque anni di distanza dalla sua pubblicazione, è la riconsiderazione di “Impero” come un testo sagace, per certi versi anche irriverente nei confronti delle incrostazioni anticritiche di un marxismo fossilizzatosi su categorie che non reggevano più la prova dei tempi e che, unicuique suum, avevano veramente bisogno di scrollarsi d’addosso non la propria crescita filosofica, il portato ideologico cui avevano contribuito nelle tante pieghe della traduzione sindacale e politica, quanto proprio la politica stessa che era divenuta altro da sé stessa.
L’idea stessa di Europa, come costruzione da parte degli “Stati-nazione” di una comunità condivisa, di un progetto unificante nelle differenze, viene messa in discussione al pari degli altri centri imperialisti. Non sono più i singoli soggetti nazionali ad essere promotori di nuove culture dell’insieme, di un popolarismo diffuso che integra le diversità, ma sono bensì questi grandi agglomerati di potere economico, finanziario e politico ad eterodirigere le particolarità.
Negri coglie la crisi dei ceti politici dei singoli Stati che, nemmeno a dirlo, va di pari passo con la crisi economica continentale e globale, quindi sono incapaci di rigenerarsi e di affrontare le sfide del liberismo su vasta scala. Ne consegue la formazione di un nuovo ceto politico, uno sovranazionale che, quindi, diventa la nuova classe dirigente. Nei fatti, si tratta di una sostituzione istituzionale verticistica operata dal capitale che si strutturalizza e si ammoderna, che cerca di scansare le nuove contraddizioni che, dalla crisi dei “subprime“, emergono con titanica prepotenza.
La globalizzazione – sostiene Toni Negri – ha rappresentato per i popoli del Terzo mondo una occasione di fuoriuscita dalla miseria ma, di contro, l’Occidente se l’è fatta sfuggire di mano, non è riuscito a gestirla e, di più ancora, a governarla attraverso la rappresentanza politica e l’organizzazione statale. La “trumpizzazione” è figlia di questa incapacità gestionale, è uno degli effetti cui deve sottostare, quasi paradigmaticamente (perché i casi di “sovranismo” e populismo che emulano il tycoon americano sono tanti…), proprio un nuovo disordine mondiale.
Non ultimo, Javier Milei è il ritratto tendente alla perfezione del conglobamento del peggio della reazione politica con la deriva conservatrice travestita da ossimoro anarco-capitalista, ma che, nel dirsi tale, espone chiaramente il suo programma: tutto il potere proprio alla libertà sfrenata del mercato, quasi nessun controllo da parte dello Stato e quindi svalutazione del peso rispetto al dollaro ben del 50% appena dopo l’insediamento del nuovo presidente alla Casa Rosada.
Se la tesi centrale dell’ultima analisi negriana è questa impossibilità di distinguere un imperialismo da un altro, di una uniformità imperiale intesa come estensione globale della ferocia capitalistica su tutto la Terra, possiamo oggi, dopo un quarto di secolo dalla stesura di questi pensieri critici, affermare che non la preveggenza, ma una accurata analisi propriamente marxista aveva colto nel segno quando disegnava l’assenza dei contorni di un potere irrefrenabile che si andava espandendo senza soluzione di continuità, ovunque e comunque.
Gli Stati Uniti – annota molto bene Negri – hanno perso il loro ruolo egemonico e la fase di intermezzo unipolarista seguita alla fine della Guerra fredda, si è andata progressivamente esaurendo in un breve giro di boa di appena trent’anni in cui la globalizzazione ha creato le condizioni perché, su otto miliardi di individui, si formassero due miliardi e mezzo di salariati moderni, di proletari propriamente intesi nello scontro di classe, e una marea di indigenti legati ai prestiti bancari, all’usura legalizzata.
La lettura che Negri fa del neocapitalismo liberista è quella sia della dinamica propriamente immaginabile del rapporto materiale tra capitale e lavoro, che si esprime nella contrapposizione tra proprietari dei mezzi di produzione e lavoratori salariati, ma è anche quella di una finanziarizzazione che, per molti versi, non appare, rimane occultata dietro le pratiche burocratiche degli istituti di credito, della rateizzazione degli acquisti, dell’indebitamento pregresso degli Stati che lo riversano, con una gestione dei conti che privilegia sempre i grandi ricchi, i molti tentativi ipocriti di risanamento sulle fasce più deboli delle popolazioni.
La lotta di classe che viene qui ripresa e riattualizzata, non può prescindere da un sociale diffuso, che va oltre quello che (impropriamente sul piano lessicale ma più correttamente su quello lessicalmente figurativo) fino alla fine degli anni ’80 del secolo scorso avremmo definito come un rapporto strettamente identitario tra classe lavoratrice e mondo degli sfruttati. Oggi questo sfruttamento riguarda l’interezza della società da cui sono esclusi, per l’appunto, solo quei settori che ne prescindono per la natura che ricoprono dentro la modernità liberista: padroni, finanzieri, speculatori.
Non si tratta di un trasversalismo che tende ad unire interclassisticamente operai e ceto medio, questo e le piccole imprese che subiscono anch’esse gli effetti della globalizzazione “imperiale” e, a sua volta, dell'”impero globalizzato“. Tutt’al più, semmai, si tratta di guardare con nuovi anticapitalisticamente critici il funzionamento proprio del liberismo, fin dentro i meccanismi che si sono andati creando e che si sono evoluti nel corso degli ultimi vent’anni almeno.
Il tentativo americano di non perdere l’egemonia globale, esercitato attraverso le tante guerre imperialiste sparse dall’Africa all’Asia, dal Medio Oriente all’Europa stessa, è fallito nel momento in cui gli interessi di Russia e Cina erano penetrati fin dentro i gangli più reconditi delle economie emergenti nei continenti in via di sviluppo. Non si può nemmeno dire che Washington arrivi in ritardo rispetto alla Storia. E’, che quella storia lì è proprio finita. Le precondizioni affinché tutto questo avvenisse sono state la grande sottovalutazione da parte americana.
L’aver puntato sul consolidamento europeo senza lasciare all’Europa un proprio ambito economico su cui potersi autonomamente sviluppare, facendone quindi una nuova e più grande dipendenza con dentro la NATO a fare da cane da guardia rivolto verso Est, ha significato ideologizzare ancora una volta un mondo diviso tra Occidente e ciò che rappresentava indistintamente “il Resto“, mentre questa draconiana spada di Damocle, che divideva in due il vecchio ordine postbellico era già scomparsa.
La stessa interpretazione del mondo del lavoro da parte della sinistra è – scrive Negri – andata seguendo queste stereotipizzazioni, prive ormai di un vero significato: per cui si è pensato nazionalmente ciò che invece andava pensato globalmente. La lotta anticapitalista è stata non soltanto surclassata da un compromissorio e compromettente opportunismo che ha mortificato qualunque epiteto di moderna “socialdemocrazia” ma, più ancora, è stata pensata come l’orizzonte di sé stessa.
Invece che essere una pratica costante del quotidiano politico, concepito in una dimensione tutt’altro che nazionale, l’anticapitalismo è diventato un miraggio verso cui incamminarsi e non un modello di traduzione pratica di una nuova teorizzazione della lotta di classe e dell’opposizione sociale alla barbarie tanto del capitale quanto della finanza globale. Oggi, senza per questo fare assomigliare queste righe ad un panegirico negriano, ad una sublimazione del suo pensiero, e quindi rifuggendo stereotipi tanto positivi quanto negativi, si può dire che l’analisi aveva un suo fondamento.
Purtroppo è sempre a posteriori che si può verificate il tutto. Altrimenti ci dovremmo affidare ad una sorta di lungimiranza aprioristica, ad un pensiero magico che negherebbe qualunque aderenza con la realtà e che mortificherebbe l’intuizione dettata dallo studio attento, come quello di Toni Negri, per un mondo in rapidissimo cambiamento e che, chi più e chi meno, abbiamo contribuito a rendere tale. Se ne siamo colpevolmente responsabili o incolpevolmente vittime, lasciamo dirlo a chi verrà dopo di noi.
Dopo una vita accanto all’idea della rivolta per migliorare l’esistenza dei più deboli, degli sfruttati, a Negri spetta, fosse anche solo per questo (e fosse caso mai poco!) un omaggio e un saluto. Speriamo, con queste righe, di avergli reso un doveroso tributo.
MARCO SFERINI
16 dicembre 2023
foto: screenshot tv