La parola “patriarcato” viene evocata troppo spesso in una analisi abbastanza collettiva del fenomeno della violenza contro le donne, di quella che, forse più propriamente, si può definire “violenza di genere“.
Dovremmo essere cauti nell’utilizzo di vocaboli che contengono concetti il cui significato è eredità di un passato fatto per la maggior parte di un dominio completo dell’uomo sulla donna, del maschio sulla femmina e, parimenti, frutto di una riattualizzazione di un presente – futuro in cui quella prepotenza si è innovata e adeguata ai tempi (chiaramente in senso oggettivamente sempre negativo).
Chi critica l’utilizzo della parola “patriarcato”, quando ci si riferisce ai tanti femminicidi che si sommano nel corso dell’anno solare, lo fa, il più delle volte, pensando che si stia forzando proprio sull’aderenza tra il concetto che riguardava gli eventi di un tempo ormai trascorso e affidato alla Storia e la enorme differenza con l’oggi.
Non c’è dubbio che il potere dell’uomo e del maschio è cambiato nel corso dei secoli. E che, quindi, durante tutto il Novecento, grazie alle grandi lotte libertarie del femminismo è stato costretto ad un ridimensionamento davvero epocale.
Ma non c’è altrettanto dubbio che queste costrizioni lo hanno, per così dire, reso in qualche maniera resiliente, consegnandogli una capacità di adattamento che ha, a sua volta, imposto al movimento di liberazione delle donne e ad ogni forza sociale e politica progressista di riconsiderare continuamente metodi e forme di lotta.
La violenza di genere, quale espressione propria dell’essenza maschile tradotta nei comportamenti quotidiani, è anzitutto fondata su due concezioni uguali e compenentrantesi: potere e superiorità.
Il potere in quanto proprietà acquisita da parte del maschio nei confronti della femmina, dell’uomo nei confronti della donna; la superiorità che è il substrato quasi ideologico di questa determinazione. Io posso perché sono al vertice di una piramide da cui tutto discende. La donna, biblicamente parlando, è genesicamente considerata una protesi dell’uomo che è il diretto prodotto della volontà divina.
Se, nel corso della Storia dell’umanità, questo paradigma è rimasto praticamente invariato per millenni, ciò lo si deve ad una primordiale impostazione tutta maschile che trova nella forza materiale il primo punto di sostegno per affermare i presupposti “incontestabili” di questo assioma dai contorni sempre più dogmatici.
Gli uomini che oggi fanno violenza alle donne non sono presi da raptus che, come sostenuto da una buona parte di psicologi e psichiatri, sono più che altro una sorta di invenzione giuridica per fare in modo che le pene siano almeno dimezzate in sede giudicante. Quegli uomini si sentono autorizzati a far sottostare la donna al loro volere.
Quegli uomini non pensano di sbagliare quando commettono le violenze. Pensano che rientri nel loro preciso diritto e, poi, certamente a tutto ciò si affianca una componente di rabbia incontrollata mossa da molteplici fattori, scataneta per lo più da contrasti che riguardano i sentimenti reciproci, la cura della famiglia, la fine di quei sentimenti, le decisioni da prendere nel caso di un divorzio o di una separazione anche apparentemente consensuale.
Terribili sono i racconti dei giovani che, in gruppo, violentano ragazze a cui hanno fatto bere alcolici per anestetizzarne la volontà. Alcuni di loro, e non sono pochi…, affermano quasi candidamente di non sapere perché gli si rimprovera una violenza. Loro non reputano di aver mosso violenza ad un ragazza.
Né nel momento in cui avviene uno stupro, né prima, quando la vittima viene indotta a bere, magari dopo essere stata già pesantemente fatta oggetto di parole e palpeggiamenti.
Il confine tra le libertà qui salta devvero del tutto. Non si può più afferamre che la libertà dell’uno finisce quando ad essere limitata è quella dell’altro che ci sta davanti. La violenza di genere del singolo, quando si fa violenza di gruppo, è una sorta di vera e propria mutazione collettiva del comportamento entro uno schema etico completamente alterato, privo di qualunque perimetro non solo morale ma anche soltanto logico.
Il potere e la superiorità qui divengono una sorta di legge immorale che astrae questi ragazzi, questi uomini, dal contesto in cui si trovano: entro il loro cerchio perversamente magico possono tutto e tutto si permettono. Certi che la società non li biasimerà, perché è normale che l’uomo ci provi con la donna, perché è naturale che la donna sia oggetto delle attenzioni maschili.
Così come è altrettanto considerato normale (poiché maggioritario) il rapporto eterosessuale, mentre ogni altra forma di sessualità, di espressione del desiderio e di amore è, nonostante tutte le lotte e gli avanzamenti nel campo dei diritti civili, ancora oggi oggetto da parte di una buona fetta della popolazione di sopresa e meraviglia nel migliore dei casi; di scherno, derisione, stigma e disprezzo nella peggiore delle situazioni.
Molto meno rispetto al passato, ma tutt’ora si possono leggere cronache in cui i figli vengono praticamente esclusi dal nucleo familiare perché omosessuali, transessuali, bisessuali.
Perché i genitori sono incapaci di affrontare una realtà che, per troppo tempo, è stata sottaciuta e considerata una “devianza“, una “imperfezione“, una “confusione mentale“, una colpa di chi si trovava a dover vivere le proprie emozioni, le proprie istintive affettività dentro l’asfittica gabbia del pregiudizio, cane da guardia del normailismo a tutti i costi.
Non possiamo più pensare che le lotte contro i femminicidi siano qualcosa di diverso dalle lotte contro i pregiudizi sessuali, contro ogni omo-transfobia.
Perché, comunque si possa provare a declinare le particolarità dei tantissimi, troppi singoli casi che fanno una grande storia di sofferenza, di sopraffazione, di imposizione e di stupro tanto delle coscienze quanto dei corpi, la traccia sonora dell’urlo che viene fuori da queste storie è un veramente un grido di dolore in cui non si può fare una classifica della gravità dei casi.
Nel momento in cui una concezione di superiorità tra individui, e tra questi e altri individui di specie diverse, nonché tra noi e la Natura nel suo insieme, esiste, il problema è soltanto uno: mettere fine al patriarcato che è espressione del sistema capitalistico oggi come lo era delle società che conoscevano il classismo ma che ancora non si erano involute fino al punto in cui ci troviamo oggi.
Il capitalismo è separazione per interesse degli esseri umani da loro stessi; è particolarizzazione sulla base del privilegio di pochi e della misera sopravvivenza di molti. La distinzione di classe è discriminazione di per sé ed è la pietra angolare su cui si erige un edificio che non può avere al vertice l’uguaglianza economica, sociale, civile e morale se alla sua base ha invece la quintessenza della diseguaglianza.
La violenza dell’uomo nei confronti della donna, del maschio nei confronti della femmina, fa parte di un grande edificio antisociale, incivile e immorale per cui è giusto che le differenze permangano sulla base di una meritrocrazia spinta all’eccesso, che oltrepassa i limiti della valorizzazione delle singole qualità nel contesto di un sempre maggiore benessere collettivo.
Così la concezione della superiorità umana nei confronti di quella animale è affidata alla teorizzazione che la nostra intelligenza ci rende quindi padroni di ogni altra forma di vita presente sul pianeta.
Una presenza che, sempre biblicamente parlando, viene ad essere una mera appendice della volontà umana: da qui discende quello “specismo” che inizia ad essere preso in considerazione da sempre maggiore attenzione pubblica, non come un bizzarro concetto incomprensibile, ma come la critica ragionata del perché noi animali umani dovremmo avere più diritti degli animali non umani.
Rapporti tra uomini e donne, tra umani e non umani, tra umani e Natura, sono, come è abbastanza facile evincersene, tutti legati dall’interesse di un sistema economico, sociale ed anche politico che fonda la sua essenza nello squilibrio disarmonico della ricchezza prodotta e che, nel nome del profitto, del privilegio, della maggioranza e della normalità che le deriverebbe, pretende di essere l’ultima spiaggia della Storia.
La contraddizione è davvero intersezionale: riguarda cioè più livelli, più piani, più forme e metodi di lotta contro una serie di preconcetti, di prevaricazioni e di costrutti artefatti a cui si affiancano, spesso e volentieri, delle bislaccherie da pensiero magico.
Perché, se si deve credere che l’uomo sia oggettivamente superiore alla donna, e abbia quindi il “diritto” di possederla e di farne ciò che vuole, allora si dovrà sviluppare una teoria in stile complottista che dimostri come sia invece il femminismo a far parte di un insieme di atti eversivi che vogliono, ad esempio, sconvolgere il tanto declamato “ordine naturale“: delle cose, della famiglia, dello Stato, dell’economia… dell’Universo intero.
Alla credulità non c’è limite quando il progresso morale e quello culturale e scientifico non riescono a procedere di comune accordo i primi due si attardano rispetto alle tappe da gigante del terzo.
Patriarcato, specismo, razzismo, sono manifestazioni diverse e similari, tutte contestualizzabili nell’abominio liberista di un mercato che si impone come il regolatore delle nostre esistenze, ci detta i tempi per tutto e, quindi, anche la morale e i rapporti non solo socio-economici tra noi, ma anche quelli emozionali, per così dire “spirituali“.
Il vecchio rapporto descritto da Marx tra struttura e sovrastruttura non è poi così un ferrovecchio da accantonare: resta un metodo descrittivo tanto della storicità delle dipendenze delle nostre vite, in tutto e per tutto, dal sistema capitalistico, quanto un termometro dell’oggi nella accelerazione propulsiva di una società altamente tecnologica, innovativa sotto molti punti di vista, ma che rischia, proprio in questi anni di violenta crisi globale, tra pandemia e guerre, di riscoprire la diseguaglianza come valore invece che come peste dell’umanità.
Dobbiamo stare molto attenti all’utilizzo delle parole, si diceva all’inizio. Ed è vero.
Ma dobbiamo stare soprattutto molto attenti ad usarle quando è il momento opportuno. E farlo. Perché non usarle, pensando così di non dispiacere al comune sentire, all’opinione pubblica che si erge a paladina della morale, sarebbe un vero regresso culturale, un atto propriamente reazionario. In quanto ostile ad una rivoluzione magari non immediata, ma certamente in cammino.
MARCO SFERINI
25 novembre 2023
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