La prima volta che ho incontrato Arthur Rimbaud me ne stavo su un treno che andava verso la sua Francia, quella del cattivo sangue, quella di una discendenza inferiore, di un tratto idolatrato del tempo, delle guerre barbariche e di quelle dei cento anni.
Viaggiavo oltre il confine di un pregiudizio letterario e culturale: quello della maledizione di alcuni poeti che, nell’aver amato definirsi così, erano finiti sotto la sciagurata cadenza pregiudiziale della maledizione vera e propria.
Mentre il convoglio saltellava sulle giunte dei binari, mentre il mare mi stava accanto, al di là degli appannati finestrini, aprivo il libro che avevo comperato giorni prima e, sebbene sia trascorso molto, molto tempo, ricordo ancora ora che lessi la prima che mi capitò tra le pagine apertesi a caso: “Le suore di carità“.
Confesso che i primi verso turbarono il mio govanilissimo animo allora un po’ cattolicheggiante e, comunque, anche un po’ la mia ancora promiscua psuedo-sessualità che si andava, nonostante tutto, formando.
Fu difficile capire il significato della poesia. Rimbaud mi era praticamente sconosciuto e io non ero che un timido quindicenne che, probabilmente, più che per aver sentito parlare del poeta francese, ero stato attirato all’acquisto del volume dal bel viso di giovinebtto che vi era impresso sopra.
Sarà l’immagine che per molto tempo mi accompagnerà di una dolcezza amara, di una tenerezza ferita dalla vita, di un mistilinearismo di tendenze e di sensazioni che, pur sembrando contraddittorie fra loro, mi regaleranno l’amore per la poesia.
A Rimbaud, ma anche a tanti altri poeti che ho incontrato nella mia esistenza, devo questa sorta di iniziazione. C’era allora una sorta di giallico mistero attorno alla sua figura di ragazzetto delle Ardenne, fuggito tante volte da casa e altrettante tornato, e che le antologie scolastiche tinteggiavano sbavatamente come un grande cantore, come colui che aveva rivoluzionato la metrica e lo stile, il verso e la prosa di una letteratura cadenzata nella stanchezza di un tempo dato alla memoria e senza più tante emozioni da regalare.
C’era nei suoi versi, che leggevo e rileggevo nei miei viaggi in treno e nelle passeggiate lungo il mare, un calamitante trasporto verso qualcosa di più della semplice trasgressione per la trasgressione stessa.
Per un ragazzo di quindici anni è difficile comprenderne appieno la potenza quasi storica; eppure, mese dopo mese, anno dopo anno, quando studiavo altri poeti, mentre li conoscevo intimamente e, quindi, oltrepassando la canonicità dell’istruzione tra i banchi di scuola, mi sembrava di incontrare ogni volta un Rimbaud sempre nuovo.
Le metafore ricche del battello ubriaco, scritto quando ancora non aveva visto una goccia della vastità del mare; i colori turchini delle scene da un matrimonio che si inabissano nei giochi dei “malefici spiritelli” delle acque; le sorsate di veleno inghiottite in notti infernali a cui il poeta pensa di non sfuggire a causa dell’abominio battesimale cui è stato consegnato da infante; il ricordo della giovinezza, l’intrufolarsi della luce tra i rami degli alberi di un bosco, là dove il canto di un uccello ti fa fermare e arrossire…
Tutte queste immagini erano qualcosa di più dello schermo di un telefono cellulare che, oggi, sostituisce le letture da spostamento, in autobus, in treno…
Un po’ alla Guccini, pensavo dondolato dal vagone, e lo facevo con davanti le immagini che i versi di Rimbaud mi procuravano ad ogni pagina. Era come essere scossi da quel “colpo del tuo dito sul divano“, che rivoluziona ciò che sei nel mutare d’improvviso ciò che ti circonda. Il torpore di un sogno finisce quando la melanconia della giornata comincia con la giornata stessa.
L’intuibilissima routine della quotidianità, monotonamente borghese, fatta di mille convenzioni, di atteggiamenti cui obbedire per non dispiacere a questo, quello, a tutti e nessuno insieme, leviga l’istinto che è l’essenza primordiale che ci appartiene e a cui inconsciamente rispondiamo. A questa soltanto dovremmo fare riferimento nel passare delle ore che, a ben guardare, non sono mai uguali l’una alle altre.
C’è una rottura degli schemi che Rimbaud rivendica nel substrato di una angoscia: «Ma la Vampira, che ci rende gentili, ci impone di divertirci con quello che lei ci lascia, o altrimenti di essere più buffi».
Forse scordiamo che siamo pagliacceschi ogni volta che proviamo ad essere noi stessi, pensando di esserlo; nel mentre dovremmo invece depensare, smetterla di compiacerci e di compiacere gli altri.
Dovremmo essere per quel che siamo e prendere il treno più volte, per andare in quelle nostre Parigi dove divampa la rivoluzione: sognare di poterci arruolare civicamente, di far parte di una costruzione collettiva di un progetto iperuranico di liberazione dell’umanità dalla sua coltre spessa di millenari pregiudizi e di abitudini giustificate come parte integrante e inespugnabile del DNA nostro.
La intensissima esistenza di questo giovanissimo poeta morto a soli 37 anni, passato per il fervore comunistico, per l’amore verleniano, per il commercio africano di ignobilissime armi, per la “veggenza” che destruttura tutte le sensazioni e si fa apocalisse interiore rivolta ad una esteriorità di cui ci si cura poco se non nei termini di una convergenza tra l’idea, il sogno di un mondo rivoltato e l’utopia che ne discende, tutto questo mi aveva chiaramente affascinato.
Allora non ne ero affatto consapevole, ma anche Rimbaud, in una certa, minuscola o media misura, aveva contribuito a farmi allontanare dalla consuetudine, dal sociale inteso come obbedienza acritica, regime autocefalo di me stesso, combinazione apparente e combinato disposto da altri per permettermi di avere l’illusione di pensarla diversamente pur continuando ad alimentarmi del vuoto cosmico di falsi problemi.
La metafora complessiva del battello ebbro, della fiumana che trascina tra i gorgoglii nei “risvegli in mare“, in quello aperto, dove ci si deve raffrontare con l’esistente, era stata la più coinvolgente.
Dare retta a tutte le emozioni perché non ve ne è una che sia meno importante di altre.
E perché, alla fine, queste sciocche scale di valori sono veramente patetiche e servono soltanto a far divertire chi gareggia in sentimenti, chi si sente prode mascolinamente, chi vuole imporre la sua etica al di sopra del desiderio e ingabbiarlo in una giustezza che altrimenti non potrebbe essere nemmeno immaginata.
Ciò che siamo, in fondo, non lo stabilisce una poesia e nemmeno Rimbaud. Ma c’è, nel non potere dire niente di tutto, nella socratica consapevolezza che non si sa praticamente nulla e che ogni verità è una parvenza eterea del concetto stesso che abbiamo inventato (al pari di tanti altri), una sfida insita nell’impossibile che – siamo pienamente sinceri tra tutte e tutti – è nettamente più intrigante e affascinante nel risiedere comodamente e noiosamente nel possibile.
I vecchi butterati e pieni di brufoli e cisti, che sono “i seduti“, quelli che «hanno innestato in amori epilettici la bizzarra ossatura agli scheletri neri delle sedie» e che gli sono ispirati dalla figura di qualche bibliotecario che mal digeriva le richieste di libri considerati strani o, peggio, proprio da non togliere dagli scaffali, da non leggere, esprimono magnificamente la nausea rimbaudiana per tutto quello che è stantiamente ancorato ad un pressapochismo utilitaristico.
Ciò che è ovvio diventa non solo figlio del più meschino banalismo, ma assurge ad una elevazione caricaturale di sé stesso.
Nel grigiore della ripetizione di gesti giornalieri, di parole e di sguardi, di sensazioni e pulsioni dettate quasi dal comando della consuetudine e delle pubbliche virtù da benedire, abbracciare e sposare mille volte nella vita, c’è la morte anticipata della verità ancestrale: il capovolgimento dei nostri punti di vista, l’indomita voglia di sconquassare tutto e di farlo con la prospettiva di una esistenza comune riconsegnata alla semplicità e tolta a preti, magistrati, sovrastrutture di qualsivoglia natura e tipologia.
Leggere Rimbaud è come prendere un elisir di lunga disperazione, sapendo che è uno dei tanti e pochi modi al tempo stesso per sfuggire senza fuggire dalla mediocrità della vita, dalla bassezza di quello che si legge, che si scrive (compreso questo articolo, …bisogna pur far finta di essere umili…), che si sente ogni giorno su atrocità, guerre, orrori e miserie indotte da un artificio strutturale che viaggia, nella narrazione consueta e dominante, verso un principio di escatologia del singolo e del collettivo.
La pretesa di dirci alla fine dei tempi, dell’umano sviluppo, con l’arrivo continuo e incessante ad una sisifiana fatica tutta dedita al miglioramento sociale, è la presunzione del possibile. E’ la determinazione di un confinamento dentro un grande imprigionamento che accettiamo come sorte, come un destino da maledire e a cui, paradossalmente essere grati.
Quando Rimbaud vide la fine cruenta della Comune di Parigi, intuì che la lotta era, nella sua indimenticabilità, una “colére folles” che andava incanalata nella dicotomia tra ciò che poteva essere e ciò che non avrebbe potuto essere. Ma, l’inesprimibilità di questa draconiana antinomia, lo avrebbe fatto piombare in una sorta di blocco del poeta-scrittore che, tuttavia, sarà superata già con la lettera sulla veggenza inviata al suo insegnante ed amico Izambard.
La conoscenza della sofferenza, questa gnoseologia necessaria alla perturbazione dell’intuizione che genera le parole, che fa fluire la penna sul foglio, che oggi sembra quasi dimenticata grazie alla frenesia del gettare in pasto a milioni di sconosciuti i propri pensieri repentini, originati dal pressapochismo e non dall’intuito, divenne per Rimbaud una dannazione interiore e, al contempo, una speranza rivolta al suo mondo.
Un poeta che fosse completamente felice in questa società, non sarebbe un poeta. Sarebbe un avventuriero delle parole, un ipocrita scrivente solo per compiacere sé stesso e il suo portafoglio.
E da qui prende avvio la mediocrità, la carsica meschinità di una presunzione che, in quanto tale, non conosce vergogna. Eppure anche la vergogna è straordinariamente efficace nel mostrare i lati misconosciuti di una umanità troppo sicura di sé stessa, ricolma di arroganza, presuntuosa perché bisognosa di avere sempre una identità nell’avere sempre e soltanto ragione.
Di non si sa bene cosa… poi…
Un compagno di viaggio, tra un paesaggio e un altro che scorre dall’intermezzo dei finestrini di un treno. Con tutte le sue metafore, con tutta la sua baccanalica inebriatezza che gli ha procurato, per i suoi trascorsi nella sua breve vita, l’etichettatura da damnatio memorie di maledetto e di criminale, Rimbaud a me fa l’effetto di una notte di nozze. E siccome non l’ho mai avuta, l’effetto è ancora più esaltante.
TUTTE LE POESIE
RIMBAUD
NEWTON COMPTON EDITORI
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MARCO SFERINI
foto: particolare della copertina del libro