«Sai chi ha costruito Tel Aviv? I lavoratori gazawi». Gadi Algazi siede al tavolino di un bar, dietro di lui i cantieri dei nuovi grattacieli sono fermi. Tel Aviv non ha mai smesso di crescere, una città che ha appena cent’anni di vita: lo dice la sua architettura, un misto di palazzi da capogiro, strade a quattro corsie e decadente edilizia residenziale.
La bellezza accecante di Gerusalemme a Tel Aviv non la trovi, devi spostarti una manciata di chilometri più a nord, a Giaffa, la città-porto che era cuore pulsante dell’economia palestinese prima della Nakba del 1948.
Tel Aviv, per buona parte, l’hanno costruita i lavoratori palestinesi. Lo fanno ancora. Le decine di migliaia di permessi di lavoro sospesi hanno fermato i cantieri: «I gazawi erano il contingente di lavoratori più grande negli anni Settanta – continua Algazi, storico israeliano – I giovani israeliani non lo sanno, non riescono nemmeno a immaginarlo. Vedono Gaza come qualcosa di lontano, oltre la frontiera».
Gaza nelle strade di Tel Aviv non esiste. I presidi fissi delle famiglie degli ostaggi in mano ad Hamas e dei loro sostenitori la nominano solo per chiederne la fine o per avanzare uno scambio di prigionieri, poi si vedrà. Gaza non esiste nemmeno in tv: i principali canali televisivi da un mese mandano a ritmo continuo le immagini del 7 ottobre, del brutale attacco di Hamas che ha provocato 1.400 morti nel sud del paese. Ma di quello che è venuto dopo non c’è traccia. Gli israeliani vivono come congelati, sospinti al limite da un flusso continuo di sangue che accende gli animi, li infuoca.
Anche il traffico è diminuito, meno auto ma più aggressività: «La rabbia degli automobilisti è sempre stata il termometro dell’umore del paese», prova a scherzare Yossi, un giovane studente di ingegneria.
La sua famiglia è originaria del Massachusetts, lui della distanza siderale con i palestinesi è un buon esempio. Non ha amici tra loro, forse qualche conoscente, «gente che lavora». «Prima del 7 ottobre – spiega Algazi – questa società non era solo frammentata ma era segregata. In tutta Israele esiste solo un’associazione, Hand in Hand, che promuove scuole miste. Per il resto palestinesi ed ebrei non condividono le aule scolastiche. Ci sono posti di lavoro condivisi, gli ospedali, le università, ma non sono luoghi di scambio o di incontro».
«Gli israeliani ebrei non hanno idea della vita nelle comunità palestinesi in Israele. Forse frequentano le loro officine perché costa di meno, forse vanno in un ristorante arabo, ma non hanno idea di cosa queste persone pensino o in che condizioni vivano. Qui la divisione geografica è etnica: abbiamo comunità-ghetto fin dalla fondazione del paese. Siamo il solo paese al mondo in cui una cittadina può decidere chi ammettere e chi no. Non escludono solo i palestinesi, ma anche i poveri, le madri single».
Si dice da sempre che la società israeliana è un essere complesso, frammentato su più direttrici: religiose, etniche, sociali. Difficilmente le varie isole si incontrano. Ce lo spiegano in tanti: non ci mischia, gli ultraortodossi sono separati dai laici, gli ashkenazi dai mizrahim, i russi dagli europei, gli ebrei dagli arabi, le classi alte e istruite da quelle operaie e povere. Vivono quartieri diversi, città diverse, navigano in stili di vita differenti.
Ad allontanarli c’è anche l’enorme gap sociale che fa di Israele il paese più diseguale di quelli Oecd, l’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo: il 27% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, un terzo del paese delle start-up e dell’high-tech.
Mescolarsi diventa complesso se a Tel Aviv per un appartamento appena fuori dal centro, sessanta metri quadri o poco più, si arrivano a pagare 8mila shekel, quasi 2mila euro. Nemmeno le proteste, lunghissime, contro il governo Netanyahu iniziate a gennaio e infrante contro la tragedia del 7 ottobre hanno ricompattato il paese.
In piazza le manifestazioni avevano portato orizzonti politici diversi (la destra liberale e la sinistra) e le classi sociali più miste (riservisti, intellettuali, impiegati, studenti). «Tutto finito – continua Algazi – Le persone che gridavano “democrazia” ora vanno alla guerra. Ma il dramma era in atto: tutte quelle persone in piazza non hanno mai nominato l’occupazione. Come Netanyahu, pensavano bastasse gestirla. Se la sono scordata, eppure è parte delle loro vite».
In Israele è come se l’occupazione non esistesse, non è parte dell’equazione. Un’assenza che Algazi imputa alla perdita di speranza: «Si applica a entrambi i popoli. Quando sparisce la speranza politica, resta solo la brutalità. Hamas ha voluto terrorizzare gli israeliani, “accendere” la consapevolezza di una presenza. Che è quello che l’esercito israeliano fa da decenni nei Territori».
A incidere è stato il graduale spostamento a destra post-Oslo, la scomparsa di un’alternativa di sinistra che ha investito l’intera regione e il mondo. Qui lo dice la militarizzazione della società, difficile camminare per strada senza incontrare passanti con la pistola alla cintura. «Si tenta di coprire il vuoto di sicurezza con le armi, anche creando milizie civili armate come propone il ministro Ben Gvir e come è stato fatto ufficiosamente dopo gli scontri del maggio 2021. L’agenda dei coloni è entrata dentro il territorio israeliano, ha portato la logica della frontiera dentro i quartieri delle città».
«La guerra ci ha unito di nuovo – dice Yossi – Dopo la guerra ci divideremo ancora. Siamo fatti così». Pezzi di società che si affastellano e che – è il timore dei pochi che in questi giorni tentano di urlare il bisogno di pace – ne usciranno ancora più distanti. «È difficile pensare oggi al lungo periodo, immaginarlo, o desiderarlo perfino».
Rebecca lavora per una ong israeliana per i diritti umani, chiede di non indicare quale: «Qui si vive sul breve periodo, sulla realtà presente. Ed è una realtà di brutalizzazione. Per chi pensa, come me, che vivere insieme sia possibile è un momento doloroso. Non abbiamo mai convissuto davvero».
«Non ne siamo capaci perché, semplicemente, abbiamo negato l’esistenza dell’altro, fatto finta che non ci fosse, che non ci riguardasse – conclude Rebecca – E l’altro sono tante persone, sono anche il sud del paese che oggi diciamo di voler difendere. Laggiù ci vivono i più poveri, gli ebrei arabi, i lavoratori migranti, le classi basse. La borghesia di Tel Aviv ha tagliato fuori anche loro».
CHIARA CRUCIATI
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