La storia distorta che arriva dalle macerie di Gaza

Giorni fa, sfogliando un noto settimanale che si potrebbe definire “nazionalpopolare“, ancora a grande tiratura nonostante la crisi della carta stampata, mi è capitato di scorrere le righe di...

Giorni fa, sfogliando un noto settimanale che si potrebbe definire “nazionalpopolare“, ancora a grande tiratura nonostante la crisi della carta stampata, mi è capitato di scorrere le righe di una lettera di un’insegnante al direttore. Il contenuto riguardava il livello di pessimismo che già i bambini e i ragazzi sono indotti a conservare in loro stessi dalle scene orribili delle mille catastrofi che si avvicendano nel mondo.

Dalle tragedie belliche ai disastri ambientali, dalle migrazioni imponenti e incessanti da un continente all’altro al dramma delle donne uccise dagli uomini; dallo stillicidio nei luoghi di lavoro al diffusissimo disagio mentale tanto delle generazioni “boomer” quanto di quelle giovani e giovanissime. L’insegnante riportava sommariamente quello che un suo alunno aveva scritto in un tema: fatta salva la buona qualità dell’esposizione, per il resto se ne ricavava un quadro davvero desolante.

Ed a proposito di guerre, il bambino faceva notare come quella in Medio Oriente fosse chiara riguardo a chi rappresentasse il bene e chi il male. Il primo Israele e il secondo la Palestina. Nel semplificazionismo che gli è stato regalato dalle televisioni, e magari anche da giornali e soprattutto da Internet, il piccolo ha sintetizzato draconianamente che non c’è margine di errore o di tentennamentro: Israele è il bene, la Palestina il male.

Proprio così: non Hamas, ma la Palestina. Tutta quanta, nella sua interezza. E’ evidente che bisogna calibrabre il pensiero dell’alunno alla capacità di assimilare certe immagini e informazioni che vi accompagnano che ha un ragazzino, diciamo dell’età compresa tra i sei e i dieci, undici anni. Pur tuttavia, quello che colpisce è il messaggio che passa. Perché la riflessione nel tema scritto non si ferma lì. Se la Palestina è il male, come è possibile – si domanda il ragazzo – che molti italiani scendano in piazza per sostenerla?

Il costrutto di un sillogismo intrinsecamente intuitivo è bell’e pronto: se Israele è stato attaccato e ha reagito, ha ragione ed è dalla parte giusta. Se Hamas ha attaccato e ora i palestinesi stanno subendo i bombardamenti e l’assedio di Gaza, è perché hanno torto e sono, quindi, dalla parte sbagliata. I danni che può fare la comunicazione, così come i pregi che le sono propri, diventano quasi incommensurabili se si getta uno sguardo sul rapporto che intercorre tra la miriade di messaggi cui siamo ogni giorno sottoposti e l’impossibilità di dare a ciascuno il corretto valore.

Non si tratta qui di interpretare, ma di saper distinguere. Un’operazione che un bambino di sei, setto, otto anni non è oggettivamente in grado di fare così in profondità, disaminando e disarticolando problemi di geopolitica e di strategia militare che persino noi adulti, che magari ci occupiamo giornalmente di politica per passione, facciamo qualche fatica a capire in tutto e per tutto.

Dal canto suo, il direttore del giornale non obietta nulla in merito. Si complimenta col ragazzo che ha vergato quel tema così ben composto e non solleva nessuna benevolissima critica alla troppo grossolana antitesi tra buoni e cattivi, tra bene e male, tra giusto e ingiusto. Si fosse trattato di una rivista di attualità, di politica e magari di cultura, il biasimo avrebbe potuto essere più logico: per chi dirige un giornale di musica e spettacolo, è quasi naturale rispondere da un punto di vista generalmente condiviso.

Si direbbe oggi che siamo, in questo caso, nel “mainstream” più che logico e consuetudinario: i lettori che aprono una rivista per distrarsi e scorrere pagine di pettegolezzi, ma pure di buoni servizi che li riscattano in parte, non vogliono assistere alla contrapposizione dialettica di una ragione politica, sociale, economica, civile e culturale su cui si fondano tutti i conflitti e dentro alla quale si mescolano le contraddizioni sempre più evidenti.

A quel ragazzo, così sagace nel fare una piroetta su sé stesso cercando di osservare il mondo a trecentosessanta gradi, mi piacerebbe poter rispondere dicendogli anzitutto una ovvietà: quando sarà più grande, quando avrà studiato e ristudiato le stesse materie e avrà scoperto quale strada gli è più congeniale in questa vita, capirà che i distinguo sono parte integrante di un processo di costruzione e di distruzione dell’esistenza e che, nel loro assemblarsi e scomporsi, si gioca gran parte di quello che chiamiamo il nostro destino.

Non c’è un solo giorno passato su questa terra in cui, anche nelle lande più lontane da noi, non succeda qualcosa che – forse per l'”effetto farfalla“, chi lo sa… – influenzi la quotidianità di tutte e tutti noi. La globalizzazione ci ha uniti molto poco nella distribuzione delle ricchezze prodotte, ci ha paradossalmente fatto allontanare, separando sempre di più le zone benestanti da quelle povere del pianeta e, infine, ci ha legato inevitabilmente alle sorti dei popoli anche più remoti.

Gli effetti del clima avverso li subiamo, con le differenze da stagione a stagione, praticamente tutto l’anno: siccità, inondazioni, tsunami, piogge incessanti, grandinate che sembrano piccoli bombardamenti, allagamenti di interi paesi, frane, smottamenti, intere località isolate, intere regioni devastate.

Gli effetti delle guerre sono sotto gli occhi di tutti: migrazioni di milioni di disperati che, nonostante cerchino rifugio verso quella parte del mondo che è più ricca, trovano muri, respingimenti, razzismo, xenofobia e, da parte di capi di governo e ministri, parole come “invasione“, locuzioni come “sostituzione etnica“, veri e propri anatemi quand’anche pure le minacce propagandistiche, ma che ricalcano una avversità recondita e incancellabile della destra post-fascista, come il “blocco navale“.

A tutto questo si sommano più di un evidente tentativo di mistificare la realtà dei fatti e persino l’oggettività dei numeri.

Si inventano similitudini temporali tra passato e presente che non hanno nessun fondamento: come il richiamare semrpe quell’invenzione delle radici “giudaico-cristiane” di un’Europa che non è mai stata ispirata da una simbiosi tra cristianesimo e giudaismo, ma che è stata attraversata – se proprio vogliamo rifarci ad un po’ di Storia – anche da enormi influenze arabe in Spagna, in Sicilia e, successivamente, musulmane fino alle porte di Vienna e fino a pochi secoli fa.

Se i problemi del presente diventano il brodo di coltura di un revisionismo storico utile alla propaganda politica, ne risulta che l’attendibilità di quello che viene detto, figuriamoci di quello che poi viene fatto…, è pressoché collocabile sullo zero di un termometro che misura l’onestà intellettuale. Da queste similitudini, decisamente arbitrarie perché volte al mero semplificazionismo banalizzante, nascono tutte le storture delle cosiddette “tifoserie“.

Il tentativo di tagliare con l’accetta ciò che accade oggi, raffrontarlo a quanto avvenuto in precedenza creando solamente due campi netti e distinti, senza la possibilità che esistano terzietà o critiche che si possono distinguere dalle parti in lotta (non solo, quindi, quelle realmente militari, impegnate nella guerra), è esattamente la tattica tanto politica quanti anticulturale in cui nascono e si formano dicotomie incontrollabili su cui si inverano fantasie di complotto e “fake news“, nonché quei fuorvianti presupposti che traggono in inganno il giovanissimo studente nel tema sul suo rapporto con il mondo odierno.

In questo modo sono stati trattati i pacifisti almeno dalle guerre del Golfo in poi. Chi non faceva professione di fede americana, occidentale, nordatlantica, era automaticamente relagato nelle categorie del disfattismo, dell’amicizia con i tiranni mediorientali, addirittura dell’anti-italianità. Chi si permetteva di dire che i piloti abbattuti in Iraq erano vittime e non eroi, era, per l’appunto, sotto il gravame di questa accusa.

Oggi, chi sta dalla parte della pace, è considerato ugualmente una quinta colonna del putinismo da un lato, di Hamas dall’altro. Si tratta di un vero e proprio pauperismo concettuale, di un impoverimento cultural-sociale che si fa fatica a capire come, nella modernità di oggi, possa prendere il sopravvento e possa diventare quindi la traccia del buonsenso di una pubblica opinione che si nutre di pressapochismi, del sentito dire, di tante immagini slegate dai contesti, di poca Storia, di poco approfondimento.

E’ anche colpa della sinistra, del progressismo che si è deperito nel corso di tutti questi decenni nel riconrrere le teorie mercatiste, il liberismo sfrenato della logica privatistica e ha dimenticato l’orizzonte internazionale ed internazionalista di un tempo.

Di pari passo, il sostegno del centrosinistra ad una occidentalità tutta protesa verso Washington e verso il modello capitalistico che rappresenta, ha finito con l’essere la base fondante di un neoatlantismo obbligato, di un appoggio al nuclearismo, di una progressiva marginalizzazione della pace come espressione ideale e pragmatica al contempo di un disarmo che era, ed è, anche un punto essenziale nella riformulazione della produzione energetica, nell’impiego delle centrali esistenti, nell’acquisizione delle stesse materie prime, nei carburanti.

Non c’è nulla che possa essere separabile dal suo contesto: la guerra dall’economia, la politica dalla guerra, l’economia dalla politica, i bisogni umani (e animali) da tutte queste tragedie che interpretiamo mediante categorie alterate da una congiunzione di fattori che sono, alla fine, la narrazione dominante. E il pensiero dominante, ci insegna Marx, è sempre e soltanto quello della classe dominante.

La pace si inserisce in tutto questo come un pericolosissimo cuneo sovvertitore, una vera e propria agente della rivoluzione tanto delle idee quanto degli obetttivi da perseguire. E’ evidente che non la possono prendere in considerazione, almeno per il momento, le parti che si combattono. Ma sarebbe il primo dovere degli altri governi, che purtroppo obbediscono alle leggi del mercato, del capitale, della grande finanza, farsene portavoci andando ben al di là delle pur importanti – ma impotenti – risoluzioni delle Nazioni Unite.

Israele non è il male e Hamas non è il bene, semplicemente perché entrambi hanno torto e molta poca ragione. Col passare dei giorni, con l’aumentare del numero delle vittime da parte palestinese, con Gaza che sta diventando terra bruciata, tabula rasa, le ragioni dello Stato ebraico non esistono più, e i torti di Hamas finiscono per essere dimenticati sotto ai cumuli di cavaderi fatti dalle bombe e dai carri armati dell’IDF.

La guerra è una distrazione di massa. Impegna i popoli nel massacrarsi a vicenda e non ottiene altro se non morte, distruzione e grandi opportunità per gli affaristi del mercato delle armi oggi e per chi ricostruirà domani. Spiegare tutto questo a quel giovane che è stato indotto a pensare che la Palestina sia il problema e che chi manifesta con la bandiera dello Stato che non c’è sia un pazzo, non è facile. Non lo è oggi e non lo sarà nemmeno in futuro. Ma ci si può sempre provare.

MARCO SFERINI

3 novembre 2023

foto: screenshot ed elaborazione propria

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