Il buio calato su Gaza è l’ultimo cortocircuito della democrazia in Israele: i bombardamenti che hanno raso al suolo le città, i volti persi dei bambini coperti di polvere, un assedio disumano con la privazione di acqua, cibo, medicine e elettricità, l’invasione di terra in un silenzio che nega comunicazioni e informazioni e che non possiamo immaginare che spettrale e colmo di angoscia. Come accostare il termine democrazia a tutto questo?
Una democrazia non può praticare una punizione collettiva, una democrazia deve agire, anche di fronte a dei crimini come quelli compiuti il 7 ottobre contro i civili israeliani, con coerenza rispetto a se stessa: deve rispettare i diritti e i limiti che la distinguono da un mero assetto di dominio e sopraffazione. Come scrisse il Presidente della Corte Suprema israeliana, Aharon Barak, la democrazia deve «affrontare la lotta con una mano legata dietro la schiena».
Il genocidio di Gaza (come negare che si tratti di atti «commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso», come recita la Convenzione Onu per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948?) avvolge Israele in una spirale di violenza difficile da arrestare, anche se il pensiero ora non è alla qualità della democrazia israeliana dei prossimi anni ma alle vite negate e oppresse dei palestinesi.
Il primo cortocircuito della democrazia in Israele è nella tensione presente nella Dichiarazione di Indipendenza, laddove lo Stato è definito «ebraico e democratico»; un’affermazione affinata in senso identitario ed escludente con la legge fondamentale del 2018, Israele, lo Stato-nazione del popolo ebraico, che insiste sul rafforzamento dell’«insediamento ebraico» e afferma che «l’esercizio del diritto all’autodeterminazione nazionale dello Stato d’Israele appartiene solamente al popolo ebraico».
Una democrazia etnica e identitaria che si fonda sulla distinzione e l’espulsione dell’altro (il nemico) è una contraddizione in termini laddove la democrazia ha nei suoi geni l’uguaglianza e il pluralismo.
Il secondo cortocircuito è nella negazione dell’essenza della democrazia, l’uguaglianza. In Israele e nei territori occupati vigono regimi differenti, che concretizzano la definizione di apartheid come di colonialismo (da ultimo, cfr. Amnesty International, Israel’s Apartheid against Palestinians, 2022), sia in relazione alla legislazione e giurisdizione sia nelle discriminazioni in materia di diritti (dagli espropri ed assegnazioni delle terre alla libertà di circolazione al riconoscimento della cittadinanza all’allocazione delle risorse per servizi e diritti sociali alle privazioni arbitrarie della libertà personale).
E poi, come può definirsi democratico un sistema che esercita poteri di governo senza riconoscimento di diritto di voto ai governati (come è per i 5.5 milioni di persone, su 14.5 milioni, che risiedono nei territori occupati)?
Il terzo cortocircuito è reso dall’assenza del concetto di limite. Non vengono riconosciuti limiti per quanto riguarda il territorio (occupazioni, insediamenti, frammentazione delle terre palestinesi, il muro in Cisgiordania dichiarato illecito dalla Corte Internazionale di Giustizia); non è rispettato il limite del diritto internazionale (come con chiarezza argomentato da Latino e Baccelli su queste pagine); debole è il limite al potere della maggioranza (un contesto nel quale il potere giudiziario è un rilevante contrappeso, non a caso difeso da partecipate mobilitazioni contro la volontà riformatrice e accentratrice di Netanyahu); la logica dell’emergenza è utilizzata senza soluzione di continuità per legittimare la violazione dei limiti di uno stato democratico. Sono elementi che convergono emblematicamente nell’assenza di una costituzione (la cui ragione è la limitazione del potere): Israele non ha una costituzione ma solo alcune Leggi fondamentali (Basic Laws).
Infine, il quarto cortocircuito, la guerra. La guerra è violenza, distruzione e sopraffazione, sempre; la guerra condotta contro Gaza (quanto sta accadendo è una guerra contro gli abitanti di Gaza non solo contro Hamas) è una violenza cieca ad ogni rispetto dell’umano.
La violenza bellica, la sua disumanizzazione, l’arruolamento e la repressione di ogni dissidenza, si riverberano, offuscandole anche sulle democrazie più solide: laddove la democrazia sia già minata, o, più correttamente, negata, da ossimori come democrazia identitaria, etnica, coloniale, resta il buio, il buio che avvolge Gaza. La speranza è che, come tante voci si sono levate in Israele a difendere la democrazia contro la riforma giudiziaria, così si levino a chiedere un immediato cessate il fuoco e la fine di violente politiche coloniali.
ALESSANDRA ALGOSTINO
foto: screenshot web