Donnafugata è il piccolo mondo antico del Sud, di una Sicilia che è già la dimenticata parte di un regno che non c’è più, inglobato dentro un più grande Stato, appena nato, privo di qualunque fisionomia nazionale se non per osmosi e sul richiamo dell’eco che viene dalla straordinaria storia d’Italia.
Donnafugata è la quintessenza di una terra che assiste laconicamente ad uno spezzettamento della sua identità, ad un frazionamento della sua società, ma non ad un capovolgimento di ciò che c’era in funzione di ciò che sta per esservi.
La famosa frase per cui si ricorda, con grande semplicismo un po’ banalizzante, “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Feltrinelli, prima edizione 1958), «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» e che spesso viene storpiata e vilipesa, rende, nonostante l’inflazione cui è sottoposta, un emblema sintetico della vicenda.
E, soprattutto, della meticolosa realizzazione di un dipinto minuziosamente dato al pubblico di un mondo che – diremmo oggi – è altamente resiliente nel capacitarsi di quello che avviene in particolare nelle alte gerarchie sociali, aristocratiche; e vi si adegua tutt’altro che sommariamente.
Il principe Fabrizio Salina sarà anche un sornione, un uomo dai tratti borbonici, ultimo lascito di quella che lui stesso definisce “una colonizzazione” lunga venticinque secoli, ma alla bisogna, per traghettarsi nel nuovo corso, nella nuova Italia che nasce sotto lo scudo di Savoia, dopo l’epopea delle guerre d’indipendenza e la Spedizione dei Mille, è capace di mediare tra la necessità della forma data dalle tradizioni secolari e religiose e l’opportunità della sostanza che si fa concretezza e pragmaticamente avvolge ogni piccola parte del paesaggio siciliano.
Il sogno romantico della rivoluzione italiana tramonta, del resto, nell’impossibilità di marciare su Roma, di detronizzare il papa Pio IX e di gareggiare nella formazione dell’Unità nazionale con il regno centrosettentrionale dei Savoia. E’ un piano che, probabilmente, serpeggia nella mente di Mazzini. Forse anche di Garibaldi. Ma le difficoltà sono lì davanti a tutti: stanno sul Garigliano e nelle fortezze che ancora resistono e tengono alta la bandiera di Franceschiello.
L’aristocrazia siciliana per qualche breve lasso di tempo si ferma a guardare, spettralmente immobile, rinchiusa nelle sue grandi ville dai voluttuosi scaloni, circondate da una vegetazione arabeggiante che impedisce l’oblio della storia millenaria dell’isola; poi, confusamente, si sparpaglia, chi attende il corso degli eventi, chi sceglie di combattere con i Mille e chi contro. Fedeltà e onore alla causa legittimista, fedeltà e onore alla causa dell’opportunismo del tutto personale, per la preservazione del proprio status quo.
In fondo, non si distinguono particolarmente come opposti della Storia che diviene, che procede, che si fa futuro nell’essere presente. Non c’è un vuoto di valori, non si avverte una scissione tra l’ieri e l’oggi: ma non si può nemmeno affermare che, in questa mancanza di intercapedine nelle vicende che si susseguono vorticosamente, sia leggibile una continuità lineare. E’ ovvio che Garibaldi rappresenta il diavolo rosso, il socialista repubblicano, che pure giura fedeltà a Vittorio Emanuele II.
Ma, proprio per questo, la preservazione diventa l’unico scopo di quel carattere dei siciliani che don Fabrizio individua precipuamente nell’inamovibilità, nel “non fare“, nel non dibattersi troppo per respingere o anche solo accogliere i turbinii dell’evoluzione storica, sociale, civile e morale del proprio paese: tanto del regno che muore quanto di quello che sta per nascere.
Chevalley entra nello studio del principe per proporgli la candidatura alla nomina a senatore del nuovo Stato italiano e si trova davanti ad interrogativi ed obiezioni che si rifanno intrinsecamente alla tradizione politica del Regno di Napoli di un tempo, di quello delle Due Sicilie più attuale.
Ma pure ad aspetti prettamente antropologici, a legami atavici di una apatia plurisecolare che descrive fisiognomicamente il volto di una Trinacria abituata a trascorrere le centinaia di anni nel passare da una dominazione all’altra senza colpo ferire. Il principe di Salina si domanda che diamine sia mai questo Senato. Gli vengono alla mente quello romano, dove persino i cavalli come Incitatus ricoprivano l’alta carica dei Padri coscritti. Oppure quello imperiale della Francia di Napoleone III.
Ma il paragone che per primo gli si presenta innanzi è quello col vecchio regno borbonico tramontato sotto il peso della mediocrità della sua classe dirigente, della sua corona e di una arretratezza che, nonostante le eccellenze che poteva vantare dalla Puglia alla Campania, era ben visibile e tangibile. Chevalley lo rassicura. Far parte del Senato italiano vuol dire essere un grande dignitario nazionale.
Ma Salina si contenta di una sopravvivenza aristocratica che langue nella disillusione rispetto ai mutamenti della Storia. La circospezione non è soltanto una prudenza reverenziale nei confronti dei nuovi colonizzatori piemontesi, del nuovo regime sabaudo, dell’Italia impossibile che si sta per provare a costruire.
E’ qualcosa di ancora differente: l’essere cautamente sospettosi, guardinghi al punto giusto nel porsi in una via di mezzo tra l’accettazione passiva e il rifiuto aprioristico.
Fabrizio Salina è questa mediazione con la Storia, con la sua storia di nobile che non può fermare il corso degli eventi e che, quindi, vi si affida come fanno i siciliani da millanta anni. Mentre osserva dal balconcino dello spogliatoio, dalla sua stanza, il giardino ancora lussureggiante, si perde nelle stelle, considera gli avvenimenti del suo casato e pensa al futuro del nipote Tancredi. I nuovi vespri siciliani sono stati normalizzati, fatti rientrare nelle compatibilità dell’epoca.
Un’epoca che, piano piano, diviene l’era degli Stati nazionali. Non c’è più posto per i regnucoli, i ducati, i granducati, le contee, i principati e i patrimoni petrini. La modernità del capitalismo incalza anche in Italia: una nuova borghesia è all’orizzonte e, per convivere con essa, l’aristocrazia delle vecchie Due Sicilie deve entrare tutta quanta nella classe dirigente del Regno d’Italia.
Ma anche un principe resiliente come don Fabrizio strabuzza gli occhi quando vede il nipote e i suoi commilitoni garibaldini senza le camicie rosse. La risposta di Tancredi è il liquidazionismo della secolarizzazione dell’identità che non si ferma più alle simbologie ma segue il fiume impetuoso delle circostanze: «Ma che garibaldini e garibaldini, zione! Lo siamo stati, ora basta. Cavriaghi e io siamo ufficiali dell’esercito regolare di Sua Maestà il Re di Sardegna per qualche mese ancora, d’Italia fra poco».
Le travagliate vicissitudini che precedettero la pubblicazione dell’edizione del 1957 dell’opera di Tomasi di Lampedusa, impedirono all’autore di potrerne conoscere la fama che acquistò presso altri scrittori e presso le case editrici (prima fra tutte Feltrinelli). La ricomposizione curata da Giorgio Bassani, che intuì, a differenza di Elio Vittorini, il potenziale letterario del libro, rese giustizia a quello che è universalmente considerato uno dei capolavori della nostra cultura narrativa e romanzesca.
Tomasi non fece in tempo ad assaporare questa gloria: morì l’anno prima. Nemmeno dodici mesi dopo già 250.000 lettrici e lettori avevano potuto conoscere le sorti della famiglia Salina che aveva ereditato dal suo creatore lo stemma di famiglia che raffigurava un “felis leptailurus serval“: in pratica un felino dell’Africa settentrionale, di quelle coste prospicienti proprio la piccola Lampedusa.
La grandezza aristocratica e principesca di Salina è emblematicamente descritta così, con tronfio anfitrionico orgoglio: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra».
L’amarezza del passato che termina e che si scinde dal futuro, pur legandosi ad esso nella mefitica metamorfosi istituzionale descritta dalla propaganda come la “liberazione del Sud” (a cui nemmeno Garibaldi crederà in seguito, dopo essere stato posto “alla riserva” dal nuovo Re d’Italia che non gli concederà l’onore dello scontro sul Garigliano), è resa magnificamente in questo rimpianto.
Non ci sono lacrime manifeste, esibite come figlie di un nostalgismo a cui aggrapparsi disperatamente. C’è la solennità del casato che continua, senza mentire le spoglie, nel nuovo regime monarchico, avendo riguardo per la propria storia ed evitando, al contempo, di rinchiudersi e trincerarsi in un rifiuto pregiudizievole del rivolgimento, del mutamento, della trasformazione che incalza e che travolgerebbe davvero tutta la famiglia se fosse presa di petto e non schivata di lato.
Sul finire delle pagine, don Fabrizio si riconosce a malapena. Si specchia e a mala pena vede sé stesso. Distingue il suo abito prima delle sembianze che gli paiono non sagomare le fattezze del vero principe, dell’uomo di cui si ricordava.
La riflessione inevitabile è sulla morte, a cui si arriva come avendo una maschera funeraria sul volto, pari a quella che i romani mettevano a copertura del viso del trapassato e che, con una smorfia degna del migliore teatrante e commediografo, nascondeva il contorcesi delle gote, lo spasmo muscolare che altera i contorni dell’essere che inizia a non essere.
Più che in altri, che aveva visto morire, principalmente giovani, «il fragore della vita in fuga era tanto potente» quasi a pareggiare la magnificenza della nobiltà con un tragico finale, una sardonica nemesi. La fedeltà alla propria storia è l’obolo di passaggio su un Acheronte dove l’oblio concede una tregua, mentre le acque meno agitate del trapasso mettono un po’ d’ordine nei tumulti sentimentali di don Fabrizio e di quello che rimane dei Gattopardi di Salina.
Lui è l’ultimo legato ad una decenza che preserva al pari del suo nome, della sua identità vincolata ad un mondo ormai invisibile. Le sue figlie vivono in una società “nota ma estranea” al tempo stesso. I pochi centimetri di tela in cui è racchiuso il ritratto di don Fabrizio sono il perimetro minuscolo di una reminiscenza parentale che è, prima di ogni altra cosa, un ricordo del mondo che fu.
I gattopardi che si credono anche oggi padroni dello spazio, del tempo e di chissà quali altre dimensioni, vengono consunti dal trascorrere irriverente di molti sberleffi, di sagaci percussioni di una ironia dell’esistenza che non trascura niente e nessuno.
La perturbabilità della sensazione di eterno che, umanamente, è sogno, aspirazione, vittoria sulla naturalità della morte, alla fine è l’unica certezza che possiamo avere. Tutto passa, tutto si trasforma e molto si distrugge anche.
IL GATTOPARDO
GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA
FELTRINELLI
€ 13,00
MARCO SFERINI
1° novembre 2023
foto: particolare della copertina del libro
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