Sollievo. È stata l’espressione più usata nelle ultime ore in Argentina, all’indomani del risultato alle presidenziali che hanno fermato, almeno temporaneamente, l’ascesa dell’estrema destra di Javier Milei. A quarant’anni esatti dalla fine della dittatura dei generali, in molti temevano la vittoria al primo turno di una forza che annovera tra le sue fila nostalgici e apologeti delle juntas dei militari, e che difende un progetto ancor più neoliberista di quello imposto a sangue e fuoco dopo il golpe del 1976.

Tuttavia, la partita è ancora aperta. Contro tutti i pronostici, il ministro dell’Economia e candidato del governo centrosinistra, Sergio Massa, ha vinto le elezioni di domenica con il 36,7% dei voti, ma dovrà affrontare un ballottaggio il 19 novembre contro il partito di Milei, La Libertad Avanza, che ha ottenuto il 30%.

Questa situazione rappresenta una sfida significativa per la coalizione governante, Unión por la Patria. Il governo argentino e il suo candidato infatti hanno un’immagine negativa altissima. Plausibile dunque che il secondo turno si definirà in base al rifiuto che muove nell’elettorato ogni candidato, più che sull’adesione alle sue proposte.

I risultati che può vantare l’attuale ministro dell’Economia sono davvero scarsi: l’inflazione su base annua è vicina ormai al 140%, la povertà supera il 40% e il lavoro nero occupa il 44,6% degli argentini. Nel periodo tra gennaio e ottobre, il tasso di cambio tra il dollaro – valuta di riferimento per i prezzi di beni durevoli – e il peso argentino è aumentato del 160%, erodendo il potere d’acquisto dei cittadini e rendendo costose le importazioni per le industrie.

Di fronte a un panorama simile, in pochi credevano che Massa sarebbe riuscito a rimontare i risultati di agosto. La partecipazione elettorale in aumento è stata fondamentale: 2,8 milioni di elettori che avevano scelto l’astensione alle primarie obbligatorie si sono recati a votare, coincidendo con l’incremento dei voti a favore di Massa.

Alla cui vittoria ha contribuito ulteriormente la paura nei confronti delle proposte di Milei. L’autoproclamato «anarco-capitalista» propone di abolire il welfare, adottare il dollaro come moneta nazionale, «incendiare» la Banca Centrale ed eliminare i diritti conquistati dalle donne e dalle minoranze negli ultimi anni, considerandoli «privilegi».

In vista del ballottaggio di novembre saranno cruciali i voti ottenuti da Juntos por el Cambio, la coalizione di centrodestra che ha governato l’Argentina tra il 2015 e il 2019 e che si è fermata a un deludente 23,8% La candidata della destra tradizionale, Patricia Bullrich, sembra orientata a sostenere Milei, ma questa scelta è oggetto di controversie all’interno della coalizione.

I settori liberal-democratici che ne fanno parte, che hanno combattuto contro la dittatura militare negli anni ’70 e difendono i diritti sociali acquisiti da allora, si rifiutano di appoggiare la destra estrema. Questa tensione mette in pericolo addirittura la coesione della principale coalizione di opposizione, storicamente legata agli interessi dell’agrobusiness e delle classi medie urbane.

Ciò che accomuna la maggior parte dei partiti liberal-conservatori, e che gioca a favore di Milei, resta comunque il rifiuto nei confronti del populismo progressista, incarnato dalla ex presidente e attuale vicepresidente Cristina Kirchner. Il messaggio di Milei domenica sera è stato ben chiaro: «Libertà o Kirchnerismo», ed è proprio questa dicotomia quella che potrebbe aprirgli le porte della Casa Rosada.

Sorto politicamente nelle fila dell’UCeDé, il partito di destra che negli anni ’80 difendeva un programma molto simile a quello di Milei, il ministro Sergio Massa ha invece lanciato un appello alla formazione di un governo di unità nazionale. Sebbene cosciente delle colpe che pesano sul suo spazio politico, fra crisi economica, corruzione e scandali vari, sa di essere l’unico dirigente del peronismo in grado di agglutinare il voto antifascista della sinistra e quello liberale. Oltre ad avere il chiaro consenso del Fondo monetario internazionale e della Casa bianca.

Si apre dunque un’intensa campagna elettorale in un paese dove ogni votazione aggrava la situazione economica. Subito dopo le primarie di agosto lo stesso ministro Massa ha annunciato una svalutazione del Peso del 22%, a cui si è aggiunta un’impennata dell’inflazione del 12% a settembre.

Nei giorni precedenti alle elezioni di domenica, in molti si sono precipitati a fare scorte di beni di prima necessità, e chi ha potuto ha cambiato frigo e lavatrice in vista di un nuovo aumento dei prezzi post-elettorale. I supermercati hanno registrato a settembre il più alto livello di vendite degli ultimi vent’anni. Anche i fornitori hanno sospeso le consegne in attesa del risultato di domenica per poter confezionare i nuovi listini.

Per ora però i risultati sorridono al governo, e il salasso previsto dalla possibile valanga di voti a favore di Milei sembrerebbe rimandato. Almeno fino a novembre.

FEDERICO LARSEN

da il manifesto.it

foto: screenshot tv