Centinaia di pazienti, sfollati dal nord di Gaza, infermieri, medici, autisti di ambulanze, parenti di ammalati e passanti sono stati uccisi. 500 esseri umani uccisi in un attimo, secondo una prima stima fatta dal ministero della salute, poi il numero è stato portato da fonti ufficiose a 800 e quindi a mille.

La notizia del massacro ha scatenato forti reazioni in tutte le città della Cisgiordania: decine di migliaia di palestinesi, oltre a protestare contro Israele, hanno provato a raggiungere la Muqata, il quartier generale a Ramallah di Abu Mazen – che si trovava in Giordania – scandendo «Il popolo vuole la caduta del regime».

La polizia ha sparato prima lacrimogeni e poi proiettili veri a raffica per allontanare la folla. Spari sarebbero partiti anche dai manifestanti contro gli edifici dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Testimoni parlavano di scontri di inaudita violenza, di una «rivolta contro la Sulta (Autorità)» a tutti gli effetti. Deve averlo pensato anche Abu Mazen che ha annullato la sua partecipazione al vertice con Joe Biden previsto oggi ad Amman. Nella capitale giordana, centinaia di persone hanno tentato di assaltare l’ambasciata israeliana.

[Aggiornamento delle 0.05 del 18 ottobre: il regno di Giordania ha annullato il quadrangolare di Biden con Abu Mazen, Al Sisi e re Abdullah, dichiarando 3 giorni di lutto nazionale per le vittime di Gaza]

Le immagini giunte ieri da Gaza mostravano l’interno complesso ospedaliero, noto anche come il Baptist Hospital, avvolto e divorato dalle fiamme. Intorno i corpi all’ospedale di decine di persone uccise sul colpo dall’esplosione. E sangue e resti umani ovunque. Scene terrificanti.

Se confermata la responsabilità di Israele – che ieri sera non confermava il suo coinvolgimento e accusava Hamas – sarebbe il bombardamento più sanguinoso da quando Israele ha lanciato la campagna di raid aerei contro Gaza.

«Ci sono decine di corpi smembrati e schiacciati, è un bagno di sangue», ha detto un testimone, Raed Abu Radwan. Un altro testimone che non ha dato il suo nome ai giornalisti, racconta: «Stavamo visitando mio zio. All’improvviso c’è stata una grande esplosione nel centro dell’ospedale. C’erano migliaia di persone sul posto. Molti sono morti o feriti».

Un video di cui non è possibile accertare l’autenticità mostra il momento in cui sarebbe avvenuto l’attacco con un missile forse sganciato dall’alto. Il portavoce delle forze armate israeliane ha espresso forti dubbi sulla responsabilità dell’aviazione e ha puntato il dito contro il Jihad Islamico che avrebbe lanciato un razzo poi caduto sull’ospedale. Ma sempre ieri un altro bombardamento aereo israeliano ha ucciso sei persone che si erano rifugiate in una scuola dell’Unrwa (Onu).

Gli altri ospedali di Gaza intanto sono al collasso. Chiudono reparti, provano a risparmiare l’energia prodotta dai generatori autonomi ma il gasolio sta per finire. È stato lanciato un appello a tutti i cittadini a consegnare il carburante che hanno agli ospedali per tenere accese incubatrici e macchinari nei reparti di terapia intensiva. E nessuno sa come potranno essere assistite le 5.500 donne che devono partorire questo mese. Inutili gli avvertimenti sulla gravità della condizioni di Gaza lanciati dalle agenzie dell’Onu che chiedono l’invio immediato di aiuti.

Ma a Gaza anche ieri non sono entrati generi di prima necessità: acqua, medicine e materiali di pronto intervento per gli ospedali. Eppure gli aiuti sono lì dietro l’angolo, sul versante egiziano del valico di Rafah. 106 camion in attesa di entrare. Il convoglio comprende mille tonnellate di cibo, 40mila coperte, oltre a più di 50mila capi di abbigliamento e più di 300mila scatole di medicinali. Resta in alto mare la questione della tendopoli che, su insistenza americana, gli egiziani dovrebbero allestire nel Sinai per accogliere decine se non centinaia di migliaia di sfollati palestinesi.

L’egiziano Abdel Fattah al-Sisi resta contrario, teme che poi gli israeliani non facciano rientrare i palestinesi a Gaza lasciandoli nel suo paese ripetendo quanto è accaduto nella Nakba nel 1948. Settantacinque anni fa ai profughi palestinesi fuggiti o cacciati via verso Libano, Giordania e Siria, il neonato Stato di Israele non permise il ritorno nella loro terra e ancora oggi si oppone a questo diritto sancito dalla risoluzione 194 dell’Onu.

Mette le mani avanti anche il re di Giordania Abdallah che oggi ospiterà ad Amman il summit con Joe Biden (atteso anche in Israele) e al- Sisi. Il sovrano hashemita sa che centinaia di migliaia di palestinesi potrebbero riversarsi in Giordania sotto la pressione militare israeliana se la guerra dovesse allargarsi anche alla Cisgiordania. È già accaduto nel 1967 e la Giordania non vuole diventare di fatto lo Stato di Palestina che Israele non ha mai voluto accettare nei Territori palestinesi occupati.

Abdallah ha messo in guardia dal tentativo di spingere i rifugiati palestinesi in Egitto o Giordania, aggiungendo che la situazione umanitaria deve essere affrontata a Gaza e in Cisgiordania.

Tra i palestinesi, intanto, si diffonde il desiderio di tornare alla propria abitazione nel nord di Gaza che avevano lasciato su intimazione dell’esercito israeliano, in preparazione dell’offensiva di terra. Diverse famiglie stanno facendo all’inverso il percorso sulla Salah Edin Road che avevano fatto alla fine della scorsa settimana nonostante i raid aerei che non si sono fermati neanche per un attimo.

Gli Abu Marasa ad esempio dopo aver trascorso varie notti in auto nei pressi di Khan Yunis, ieri assieme ad alcuni giornalisti palestinesi hanno deciso di tornare a casa. Hanno messo in moto l’auto e sono partiti. «Tanto nessun posto è sicuro a Gaza, si rischia di morire a sud come a nord, è se dobbiamo morire preferiamo farlo a casa nostra», ha spiegato Salim Abu Marasa.

Ccome loro tanti altri. «Coloro che hanno rispettato l’ordine di evacuazione sono ora intrappolati nel sud di Gaza, con scarsi ripari, scorte alimentari in esaurimento, accesso scarso o nullo all’acqua pulita, ai servizi igienico-sanitari, alle medicine e ad altri beni di prima necessità», ha spiegato Ravina Shamdasani, una portavoce dell’Onu.

MICHELE GIORGIO

da il manifesto.it

foto: screenshot tv