Un po’ di compassione

Da migliaia di anni trasformiamo tutto quello che ci capita a tiro per antropocentrizzarlo, per rendere ogni cosa “a misura d’uomo” (o, se vogliamo, rimanere nella neutralità del linguaggio,...

Da migliaia di anni trasformiamo tutto quello che ci capita a tiro per antropocentrizzarlo, per rendere ogni cosa “a misura d’uomo” (o, se vogliamo, rimanere nella neutralità del linguaggio, “a misura di essere umano“).

Della nostra capacità di sentire, percepire e, anche in questo frangente, trasformare le nostre sensazioni e percezioni in concetti, idee, pensieri e, quindi, atti pratici, abbiamo fatto un mantra, un moloch, un grande sacerdote delle nostre esistenze che ci suggerisce, giorno dopo giorno, la condotta che dobbiamo tenere per preservare la specie, per rimanere a galla nel turbinio vorticoso del mondo.

Un mondo che è diventato la “casa dell’umanità” e che viene, pertanto, nel nome dell’antropocentrismo, antropizzato e reso ostile per tutti gli altri esseri viventi che si imbattono in noi sapiens.

Quella che Kafka chiama l'”angoscia della posizione eretta” è proprio il carico da undici che ci piega le spalle su cui grava già tutta la tormenta della storia disumana, dell’assoggettamento di noi stessi ad un modello che abbiamo imposto ad una interezza che non ci appartiene.

Stare sdraiati, invece, all’altezza dell’animalità che ci è decisamente più congeniale della nostra presunzione umana, distintiva e distinguibile altezza nella scala specista in cui siamo posti al vertice e alla base al tempo stesso, imprigionando nel mezzo ogni altro essere vivente e senziente, ecco, capovolgerci dal verticale all’orizzontale ci serve per capire da che punto di vista fino ad oggi abbiamo guardato tutto il mondo.

Per primi noi stessi. A pari merito gli altri animali come noi e, ultimi ma non ultimi, tutti gli altri aspetti della natura di cui siamo ingloriosamente parte.

Noi sapiens abbiamo scordato, o forse non l’abbiamo mai veramente voluto sapere, imparare ed acquisire come dato scientifico reale e concreto, vero e inattaccabile e, pertanto, come elemento costitutivo di una nuova stagione morale della nostra devastante esperienza di esistenza su questo pianeta, che la distinzione che operiamo tra “umanità” e “animalità” non si basa su altro se non sulla straordinaria capacità autocritica che possediamo e, dunque, sulla coscienza con cui cerchiamo di interpretare ogni cosa: dal mistero dell’universo alle tante inconoscibilità che avvolgono l’insopportabilità della vita.

Ci siamo dati dei diritti rendendoli, ben presto, dei privilegi e abbiamo fatto della nostra maggiore intelligenza un elementi di separazione dal resto delle individualità presenti intorno a noi, trattando gli animali non umani come degli oggetti, delle cose, delle presenze vive al nostro esclusivo servizio.

Abbiamo preso i cavalli e li abbiamo, per l’appunto, “domati“, perché nella natura dell’equino non vi è la predestinazione celeste o meno ad essere montato dal sapiens, oppure a tirare carrozze, cavalli, carri…

Abbiamo fatto fare agli animali quello che non  riuscivamo a fare noi e abbiamo raggiunto questo gradi di “civiltà“, per cui io in questo momento posso usare un computer e scrivere questo articolo, al prezzo di un vero e proprio schiavismo eterno degli altri rispetto a noi e di veri e proprio olocausti totali quanto si parla di macellazione, di trasformazione dell’animale in cibo.

Mentre rivendicavamo la nostra “umanità” come un concetto valoriale positivo e ammirevole, ovviamente soltanto dalla specie umana, mentre ci incensavamo così tanto nobilmente da considerare benevolo verso gli altri esseri viventi chi si mostrava empatico verso le sofferenze che provocavamo scientemente, proseguivamo in un tradizionalismo quasi ancestrale che, effettivamente, affonda nel primitivismo ma niente di più.

Non esiste una forma empatica che ne sovrasta un’altra. Esiste una costruzione continua di un’etica che poggia su di un costrutto mentale che potremmo definire un “comodo punto di vista“.

Comodo perché letteralmente opportunistico, dettato dalla voglia di alleviare le nostre fatiche, soddisfare dei gusti del palato che ci sono stati tramandati come qualcosa di assolutamente naturale e normale e, quindi, alla fine della fiera sostanziare il nostro antropocentrismo su un’acriticità pressoché endemica.

Rosa Luxemburg, nel gelido febbraio breslavo del 1917, tra le mura del carcere femminile in cui è rinchiusa con l’accusa di sovversivismo e di incitamento alla diserzione per le truppe della Germania guglielmina, scrive a Sonja Liebknecht, moglie di Karl, compagno di lotte e dirigente come lei nella “Spartakusbund” (la “Lega di Spartaco“, praticamente il nome assunto allora dal “Kommunistische Partei Deutschlands”, ergo il Partito Comunista di Germania).

La lettera del dicembre di quell’anno, di una guerra mondiale che sta per volgere al suo ultimo periodo di rovinoso bilancio per tutti i popoli d’Europa, e che Karl Kraus ha contribuito a far conoscere mediante la sua rivista “Fackel“, è un gioello preziosissimo di quel naturalismo libertario, forse inconsciamente antispecista, che ha ispirato tante lotte per i diritti di tutti gli esseri viventi soggiogati dall’umanità ma che, a ben vedere, fa ancora oggi fatica ad entrare nel novero delle lotte di liberazione delle comuniste e dei comunisti.

Per un po’ di compassione” (pubblicato da Adelphi nel 2007, con l’inserimento di utilissimo corredo di testi dello stesso Kraus, di una ignota lettrice del suo giornale – definita più che giustamente una “megera” -, di Franz Kafka, Elias Canetti e Joseph Roth), è un compendio minuscolo dalla grande potenza persuasiva. Si potrebbe persino definire ciò che nelle intenzioni della Luxemburg non era certamente: un appello alla considerazione degli animali non umani come nostri pari in diritti e noi, animali umani, certamente in debito di doveri nei loro confronti.

Rosa racconta delle sue notti lunghe, chiusa nella cella dove il materasso è durissimo, dove tiene alcuni libri con sé, dove intravede al calare del sole la luce della lanterna che ciondola fuori, sulle spesse mura della prigione. Ascolta i passi della sentinella che incedono nella neve, i colpi di tosse dell’uomo che si accomoda una gola che soffre il freddo.

Siccome le tocca andare a letto prima di quando le sarebbe congeniale, intorno alle dieci di sera, racconta all’amica come passa le ore prima che Morfeo la prenda in un sereno abbraccio.

Sono i ricordi e l’immaginazione a permetterle di avere una serenità di cui lei stessa si sorprende. Sono tre anni che è rinchiusa dall’Impero tedesco che ne teme voce, pensiero e azione. Ma, nonostante ciò, continua a sorprendersi per le bellezze di cui è fatta l’esistenza, di cui la vita si circonda e che, spesso, tiene alla larga…

Alla serenità d’animo, interiore, vissuta come un rifugio sicuro in cui calarsi a dispetto del mondo enormemente grande e terribile, si accompagna la piena consapevolezza di quanto avviene nell’Europa delle guerre e delle rivoluzioni: ieri come oggi, pur con accenti, tempi e modi differenti, i mezzi di informazione mentono sulle reali condizioni degli sfruttati, di un proletariato che prende le redini del potere e che si fa Stato.

Rosa Luxemburg è, senza dubbio, una delle più sincere e altrettanto dure critiche del partito leninista, del metodo leninista, persino dell’interpretazione sociale che Lenin dà della condizione complessiva tanto della Russia zarista quanto del movimento operaio e rivoluzionario mondiale. La questione dello sviluppo imperialistico avvicina e separa al tempo stesso molto nettamente le traduzioni analitiche (e pratiche) del marxismo nel Novecento che si è appena dispiegato sopra i destini dei più deboli.

Ma, se Lenin è il rivoluzionario completamente immerso nella strutturazione del nuovo Stato dei lavoratori, Rosa può permettersi di sbagliare, di fallire, perché, nonostante tutto – come avrà a dire di lei proprio Vladimir Il’ič Ul’janov – “rimane un’aquila” che ha saputo volare alto senza separarsi mai dalla percezione attiva delle sofferenze del mondo proletario, della grande sofferenza di milioni e milioni di indigenti.

Nello scrivere a Sonja, il tono si trasforma nelle poche righe che compongono la missiva: dalla rassicurazione sulle sue condizioni psicofisiche al prendersi praticamente pena e cura dell’amica, inquieta per quello che accade e continua ad accadere a lei, al marito, nel mondo che la circonda con colpi di cannone, notizie incandescenti, turbamenti salienti.

E’ quasi Natale, e il contrasto tra la bellezza della festa, della natura, dell’esistenza, della vita e il nichilismo spietato della guerra della borghesia e del capitale in cui i popoli vanno al massacro sembrerebbe insopportabile.

Invece Rosa trova sempre un motivo per superare la rassegnazione, per leggere tra le righe delle sofferenze tutti i diritti che sono nascosti, tutte le emozioni che vi si ritrovano e che lei vorrebbe poter far venire alla luce del sole perché chiunque li potesse vedere, scorgere anche per un attimo e, così, cambiare il “comodo punto di vista“.

Un giorno, mentre si trova nel cortile, tra le alte mura, con le sentinelle intorno, fanno il loro ingresso dei grossi carri trainati da bufali che provengono dalla Romania. Non è una novità che ne passino così tanti: trasportano le giubbe e le divise da rimettere a nuovo. Molte – nota Rosa – sono macchiate di sangue. Ciò che la sorprende quella volta è che, al posto dei cavalli, vi siano dei bufali.

Sono anche loro un trofeo, un bottino della guerra. Rapiti dalle pianure del paese balcanico e portati in quello che oggi è il sud della Polonia. Messi a trainare pesantissimi carichi di merci, di materiali destinati al fronte.

Uno di questi grandi animali dalla pelle durissima, coriacea, all’apparenza impenetrabile dal gelo, penetra lo sguardo della rivoluzionaria che lo guarda. Sta piangendo. Gli occhi lacrimano. Il soldato che lo sta spronando, lo percuote ferocemente con un bastone per farlo muovere. L’animale un po’ sopporta, poi il suo sguardo cambia.

La mansuetudine che Rosa intravede, come espressione concretamente reale dell’animo di quell’essere vivente, viene spezzata dalla brutalità dei colpi che riceve sulla schiena e che, nonostante la durezza della pelle bufalina, si mette a sanguinare. La compassione è come la pace: una presenza più che altro immaginaria, aerale, eterea e, per questo, tacciata di utopismo dai benpensanti. Di ieri e di oggi.

Quell’angoscia che Rosa Luxemburg sente per l’animale che sente come un fratello, è l’incipit di un manifesto antispecista assolutamente moderno e attuale. E’ un riportare il tema della grande questione di specie, di sopravvivenza nostra a scapito di tutto e di tutti entro, non i limiti, ma lo sconfinato problema della sostenibilità ecologica, ambientale e naturale nel vero senso del termine.

Il socialismo spartachista, come tentativo di andare oltre una asfittica ortodossia marxista, perde la sua battaglia nella rivolta berlinese, nella repressione dell’insurrezione da parte della socialdemocrazia che si è fatta potere e, quindi, nel riconoscersi quasi solo come tale, prima sentinella della difesa dell’ordine costituito.

Ma, alla lunga, mentre le macerie dell’Unione Sovietica decretano sia la grandezza dell'”assalto al cielo“, sia la pochezza su cui si reggeva un capitalismo di Stato che negava, di fatto, ogni apparentamento anche alla lontana con il comunismo, l’eresia luxemburghiana ritorna e affascina.

La testimonianza empatica di Rosa si accompagna a quelle di Karka, Canetti e Roth sulle sofferenze animali nei macelli, sull’immedesimarsi nelle condizioni di questi esseri viventi che noi abbiamo decretato debbano essere cose e non individui come noi, seppure differenti da noi e noi da loro, ovviamente.

Non ci consideriamo più animali, nonostante la scienza ce lo ricordi ogni tanto, da troppo tempo. Abbiamo smarrito la nsotra animalità e ci siamo tramutati arbitrariamente in umanità, in un qualcosa di a sé stante e di alienante. Dovremmo, spesso, fare come Kafka: sentirci talpa rincorsa dal proprio cane. Tramutarci per metamorfosi in quella debolezza e sofferenza che ci sta sotto gli occhi e tentare di sentirla nostra. In tutto e per tutto.

Solo riconsiderando gli stretti confini che abbiamo stabilito per l’empatia moderna, potremo capire la necessità di una liberazione molto più grande di quella – necessaria ma pur sempre parziale – che concerne la nostra sola specie, l’animalità umana separata dall’animalità propriamente dicibile.

La liberazione umana e quella animale si compenetrano e sono necessarie l’una all’altra. Nel nome di quella naturalità della vita che ci riguarda veramente tutte e tutti. Senza distinzione alcuna.

UN PO’ DI COMPASSIONE
ROSA LUXEMBURG
CON TESTI DI KARL KRAUS, UNA IGNOTA LETTRICE DELLA «FACKEL», FRANZ KAFKA, ELIAS CANETTI, JOSEPH ROTH
ADELPHI
€ 7,00

MARCO SFERINI

18 ottobre 2023

foto: elaborazione propria


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