Dialoghi sull’Anarchia

Più dell’utopia è senza speranza un mondo che da migliaia di anni si dibatte nella lotta tra le classi; a volte ne è consapevole, altre volte meno, altre volte...

Più dell’utopia è senza speranza un mondo che da migliaia di anni si dibatte nella lotta tra le classi; a volte ne è consapevole, altre volte meno, altre volte ancora per niente.

Più dell’utopia, è senza luogo di tempo e di memoria, immateriale e fisico, metafisico e ancestralmente sedimentato in un substrato di concause che ne definiscono i contorni tutti pregiudizievoli, l’abitudinarietà alla consuetudine, al solco tracciato tra possibile e impossibile, tra finito e infinito, tra bene e male, tra etica e antietica, tra morale e immorale.

Noi ci nutriamo ogni giorno di preconcetti, di precostituzioni che si sommano nel corso dei secoli e che diventano le fondamenta sulle quali pretendiamo di rendere più giusta una società che è strutturalmente impossibile rendere migliore se non con una rottura radicale col suo presente-passato.

Nelle tante chiacchiere e, oggi, nell’epoca dei social, nei tanti scritti, post, ex-tweet che facciamo compulsivamente, protesi delle ansie che ci pervadono la mente e il cuore, la ragione e i sentimenti, fiumane di ipotesi si affastellano ad altrettante certezze granitiche.

Lo spazio per il dubbio e per la critica divien quell’approfondimento irrealistico per una dinamicità dei pensieri che, al pari della fulmineo tempo che dedichiamo al cibo e alle attività di mera sopravvivenza, quelle che poi dovrebbero in qualche maniera essere parte di una essenzialità per l’appunto quotidiana, rimane dietro le quinte di un grande, terribile spettacolo di un mondo che è farsa e tragedia al tempo stesso.

Le preghiere servono a lenire il disagio psicologico che grandi masse di persone subiscono (e autoalimentano) nel momento in cui si rendono conto che l’esistenza pesa di più sulla bilancia dell’insensatezza piuttosto che su quella della coordinata e regolata armonia tra animali-umani, animali-non-umani e il resto della Natura, del pianeta.

Le preghiere non servono a fermare le guerre, ma nemmeno le guerre fermano altre guerre. La violenza chiama la violenza, la aumenta in esponenzialità e finisce col travolgere tutte le disgrazie che il capitalismo, giorno dopo giorno, alimenta in una fase liberista in cui il multipolarismo ritrovato dalle grandi potenze, storiche, riemergenti e di nuovissima generazione, fa il suo mestierie concorrenziale, spietato, privo di qualunque aggancio ad una morale che, del resto, gli è atavicamente (e quindi intrinsecamente) estranea.

Le chiacchiere che oggi si possono ascoltare al bar, sugli autobus, tra le persone che si incontrano per strada, hanno, per la maggiore, un tratto molto più deprimente, desolante e una qualità del discorso infinitamente meno avvincente di quelle che Errico Malatesta immagina nei suoi “Dialoghi sull’Anarchia” (NdA Press, 2021). Un testo poco conosciuto, perché molto poco editato fino a qualche anno fa.

La forma dialogica rimanda un po’ a Platone, ma anche alla discorsività di certe opere filosofico-naturalistiche in cui dei, eroi, e gente comune si alternavano nel rispondersi e domandarsi a vicenda tutta una serie di grandi epiche questioni che affondavano nella notte dei tempi di una umanità già allora smarrita nell’insensatezza dei conflitti vicendevoli, della sete di potere, della voglia di denaro, di profitto, di accumulazione di enormi ricchezze a tutto scapito dei popoli che subivano dominazioni spitate o democrazie oligarchiche.

Contadini e magistrati, gentiluomini e cafoni, borghesi e proletari si scambiano opinioni che, obiettivamente, sono, se messe in fila una dopo l’altra, una lista di domande che oggi verrebbero chiamate le “FAQ“. La forma dell’italiano ottocentesco non è un impedimento alla comprensione di un testo lineare, che segue una logica perfetta nel proporre a chi legge una sorta di manuale per comprendere l’analisi critica nei confronti del capitalismo di allora e, non affatto meno importante, anche di quello attuale.

Perché, sostanzialmente, i problemi e le tematiche di fondo dell’espansione del sistema delle merci e dei profitti non sono venuti meno e, anzi, molti si sono acutizzati e, potremmo ben dire che, solo dopo la grande crisi novecentesca del capitale e le fasi di recrudescenza che ha attraversato mediante le due guerre mondiali e i tanti conflitti regionali sviluppatisi a partire dagli anni ’40 in poi, l’anticapitalismo, come espressione politica, sindacale e comunemente associativa del criticismo anche singolo, ha l’occasione di ritrovarsi, di recuparsi, di reinnestarsi in mezzo alle pullulanti contraddizioni.

Errico Malatesta affronta la concezione borghese della società di fine ‘800 e dei primi decenni del Secolo breve con una capacità empatica di analisi, facendo sentire l’interlocutore parte di un dialogo tra contadini, tra braccianti. Siamo innanzi ad uno scritto utile per la Causa, privo delle altisonanze tecniche di un elaborato economicista o dei linguaggi burocratico dispersivi, baroccamente ripetitivi e fraseggianti di un documento di qualunque partito operaio e proletario dell’epoca.

La questione della “comunicazione“, sia anarchici sia socialisti e comunisti, l’avevano capita molto meglio centoventi anni fa rispetto ad oggi. Era, infatti, molto più difficile far comprendere allora cosa volesse dire lottare per i propri diritti, ribellandosi al padrone, ad una figura che era sempre esistita – nelle forme diverse assunte nel corso delle “lotte delle classi“, per dirla con Marx ed Engles -, quindi ad una istituzione per antonomasia, incontestabile, tanto quanto lo era stata l’aristrocrazia fino allo scoppiare della Rivoluzione francese.

Eppure, Malatesta e compagni ci riescono: parlano di questioni molto complesse con persone del popolo, con un proletariato che, a poco a poco, acquisisce la consapevolezza di essere sfruttato, di non ricevere quello che si potrebbe (impropriamente, se guardiamo alla mera analisi economico-politica) definire il “giusto salario“.

Ci troviamo, dopo un secolo e mezzo a fare lotte per un “salario minimo“, che sarebbe meglio chiamare “sociale” e non abbiamo ancora risolto il problema di una redistribuzione delle ore di lavoro per aumentare l’occupazione. Una delle conquiste del movimento operaio fu proprio la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore, nel febbraio del 1919. Fu la FIOM a siglare l’accordo con i padroni.

Dunque, se solamente ci riferiamo ad un progressivo avanzamento dei diritti sociali, unitamente a quelli civili (ed umani…), chi è che può solennemente affermare che la società in cui sopravviviamo è progredita tanto da mostrarci una modernità a tutto tondo, mentre surrettiziamente, sottende i suoi veri scopi capitalistici, finanziari e in cui due miliardi e mezzo di salariati vivono, in pratica, nella povertà più endemica?

I dialoghi malatestiani sono una antologia entusiasmante di problematiche e temi che vanno dal sociale al politico, dal filosofico all’economico, dallo storico al mitologico, dall’idealismo alla concretezza, dal pensiero all’azione. Beppe, ad esempio, un po’ come fanno i paesani liberati dal POUM in “Terra e Libertà” di Ken Loach, si dibatte nella questione della proprietà personale, quella guadagnata col solo proprio lavoro:

«C’è una cosa però: levare la roba ai signori, che hanno rubato ed affamato la povera gente, sta bene; a mettere da parte quattro soldi ed aver comprato un campicello o aperta una botteguccia, con che diritto potresti levargli quello che è veramente frutto dei suoi sudori?».

Gli risponde Giorgio che oggi, con quello che ti pagano i padroni e quello che ti garantisce lo Stato, di economie proprio non se ne possono fare. In una società libera dallo sfruttamento, dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e, quindi, anche della terra, la collettivizzazione garantirebbe quell’accesso alla materia prima che rimane una pietra angolare dello sviluppo di tutti e di ciascuno. E quindi, la conclusione è: «…se uno ha un campicello e lo lavora colle sue braccia, se lo può benissimo tenere».

Insomma, niente dipendenza dalla proprietà altrui, niente salario, niente rapporto tra proprietà privata e forza-lavoro. Qui l’utopia certo che entra prepotente nella sistematicità antisociale in cui siamo cresciuti e a cui siamo stati abituati. Per questo la rivoluzione inizia prima di tutto in noi stessi, fin dentro la recondità dei nostri più substratuali pregiudizi verso la possibilità che si possa cambiare e in meglio.

La reticenza nei confronti del mutamento, del resto, è una forma di resistenza subcosciente che mettiamo in pratica anche quando si tratta di questioni private, nostre, personalissime. Siamo restii al cambiamento, perché ci troviamo meglio in una zona di conforto e di sicurezza che è quell’abitudinarietà citata qualche paragrafo sopra.

Il fallimento del capitalismo è sempre stato sotto gli occhi di tutti. Ma siamo stati abituati a considerare “naturale” questo sistema, a trattarlo come tale, a viverlo in quanto tale. L’ipotesi rivoluzionaria è, quindi, molto poco stata affidata ad una realizzazione cosciente del proprio essere sociale, se non da gruppi di avanguardia che, tuttavia, hanno saputo dirigere le masse popolari verso cambiamenti tutt’altro che residuali o insignificanti.

Anche le rivoluzioni che potrebbero essere definite come “fallite“, dalla Comune di Parigi alla rivolta spartachista berlinese, passando per i tentativi ungheresi e per il Biennio rosso italiano, non sono state tentativi inutili, ma hanno, nell’insieme globale, nella formulazione di una nuova visione delle cose e dei fatti, della persona stessa in quanto soggetto e non solo più oggetto di qualcuno o di qualcosa, portato la Storia europea e del mondo – esattamente nella considerazione di un rapporto dialettico – a spingersi al di là di quello che sarebbe potuto essere il futuro.

La modernità cui ci riferiamo spesso non è, di per sé stessa, una garanzia di benessere. Tutt’altro. Molte volte definiamo moderni metodi con cui comunichiamo, con cui ci curiamo, con cui ci spostiamo, con i quali proteggiamo noi e i nostri cari da violenze, soprusi, ingiustizie.

Ma se questi diritti, datici dalla scienza e dalla conoscenza in generale che ha determinato lo sviluppo tecnologico e, quindi, migliorato lo stile di vita in senso lato, non sono diritti di tutti, non sono accessibili per chiunque, allora la modernità è classificabile solamente come espressione di un altrettanta moderna declinazione della parola “privilegio“.

Ambrogio se ne indispettisce parlandone con Giorgio, quasi vorrebbe che non potesse essere così:

«E va bene; e credete così di arrivare ad una società che si regga semplicemente per la volontà concorde dei suoi membri? E’ proprio il caso di dire che sarebbe una cosa senza precedenti!».

E’ vero, è proprio così. Se ci soffermiamo un attimo sulle guerre che sono scoppiate in questi ultimi anni, dall’Ucraina prima ad Israele e Palestina in questi giorni, ha proprio ragione Ambrogio. Sarebbe qualcosa che non si è mai vista nel corso della Storia umana. Sarebbe quel “sogno di una cosa” di cui abbiamo una certa percezione, “la cosa semplice che è difficile fare“. Difficile, ma non impossibile. Il capitalismo, ci ricorda Marx, è un fatto storicamente determinato, un prodotto sociale, umano.

E come tutti questi prodotti, ha avuto un’inizio ed avrà una fine. Non unica e nello stesso istante in tutto il mondo. E’ bello pensarlo, ma non terremmo conto dei rapporti di forza esistenti e della complessità delle nostre società. Dirigersi verso quella meta è però obbligatorio se non si vuole l’estinzione umana, animale e la completa compromissione dell’equilibrio naturale che ci tiene in vita tutte e tutti.

Andare in quella direzione è la necessità imprescindibile a cui possiamo anche affibiare l’etichetta di utopia, ma il vero non-luogo del senso è l’atroce dell’oggi, la miseria dell’oggi, la mancanza di prospettive per il domani. Il capitalismo è un fallimento. L’anticapitalismo è ancora una opportunità. Da prendere al volo.

DIALOGHI SULL’ANARCHIA
ERRICO MALATESTA
NdA PRESS
€ 12,00

MARCO SFERINI

11 ottobre 2023

foto: particolare della copertina del libro


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