Don Chisciotte della Mancha

Rileggere dopo tanti anni “Don Chisciotte della Mancha” di Miguel de Cervantes Saavedra (ed. Newton Compton ne “I Minimammut“, Einaudi, Mondadori, BUR con prefazione di Jorge Luis Borges) è...

Rileggere dopo tanti anni “Don Chisciotte della Mancha” di Miguel de Cervantes Saavedra (ed. Newton Compton ne “I Minimammut“, Einaudi, Mondadori, BUR con prefazione di Jorge Luis Borges) è come fare veramente un viaggio nel tempo.

Anzi, in più livelli temporali: nella Spagna del Seicento anzitutto e, poi, nelle memorie di un ragazzino a cui era stato regalato un libro che parlava di cavalieri erranti, di giganti, di botteghe, di taverne, di cavalli e muli, di re e principesse, di onore, giustizia e potere.

Quando sei così innocente da non accorgerti delle brutture che proprio la forza del dominio, l’arroganza della presupponenza, la dittatura dei privilegi impongono continuano ad attribuire al mondo che ti circonda, del Cavaliere dalla triste figura e del suo scudiero Sancho Panza cogli tutta la semplicità – per niente sempliciotta o semplicistica – dell’avventura bislacca, della straordinarietà di una immaginazione fanciullesca che si attaglia perfettamente alla figura del signore e che cozza, invece, con la pragmaticità pelosa di chi cavaliere non è.

Rileggere il “Don Chisciotte“, che rimane un grande classico mondiale della letteratura universale e, certamente, una delle opere fondanti la nuova cultura spagnola, quella modernamente intesa, non può che dare adito a nuove emozioni e a tuffi nel passato presente e remoto. E’ quasi d’obbligo dimenarsi nelle rotondità continue, nei tanti disegni geometrici di uno stile baroccheggiante che, tuttavia, entra in crisi sotto il peso di una grandezza e di una ampollosità che Benedetto Croce stroncò con nettezza.

Ma Cervantes non è poi così barocco come il suo tempo. La sua vita, anche se non poteva saperlo, oggi sarebbe più accostabile alla letterale propensione ad una romanticità sognatrice che non trascura il senso dell’esistenza, l’importanza del microcosmo in cui viviamo e che, per questo mette accanto a Don Chisciotte il suo fido scudiero in groppa all’asino. Il cavaliere errante è naïf, mentre Sancho è un materialista quasi perfetto, ma nel senso deteriore del termine.

Là dove Chisciotte vede eserciti dietro alle nuvole di polvere, e dove per un attimo anche lo scudiero pensa di poterli scorgere perché – forse – pensa che l’immaginazione poi non possa andare tanto oltre la realtà e trascenderla così smaccatamente, la bieca testardaggine di una realtà che gli pare immonda, ma per la quale non esita a battersi verso un il fine di un miglioramento delle condizioni dei più derelitti e deboli, alla fine ci sono greggi di pecore e montoni che si dimenano avanti e indietro.

Là dove i mulini a vento paiono dei giganti minacciosi, c’è la difesa dell’onore come punta di diamante di un carattere lindo, pulito, imperfetto ma perfettibile. Ogni gesta è catartica, pervasa da una vena di misticismo che si ricompone nei lunghi dialoghi che i due fanno in sella l’uno a Ronzinante e l’altro al fedele asinello. Nel “siglo de oro“, nell’effervescente età imperiale di una Spagna che non risparmia alla letteratura una ferrea censura, Cervantes riesce a fare della prima parte del suo romanzo un successo internazionale.

Scavalca le grinfie dei giudizi inquisitori, le maglie del potere che vorrebbero ridimensionarne la critica, e perfino trasvola sopra la spregiudicatezza dei veri cavalieri dell’epoca che, certamente, ogni tanto, in uno sprazzo di lucidità e di razionalità, colgono la derisione che “il monco di Lepanto” getta sopra la casta intoccabile dei signori d’arme.

Il Barocco, del resto, è una prigione dorata in cui la società seicentesca si agita senza volersi liberare più di tanto. La Spagna cattolica e monarchica, è l’esempio di un potere che finisce col tollerare la dinamicità artistica e letteraria.

La grandezza spagnola deve alle conquiste di Carlo V e alla fantasia ingegnosa di Cervantes un tributo non da poco nella storia dell’Europa dove la minaccia turca è prepotente, dove Lepanto diviene, sotto gli occhi del “monco“, l’immagine prestabilita di una linea di confine tra il prima e il dopo, tra il tentativo dell’Impero ottomano di dilagare in Europa e la sua fermata alle porte di nuove Termopili da cui, in tutta obiettività, non riuscirà più a passare.

Cervantes inizia a scrivere il “Don Chisciotte” mentre si trova in carcere, dopo mille disavventure belliche al seguito del figlio illeggittimo dell’imperatore: Don Giovanni d’Austria. Dal periodo giovanile in Italia, trascorso alla corte intellettual-religiosa del cardinale Acquaviva, il più grande scrittore iberico passa nell’inferno, appunto, di Lepanto, e poi finisce prigioniero dei pirati che lo traducono da Marsiglia fino ad Algeri.

Sono tutte esperienze che gli permetteranno di acquisire una grande cultura e, soprattutto, una esperienza di non poco conto al servizio di principi, re moreschi, come consigliere saggio e accorto.

Sarà proprio questa giovanile acquisizione di una coscienza del mondo che lo circonda, così eterogeneo nei suoi colori, nelle sue sfumature, nel sottofondo delle voci che ascolta e che gli restano nella mente, a fare di Cervantes uno scrittore di enorme pregio. Prima come novelliere e autore di teatro (un genere che furoreggia nella Madrid del tardo Cinquecento), poi con l’intraprendere la scrittura del romanzo che lo consacrerà in eterno.

El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha” inizia ad essere vergato quando si trova in carcere a Siviglia. Verrà dato alle stampe nel 1605, tre anni dopo il suo incipit corredato da quelle poesie che un tempo si mettevano ad inizio di un romanzo come testimonianza di affetto e, soprattutto, come garanzia di pregio dello stesso da parte di grandi signori e altri amici letterati.

Ma Cervantes non trovò nessuno che avesse in animo di benedirgli l’opera con qualche anche breve ode scritta. E così fu lui stesso, attingendo alla sua straordinaria capacità inventiva, a prodursi una presentazione degna di sorta. Non sono elogi sperticati, ma celebrazioni argute e già marcatamente picaresche, di un’opera che si rivelerà sincretica nell’unire stili molto diversi fra loro.

Per cui, l’Alonso Chisciano diviene Don Chisciotte, Sancho Panza l’antieroe per eccellenza, un po’ pusillanime e un po’ saggio rimarcatore di una concretezza che l’idealità e l’utopia cavallerescano mostrano di scordare ad ogni trotto di Ronzinante. Non è più soltanto l’Italia ad avere la grandezza letteraria dantesca, petrarchiana e boccaccesca. Non è solamente più l’Inghilterra a potersi fregiare di essere l’antesignana di una teatrante cultura più che moderna.

Adesso anche la Spagna ha, tra le sue enormi ricchezze nel Nuovo e nel Vecchio continente, un plusvalore che le viene da un’arte molto più durevole nel tempo delle grandi riserve aurifere e dei possedimenti di un impero che, nella brevità (si fa per dire, riferendosi ai nostri limiti di esistenza) di due secoli, finirà per ridursi a pochi possedimenti d’oltremare e qualche residuo di costa africana.

La pietra angolare del romanzo e dell’interpretazione antropologica dell’esistente che ne dà Cervantes, è non tanto la disillusione nei confronti delle tante ingiustizie che divorano il mondo (come canta Guccini), quanto un disincanto intermittente, dove la soluzione della continuità fatale di un idealismo ipnotico ed onireggiante si realizza grazie ai bagni di realtà di Sancho Panza. Senza di lui Don Chisciotte è inconcepibile. La dualità è fondamentale in questo filosofeggiare dal basso per arrivare a vette molto alte.

Mentre sogna di aver tagliato la testa ad un gigante senza uguali senza, ovviamente, rendersi conto che di altro non si tratta se non di un gigantesco otre, mentre aspira a riportare al suo castello questa o quella principessa, tocca sempre allo scudiero trascinare la Triste figura al computo severo della concretezza quotidiana, dell’hic et nunc.

«Ma cosa dici, folle! Sei mica impazzito!» risponde Don Chisciotte stizzito. Sfuggire all’incantesimo perenne che lo avvinghia è fuoriuscire da un mondo più accomodante per un cavaliere errante che scambia lucciole per lanterne.

«Tutto quello che dirai non mi sorprenderà afffatto; se ti ricordi bene, infatti, quando siamo stati qui l’ultima volta, ti dissi che quanto succedeva in questa locanda era frutto di un incantesimo, e non mi sorprenderebbe che ora fosse successo qualcosa di simile». Non c’è resa donchisciottesca all’inevitabilità della realtà. La distopia del cavaliere è davvero una anti-utopia, visto che la sua percezione del concreto si fonda sull’inesistente, su una lettura della verità che è dimostrabile soltanto attraverso il sogno ad occhi aperti.

Dulcinea del Toboso è la stella di un firmamento sotto al quale la vita avventurosa di rischi, di botte, calci e peripezie continue diviene per magia della follia lucida una grande epopea di libertà, di liberazione e persino di libertarismo. Può quindi stabilirsi qualunque paragone tra Ronzinante e Bucefalo, tra Rodrigo Díaz de Bivar (“El Cid“) e lo stesso Don Alonso. I confini della similitudine logica e corretta sono saltati tutti, perché il romanzo di Cervantes è, già di per sé, una rivoluzione tanto letteraria quanto contenutistica, politica e sociale.

La concezione tutta umana di una realtà confacente, appunto, soltanto ai canoni propri diventa quasi una stranezza, una bizzarra affermazione di un pricipio di oggettività che non ha da essere se non nella rigida, canonica preservazione di un ordine e di un potere che negano qualunque spirito autonomo, qualunque slancio iperbolico tanto a parole quanto nelle gesta d’arme di un cavaliere errante che si getta come sguardo opaco, a tinte fosche e disarmanti mentre in mano tiene lance, spade, briglie squadernate.

La grandezza di Cervantes è molteplice, multiforme, multistrato, multiculturale: fa dello spagnolo l’unità linguistica di un popolo che guarda al mondo intero. La vicenda di Don Chisciotte è la meravigliosa sedimentazione dell’utopia nel cuore e nel prospetto immaginifico di chi non si rassegna all’ingiustizia, alla prevaricazione, alla sopraffazione, alla prepotenza.

La cavalcata nella Mancha, dove i castelli tinteggiano il paesaggio e ne fanno un pullulare di tante realtà diverse fra loro, eppure così simili e molto concrete, è il ripercorrere autobiograficamente una parte della vita dell’autore.

Non c’è sete di vendetta verso la propria storia o quella degli altri. Non c’è rimorso, rancore, animosità. C’è voglia di irrompere nuovamente nell’essenza della vita, nella sua unicità molteplice, nella sua molteplicità unica. Si può giocare con le parole perché è Cervantes stesso che ci invita a farlo, alterando tutti gli schemi, dirompendo nell’abitudinarietà di una narrativa che viveva solamente di poetica e di odi, di romanzate figure non meno aleatorie di quella di Don Alonso e del suo scudiero.

Ed in fondo, non c’è migliore presentazione e riprensentazione del capolavoro di Cervantes se non quella fatta da Guccini. A lui lasciamo l’epilogo di questo scritto:

«Mio Signore, io purtroppo sono un povero ignorantee del suo discorso astratto ci ho capito poco o niente,
ma anche ammesso che il coraggio mi cancelli la pigrizia,
r
iusciremo noi da soli a riportare la giustizia?

In un mondo dove il male è di casa e ha vinto sempre,dove regna il capitale, oggi più spietatamente,Riuscirà con questo brocco e questo inutile scudieroal potere dare scacco e salvare il mondo intero?

Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietroPerché il male ed il potere hanno un aspetto così tetro?Dovrei anche rinunciare ad un po’ di dignità,Farmi umile e accettare che sia questa la realtà?».

(FRANCESCO GUCCINI, “Don Chisciotte”, dall’album “Stagioni”, 2000)

DON CHISCIOTTE DELLA MANCHA
MIGUEL DE CERVANTES SAAVEDRA
NEWTON COMPTON EDIZIONI, collana “I MiniMammut”, 2014

MARCO SFERINI

4 ottobre 2023

foto: particolare della copertina del libro

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