La temperatura dell’estate calda americana è ulteriormente salita di un grado. Dopo i lavoratori della Ups, gli hotel workers di Los Angeles, gli sceneggiatori e gli attori di Hollywood, tocca ora alle vecchie tute blu. A mezzogiorno del 14 settembre scadeva il contratto firmato quattro anni fa al termine di uno sciopero di 40 giorni contro la General Motors. Il giorno dopo, i lavoratori dell’auto sono entrati in sciopero.

Lo avevano promesso; oltre il 95 per cento dei lavoratori di Gm, Ford e Stellantis aveva votato per scioperare se le richieste avanzare tramite la United Auto Workers fossero state respinte. Lo strumento è quello antico, usato in modi nuovi e, forse, da un sindacato tornato in sintonia con i tempi.

Per la prima volta nella storia della Uaw lo sciopero per il nuovo contratto investe tutt’e tre le “Grandi” contemporaneamente. Per dare inizio alla lotta è stato scelto uno stabilimento per ciascuna di esse: tre fabbriche in tre stati diversi del vecchio Midwest della deindustrializzazione, Michigan, Ohio e Missouri, dove vive ancora gran parte dei quasi 600.000 pensionati della UAW (che se la lotta si prolungasse farebbero da retroterra degli scioperanti e delle loro famiglie).

Per ora i lavoratori coinvolti sono poco meno di 13.000, ma se lo sciopero continuerà, crescerà il numero delle fabbriche che verranno bloccate. Anche questa è una novità: così come sono state scelte le prime tre, anche le successive saranno a mano a mano individuate in modo da limitare al massimo il danno economico per i lavoratori, ma da bloccare le produzioni più richieste e i flussi più critici. Si è scritto che lo sciopero del 2019 è costato oltre 3,5 miliardi di dollari alla Gm. Ora, se quello odierno si prolungherà – come è prevedibile, data la distanza attuale tra le parti – le stime prevedono per le aziende e l’indotto decine di miliardi di danni.

Saranno problemi anche per l’economia nazionale. In prospettiva – con i sicuri rincari dei prezzi delle auto e i prevedibili attacchi preelettorali dei repubblicani – sono soprattutto questi che Biden teme.

Da qui la speranza di un accordo rapido, ma con l’apprezzamento per l’iniziativa sindacale e l’invito alla ragionevolezza verso le aziende: «I lavoratori meritano una quota equa della ricchezza che contribuiscono a creare» e «profitti record vogliono dire contratti record». Sapendo, comunque, che la rivitalizzazione operaia del Midwest potrebbe in realtà giocare a suo favore e riportare ai democratici nelle prossime elezioni una parte dei voti che i lavoratori delusi e arrabbiati avevano dato a Trump.

Le rivendicazioni sindacali sono notevoli (Shawn Fain: «Audaci e ambiziose»). Alle richieste di aumenti della paga oraria del 40 per cento in quattro anni si sommano la scala mobile contro l’inflazione, la riduzione a 32 ore della settimana lavorativa, miglioramenti nelle coperture assistenziali e pensionistiche, maggiori garanzie a protezione del posto di lavoro e infine la cancellazione delle diversità di salario – attualmente: 17 dollari/ora ai nuovi assunti e otto anni per raggiungere i 32 dollari del salario massimo – che il sindacato aveva accettato come misura emergenziale nella crisi di Gm e Chrysler del 2008.

«Concessioni» temporanee che le aziende vogliono perenni. Per ora, esse sono sembrate disposte solo ad aumentare le paghe del 20 per cento e a fare qualche concessione marginale legata all’anzianità.

La Uaw non ha più il milione e mezzo di iscritti di cinquant’anni fa, cosi come le Grandi dell’auto e Detroit sono lontane da quelle che erano. I suoi iscritti attivi sono scesi a 400.000 (e meno della metà sono metalmeccanici dell’auto), ma sono in crescita. Come dice il suo nuovo presidente Shawn Fain, i lavoratori «non ne possono più» e il sindacato risponde loro con una nuova aggressività.

Già l’anno scorso la Uaw aveva condotto una lotta contrattuale di sei settimane, vittoriosa, contro la John Deere, produttrice di macchine agricole, e all’inizio di marzo di quest’anno aveva concluso un contratto con la Caterpillar che prevedeva aumenti salariali del 27 per cento in sei anni, l’aumento della quota aziendale nei contributi pensionistici e un bonus aggiuntivo in denaro.

A testimonianza della nuova combattività della base, una parte degli iscritti aveva ritenuto troppo bassi i guadagni per i lavoratori e aveva contestato la dirigenza della Uaw. Shawn Fain e i dirigenti attuali sono il “frutto” dell’opposizione interna: Fain è stato eletto subito dopo, nello stesso mese di marzo, e attraverso il voto diretto di tutti gli iscritti, sia attivi, sia pensionati.

Anche questa una rottura decisa con la tradizione, in cui i massimi dirigenti venivano eletti in una convention di delegati facilmente manipolabile, e con il passato recente, macchiato da anni di corruzione interna e malversazioni dirigenziali.

Dopo un decennio in cui le aziende hanno intascato profitti enormi, mentre i lavoratori «tiravano la cinghia», ha detto Fain, è arrivato il momento di «mettere fine al sindacalismo aziendale, in cui imprese e sindacato lavorano insieme, da amici». La lotta appena iniziata godrà di vaste solidarietà, ma di sicuro sarà lunga.

È venuto il momento per il sindacato conflittuale di mettere mano al fondo di solidarietà, accantonato negli anni dal sindacato affarista, che garantisca ai propri iscritti il sostegno finanziario indispensabile per tenere duro nei giorni senza salario.

BRUNO CARTOSIO

da il manifesto.it

foto: screenshot Flickr