Quello che si è potuto vedere, nella terribile sequenza dell’aereo che precipita, del pilota che si lancia poco prima dello schianto, del velivolo che impatta col suolo e investe nella sua diastrosa traiettoria anche un’automobile con una famiglia all’interno, è il potenziale pericolo che gli aerei militari rappresentano.
Non perché siano militari, visto che qualunque cosa voli e che sia stata costruita dall’uomo può, ad un certo punto, per un guasto, per un altro inconveniente, lasciare l’altezza prevista e diventare un vero e proprio missile, una vera e propria bomba pronta ad esplodere su qualunque cosa o persona gli capiti a tiro, ma perché se già tutto questo può avvenire con aerei di linea, sarebbe meglio evitare che accadesse con altri tipi di aerei.
Poche ore prima dell’incidente capitato a Caselle, dove una freccia tricolore è incorsa nel tremendo impatto descritto all’inizio, in cui è morta una bambina e in cui sono rimasti feriti gli altri suoi familiari ed anche il pilota trentacinquenne che era alla guida del velivolo, un aereo americano di linea, quindi civile, pareva destinato alla medesima sorte: dagli otto e più mila metri a cui si trovava, all’improvviso ha perso quota velocemente e quasi verticalmente si è diretto verso il suolo.
La prontezza del comandante ha evitato il peggio. Incidenti ne accadono tutti i giorni. E’ vero. Ma questo non solo non ci consola, ma rende ancora più singolare quanto avvenuto a Caselle, perché mentre i voli di linea devono volare per garantire il regolare trasporto dei passeggeri e delle merci, gli aerei militari, a meno che non scoppi una guerra, l’ennesima di questi tempi, e contro l’Italia, hanno il dovere di rimanere a terra, buoni buoni, senza diventare dei possibili pericoli per la popolazione.
La storia delle collisioni con stormi di uccelli (poveri volatali triturati nelle eliche dei motori, spazzati via dal loro ambiente naturale dalla potenza bellica umana…) o quella dei guasti più improvvisi, degli “bird strike” come di altre situazioni imprevedibili, è ricchissima di episodi in cui gli aerei militari si sono, proprio nel corso di esercitazioni spettacolari, schiantati al suolo causando spesso molte vittime.
La domanda, forse molto poco patriottica, se intesa come la intendono le destre di governo, è: a che cosa ci servono le Frecce Tricolori? A colorare il cielo di Roma il 2 giugno, il 4 novembre e in altre occasioni di feste laicamente comandate per dare l’impressione che siamo anche noi un Paese degno di nota, perché abbiamo un’aeronautica militare che fa vanto di una meastria acrobatica che è anzitutto spettacolarizzazione di strumenti di morte.
La Repubblica Italiana deve difendersi da chiunque la attacchi, ma è assai difficile pensare che possa farlo rilasciando strisce di fumogeni colorati nel cielo. Il carattere esibizionistico della pattuglia in questione è certamente apprezzabile come spettacolo quasi circense, come livello di maestria e di capacità tecnica nel saper guidare un aereo di quella fatta, nel mostrare un volteggio armonioso nei cieli con evoluzioni aeree e vere e proprie acrobazie che, indubbiamente, lasciano di stucco.
Ma c’è anche un’altro scopo: quello di far appassionare i giovani ad un mestiere, offrendo loro l’immaginifico di una carriera che unisca la difesa della Patria come sacro dovere del cittadino allo sviluppo di una serie di capacità che sono una eccellenza tutta italiana nel mondo. Un po’ come fare parte della meraviglia che solca i mari, che risponde al nome di Amerigo Vespucci, e che è nave scuola, attrazione per i turisti, memoria storica della marina italiana, ambasciatrice del made in Italy in tutto il mondo.
L’incidente di Caselle, o per meglio dire la disgrazia, visto che ci sono morti e feriti e che, certamente, nessuno ha voluto, dovrebbe risvegliare una sorta di coscienza civile che riportasse un poco tutte e tutti noi alla considerazione che, comunque la si veda, certe esibizioni aeree ci costano caro: in termini di soldi, perché quei caccia sono un costo enorme sostenuto dalla collettività; perché, se oggi è capitato ad una famiglia di essere vittima di questa scaigura, a Ramstein, in Germania, nel 1988 furono settanta i morti.
Non sono solo le Frecce Tricolori ad essere oggetto e soggetto di una retorica insopportabile che richiama all’altezza degli aerei quella di una nazione che invece è a bassissimi livelli antisociali, il cui governo non fa praticamente nulla per incentivare le garanzie per i lavoratori e per i ceti più disagiati, ma è prontissimo a sedersi nella carlinga di un aereo applaudito e incitato da una piccola folla di giovanissimi studenti con le bandierine in mano.
E’ tutto il mondo del militarismo ad essere tornato prepotentemente di moda con la logica della guerra in Ucraina come lotta per la difesa del mondo occidentale, democratico e libero da quello tirannico, dispotico e aprioristiacamente tale, rappresentato – guarda caso – dai paesi che formano i blocchi alternativi al sistema imperialista formato dall’asse USA-NATO-UE.
Ma, senza allargare troppo le maglie di un ragionamento che finirebbe col farci perdere di vista il nodo della questione, è sotto gli occhi di tutti che la cultura della difesa è stata sostituita a quella dell’offesa e che la guerra ha rimesso in moto una macchina della propaganda che fa dell’aumento delle spese militari una necessità anche se, ufficialmente, l’Italia non ha dichiarato guerra a nessun paese del mondo.
Ma la guerra c’è, gli armamenti vengono prodotto con un incremento della cifra del bilancio dello Stato che arriva al 2% dell’intero gettito, della ricchezza nazionale. I nostri territori franano, soccombono sotto l’incedere di una catastrofe ambientale che farà vedere in autunno e in inverno i suoi effetti più drastici a seguito delle piogge e dei venti, ma noi non mettiamo mano alla preservazione delle comunità locali. Noi incentiviamo la spesa militare.
Noi spendiamo i soldi pubblici per la guerra per procura dichiarata dalla NATO a Putin, dopo che Putin l’ha dichiarata all’Ucraina e dopo che l’Ucraina l’ha dichiarata, a suo tempo, alle regioni separatiste del Donbass. Noi guardiamo le Frecce Tricolori passare per i cieli del Bel Paese e ci diciamo che, magari, sono soldi anche ben spesi, visto che il popolo in qualche maniera lo devi pure far sentire parte di qualcosa di spettacolarmente grande.
E se questa grandezza non gliela vuoi dare nell’allegerimento del carico fiscale, nell’aumento dei salari e quindi nella diminuzione del costo della vita, allora anche se di solo pane non si vive, si potrà almeno alzare lo sguardo al cielo e, vedendo la grande, lunga, scia dai tre colori che si forma nell’aere, pensare che sì… tutto sommato qualcosa per cui valga ancora la pena di essere orgogliosi delle nostre origini c’è.
E si riduce a quello. Oltre alla meraviglia culturale, artistica e paesaggistico-ambientale dell’Italia del nuovo millennio. Mentre le sinistre lavorano ad un “mondo capovolto“, le destre si prodigano a quello retto, equilibrato secondo i canoni di un liberismo che affama, impoverisce e riduce le grandi masse di un mondo del lavoro che non ha piena consapevolezza del proprio livello di sfruttamento, e che utilizza l’arma del patriottismo come elemento cardine di saldatura tra Stato e mercato, tra debolezza strutturale e magnificenza propagandistica sovrastrutturale.
La Repubblica delle destre è l’antitesi della pace, della ricerca del dialogo tra i popoli, del mutualismo e della solidarietà. Tutto è contrasto, conflitto, l’opposto della reciprocità. Tutto è pregiudizio, sospetto, tutela dell’identità, della sicurezza, dell’ordine nel disordine sociale che avanza e che serve a mostrare la necessità delle misure straordinarie che si vorrebbero mettere in essere.
Tutto è esaltazione della disciplina, dell’obbedienza che torna ad essere una virtù, nonostante quello che ci ha insegnato don Lorenzo Milani insieme alle ragazze e ai ragazzi della scuola di Barbiana. Tutto è comprensione delle caratteristiche riconoscibili di una autoctonia su cui fanno leva tutti i diritti. Chi non rientra in questi margini – dove non è ammesso errore perché ci si rifà alla “naturalità” delle cose – è automaticamente una persona dei serie B.
Forse sembrerà che ciò c’entri poco, anzi pochissimo con la tragedia di Caselle, mentre invece un legame c’è. Perché, non fosse altro che per una legge dell’effetto farfalla di impronta proprio globalista e, quindi, anche local-nazionale, tutto si tiene e nulla sfugge alla concatenazione di eventi che muovono il corso di una attualità sempre più incerta e sempre più precaria.
La nostra ammirazione per le Frecce Tricolori sta dentro un perimetro ideale di condivisione dell’idea che quegli aerei ci siano in qualche modo utili e che il Paese ne abbia bisogno. La prospettiva dell’esercito europeo, come nuova mattonella di un percorso che scongiurasse ancora di più il risorgere di conflitti interni all’Europa, si è infranto nel ritorno della NATO sullo scenario internazionale proprio con lo scoppio della guerra in Ucraina.
Dunque, una garanzia che le belle esibizioni delle Frecce Tricolori, che rimangono una pattuglia acrobatica sganciata dal discorso bellico, almeno fino a prova contraria, smettono di essere così esaltanti e ammirevoli nel momento in cui intorno a noi il militarismo si fa parte di una nuova egemonia anticulturale di cui le destre sono le principali portatrici insane.
L’inversione di tendenza si è avuta con il ripristino della parata militare il 2 giugno, con la festa della nostra Repubblica. Invece di esibire le forze del lavoro, del volontariato, della scuola, dei tanti luoghi in cui la comunità nazionale si esprime in moltissime declinazioni sociali, culturali, politiche e civiche, si è preferito mostrare dei muscoli che non abbiamo e non abbiamo mai veramente avuto come Paese.
Un incidente può capitare. Ma siccome lo paghiamo caro sia economicamente, sia praticamente con la morte di persone che nulla avevano a che vedere con il volo di quegli aerei, sia civilmente perché accettiamo una logica di guerra permanente anche se ci troviamo (formalmente) in pace e (altrettanto formalmente) in democrazia, sarebbe bene per il futuro ripensare a come rimettere al centro della Repubblica la pace, il lavoro, la salute pubblica, la scuola pubblica, i più deboli senza alcuna esclusione, senza alcuna classificazione.
Gli aerei militare, per quanto colorati e belli possano sembrare o diventare agli occhi del bambino che, sulle spalle del papà, li guarda estasiato come fanstatici uccelli meccanici che solcano i cieli, restano degli strumenti di morte. E non possiamo insegnare ai nostri ragazzi che la morte sia un diritto solo se la portano le ali dei caccia e non se la chiede chi vuole smettere di soffrire inutilmente. Non possiamo insegnare ai nostri figli, ai cittadini di domani, che la pace è una chimera, un sogno di quei romanticoni che sventolano bandiere arcobaleno.
Non possiamo fare della Repubblica il contrario per cui è nata: la rinascita di un popolo dalle macerie di una dittatura e di una guerra. Ed ogni guerra, da cento anni a questa parte, la si combatte anche con gli aerei. Gli aerei grigi non portano mai buone notizie e non danno mai al cielo un tocco di blu in più.
MARCO SFERINI
17 settembre 2023
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