A un anno di distanza dalla morte di Mahsa Jina Amini, la società iraniana si trova a fare i conti con grandi cambiamenti socio-culturali in un contesto di forte repressione da parte dello stato. Quali conseguenze avrà questa impasse?
Le immagini di donne, più o meno giovani, che si muovono apertamente senza velo nella capitale Teheran e nelle altre città iraniane ci raccontano di una trasformazione culturale e politica ormai già avvenuta nella società, e che ha a che vedere con l’indiscutibile diritto delle donne a controllare il proprio corpo e a scegliere per sé stesse in autonomia.
Inoltre, queste immagini ci raccontano anche della diffusione senza precedenti di un sentimento di ribellione e audacia che, sebbene da sempre presente nella società, non si era mai espresso con tanta evidenza nello spazio pubblico.
Sono state tante, l’anno scorso, le testimonianze di chi rimaneva sorpresa dal fatto che, invece di riprenderle e insultarle, gli uomini alle manifestazioni applaudissero e sostenessero le donne che si toglievano il velo e lo davano alle fiamme.
E in tante, oggi, dicono che non si torna più indietro: il rapporto tra la società e lo stato è irrimediabilmente cambiato. Complice il protagonismo di una generazione che non ha conosciuto la delusione per il fallimento del movimento riformista negli anni 2000 e la repressione decennale seguita al cosiddetto Movimento Verde del 2009, oggi sono in tanti a non avere paura.
Lo stato, dal canto suo, ha negli ultimi 12 mesi agito con violenza per recuperare il controllo su quegli spazi pubblici, ma anche privati, attraversati da tanta voglia di cambiamento e di resistenza. Per farlo, si è mosso su diversi fronti.
Non solo ricordiamo, nel corso dello scorso anno, le repressioni violente, le condanne e le esecuzioni di giovani manifestanti, il misterioso avvelenamento di migliaia di studentesse, l’assedio alle università e la persecuzione di colleghe, colleghi e studenti perché considerati vicini al movimento contestatario o bollati come «agitatori».
Ricordiamo anche le leggi restrittive che sono state approvate e che hanno rafforzato l’obbligo del velo sui posti di lavoro e nelle università, e che hanno reso difficile l’accesso ai metodi contraccettivi e all’interruzione di gravidanza, col chiaro scopo di rafforzare un potere di stampo patriarcale; ricordiamo anche la riabilitazione della cosiddetta polizia morale, tornata a pattugliare le strade, e l’installazione di telecamere per il riconoscimento facciale che servono, tra le altre cose, a individuare e punire coloro che non sono coperte in maniera appropriata.
A tutto ciò, va aggiunta l’azione repressiva dello stato nelle aree di confine del paese come il Kurdistan e il Sistan-Baluchistan, non a caso abitate da minoranze etniche e religiose, che in queste ultime settimane hanno visto molti arresti.
Eppure, la società sembra attraversata da processi di cambiamento inarrestabili, nonostante gli sforzi del governo centrale. Con quali prospettive? Dal 1979, la società iraniana è stata sottoposta a un processo di politicizzazione quasi totalizzante. La perenne mobilitazione, rivoluzionaria prima e nazionalista in seguito, e le continue commemorazioni dei martiri e del loro estremo sacrificio «per la patria e la rivoluzione», hanno forgiato una società ben conscia dell’importanza di valori quali la giustizia e la libertà, coscienza rafforzata da una grande opera di alfabetizzazione, scolarizzazione e modernizzazione portata avanti dallo stato.
In molti, in questi anni, mi hanno fatta riflettere su come sia paradossale che lo stato pretenda che la popolazione non si accorga della mancanza di giustizia e libertà in Iran, vista la socializzazione politica imperniata su questi valori. In tante mi hanno anche detto che, se i martiri fossero vivi, starebbero dalla nostra parte.
La repressione dello stato difficilmente riuscirà ad arrestare le trasformazioni politiche e culturali che vediamo in Iran, anche se le proteste sono diventate ormai sporadiche o si sono spostate dalle piazze fisiche a quelle virtuali.
Tuttavia, in un contesto globale caratterizzato da un arretramento dei valori progressisti e democratici, e nel quale le politiche autoritarie e repressive sono normalizzate, lo sviluppo del movimento Donna Vita Libertà dipende anche dal sostegno che sarà in grado di raccogliere dagli altri movimenti femministi e anti-razzisti, veri attori della resistenza all’autoritarismo neoliberale che caratterizza la nostra epoca.
PAOLA RIVETTI
Docente associata alla Dublin City University
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