Per duecento anni e qualche decennio in più, Almoravidi e Almohadi, da tribù berbere quali erano, divennero delle fiorenti civiltà dell’Atlante sahariano. Di quella zona dell’Africa, quindi, che dall’omonimo deserto si affaccia sia sull’Oceano Atlantico sia sul Mar Mediterraneo. Per la verità questi popoli in parte stanziali, in parte nomadi, si spinsero anche oltre, passando lo stretto di Gibilterra e arrivando a conquistare gran parte della penisola iberica.
Il regno più famoso che vi fecero crescere e prosperare fu quello di Al-Andalus che, da tanto tempo ormai, noi conosciamo come Andalusia. Invece, là nell’Atlante diedero vita ad una società che, per quei secoli, poteva dirsi altamente progredita, capace di commerciare tanto con l’Europa quanto con le zone più inesplorate dell’Africa nera.
Marrakech divenne il centro di questa fiorente cultura che conobbe stagioni di splendore e anche lunghe guerre fratricide: come quella che, a partire dal 1130, coinvolse gli Almoravidi contro gli Almohadi. La questione che doveva essere risolta era tutta teologica e, pertanto, in quanto tale non poteva – visto il carattere profondamente socio-economico della religione in sé e per sé – non avere un risvolto pratico nella vita politica delle comunità organizzate.
Una nuova riforma dell’Islam stava, pertanto, dividendo una sorta di impero che si estendeva da Cordova fino all’attuale Senegal e che, con la vittoria degli Almohadi, si separa sempre di più dalla sfera di influenza dei califfi Abassidi di Baghdad; il tentativo è quello di dare vita, ad occidente del grande mondo islamico che si regge intorno all’Arabia felix, ad una organizzazione diversa tanto della società quanto del culto islamico.
Sarà il 1212 la data del definitivo tramonto di questa esperienza bisecolare: nella battaglia di Las Navas de Tolosa, l’impero almohade viene sconfitto e ricacciato oltre i confini europei. Ma, quella che sarà la futura regione marocchina, d’ora in avanti, e per molto tempo, non avrà più la possibilità di puntare ad una restaurazione unitaria politica e sociale del Maghreb.
Ma in quei duecento anni, le grandi città che conosciamo oggi vivono il loro massimo splendore: anzitutto perché nascono e diffondono la cultura berbera. Poi perché il loro sviluppo sociale è l’equivalente di una floridezza economica che mette al centro la vecchia Mauretania del tempo dei romani e ne fa un crocevia anche culturale: Fes, Rabat e altre città che diventeranno centri di consolidamento dell’Islam e del mondo musulmano a tutto tondo, si avviano ad essere il grembo in cui sorgerà il nuovo popolo dell’Atlante.
Splendide costruzioni civili, politiche e religiose adornano queste capitali: minareti, fortezze, cinta orlate, palazzi del potere circondati da cerchi concentrici di abitazioni che mostrano la divisione di classe di allora. Attorno alle residenze dei re e dei loro ministri stanno le case nobiliari, oltre si trovano i mercati, i luoghi popolari dove la miseria è grande, dove lo sfruttamento, la schiavitù e la sottomissione sono la cifra di una civiltà impermeabile agli influssi europei.
Il terremoto che ha devastato la zona dell’Atlante, che ha distrutto interi villaggi di montagna, che ha fatto oscillare e crollare antichissimi minareti, che ha ucciso già oltre duemila persone, ha in queste ore cancellato una piccola, ma importante parte di quella grande storia che abbiamo raccontato all’inizio.
Qui non è stata la mano criminale dei combattenti del DAESH ad abbattere statue trimillenarie o le antiche mura di Ninive. Qui è stata la natura delle cose a sconquassare la terra sottostante e a far tremare tutto e tutti. Ed a cadere, prime fra tutte, come nei terremoti antichi che hanno interessato tutto il bacino del Mediterraneo, sono state ovviamente le case dei più poveri, quelle in cui la prevenzione sismica non è nemmeno un lontano miraggio: è qualcosa che proprio non si è mai sentita nominare.
Così, pur senza fare distinzioni sociali, etniche e di altro tipo, l’immediatezza sconcertante del movimento ondulatorio violento, durato oltre trenta interminabili secondi con un rilevamento del settimo/ottavo grado della Scala Richter, ha capovolto la realtà e ha fatto cascare le abitazioni le une sulle altre, trascinando tutto in un ammasso di accumulo di detriti, polvere, cadaveri e rovine fumanti.
Quei moderni centri urbani, proprio come a Marrakech, dove il labirinto delle vie è la quinta essenza architettonica della tenuta sociale di un intero tessuto urbano e suburbano, dove ne diviene l’espressione fisicamente plastica di una condivisione inscindibile delle vite che vi abitano e si compenetrano, hanno rischiato di essere completamente devastati e cancellati, resi invisibili dopo millenni di storia.
E’ il destino delle civiltà che si ostinano a durare troppo a lungo, sfidando non solo il tempo, bensì prima di tutto la natura degli eventi, la trasformazione cataclismatica del pianeta, la sua evoluzione che travolge ancora più impietosamente quelle popolazioni che vivono in paesi in cui la prevenzione sismica è concetto estraneo ad una programmazione politica degna di nota.
Nel regno alawita la moderna edilizia popolare, laddove è stata creata, ha sempre avuto l’impronta del privato come sovraordinatore tanto dei piani regolatori quanto degli investimenti dati senza compensazioni alcune. Da questo punto di vista, e dal punto vista che ne deriva dopo il sisma che ha falcidiato interi quartieri, paesi e villaggi rurali e desertici, non sembra nemmeno oggi venire meno quella concessione fatta dai governi nei confronti di una modernizzazione che lo Stato sembra essersi alienato.
La straordinaria bellezza delle tradizionali case delle medine, dei vicoli ricchi di artigianato, di commerci di ogni tipo, di cultura veramente capace di trasportarti oltre il tempo presente, è stata circondata da un lusso sfrenato riservato a chi solamente poteva permettersi un tenore di vita elevato. Poco importa se la differenza di classe comporta anche una svalutazione del piano culturale di un intero paese e di un intero popolo.
Il privato punta esclusivamente alla speculazione edilizia e non alla riqualificazione dell’antico entro un ambito anche più moderno. La potenza delle mura di cinta di tante medine sembra avere ancora un significato, nonostante tutto questo e nonostante il sisma. Già quello del 1960, che praticamente rase al suolo la città di Agadir e provocò oltre dodicimila morti, aveva dato adito ai nuovi costruttori famelici di reinventare completamente il tessuto reticolare del centro urbano.
Più che una intuizione, una occasione colta al volo: nei quartieri della casba e in quelli dove le abitazioni erano più fatiscenti, il crollo delle strutture si attestò sul 95% del totale. Nella città più moderna, vicina alla costa, rimase in piedi la metà degli edifici costruiti. Il tragicissimo spettacolo si ripete pari pari oggi. I costruttori attendono la rimozione delle macerie, l’identificazione delle vittime e, inoltre, può essere abbastanza sicuro che molte delle famiglie scampate alla morte non torneranno più là nel luogo preciso dove vivevano.
Condomini e agglomerati di abitazioni sono venuti giù come castelli di carte; sarà quindi letteralmente impossibile ripristinare il precedente ordine abitativo, riassegnando un alloggio a chi ne aveva uno. I vicini di casa di un tempo sono destinati a separarsi e, quindi, quelle comunità che si erano formate sono destinate, almeno nel breve periodo, a scomporsi.
L’effetto primo del terremoto è la disarmonizzazione dell’anche fragilissimo equilibrio stabilito in decenni di compromessi tra pubblico e privato, tra povertà e ricchezza, tra autonomia e dominio, tra costrizione e libertà. Viene meno, in pochi secondi, una sedimentazione di più strati di esistenza che facevano parte di un parziale rinnovamento complessivo: economico, umano, civile, sociale.
Il terremoto, si dice spesso, rimette in moto le energie migliori, quelle che guardano al bene comune, all’interesse condiviso e collettivo. Tutto dovrebbe essere, per una qualche palingenetica formula magica, migliore dopo una catastrofe che fa riscoprire il valore della fratellanza e della mutualità nella sperimentazione di un dolore che si distribuisce equanimemente.
Ma non è così. Nemmeno per l’equanimità, per una equipollenza di una sofferenza che viene patita sempre maggiormente da chi ha meno, da chi non ha mai avuto nulla e da chi oggi inizia ad avere meno di niente. I centri storici delle città marocchine, i tanti villaggi sulle colline, praticamente racchiusi in un loro mondo intangibile, lasciato lì a rivivere, secondo dopo secondo, un tempo imperturbabile, eternamente rinnovato in sé stesso, saranno la vera prova di una ricostruzione anzitutto sociale.
Fino ad oggi sono stati la parte più trascurata della società, quella che era circondata e soffocata da una modernità capitalistica che, per le connotazioni tipiche dell’Africa novecentescamente post-coloniale e neo-coloniale nel nuovo millennio della globalizzazione e del liberismo estremo e spinto, ha avuto qualche difficoltà a penetrare nell’interno di una società certamente antropizzata ma molto poco separabile dal suo passato storico e dal suo tradizionalismo attuale.
E’ stato il turismo costiero a prevalere sulla valorizzazione degli altri luoghi di grande interesse, che avrebbero potuto essere, al pari, parte di una visione più ampia di sviluppo che coinvolgesse l’intero paese e che avesse anche rispetto per quel dramma misconosciuto e tenuto ai margini della società marocchina, che è la storia dei Saharawi e del Fronte Polisario.
Il Marocco è un paese moderno sotto molti punti di osservazione. Ma la modernità non si può soltanto misurare sulle percentuali di flussi turistici che ogni anni si riversano nell’antica terra degli Almoravidi e degli Almohadi; prima di tutto la si certifica in quanto tale da come tratta le fasce più indigenti e senza diritti della società. I più poveri, i meno garantiti, quelli che non hanno accesso ad una vita dignitosa e degna di una grande storia come quella dei paesi dell’Atlante.
Se vista da questa angolazione, un po’ tutta la Terra è molto, ma molto indietro nel rapporto tra evoluzione morale e civile e progresso scientifico e tecnologico che dovrebbe migliorare le nostre esistenze e quelle di tutti gli esseri viventi. Anzi, se vista da questa angolazione, pare che tra i due fattori in questione esista, ancora più oggi rispetto al recente ieri, una preoccupante inversione di proporzionalità.
MARCO SFERINI
10 settembre 2023
foto: screenshot tv ed elaborazione propria