Raccontare l’Italia con ironia graffiante. Criticare il Paese facendo ridere. Questa era la cosiddetta “commedia all’italiana”. Uno dei massimi autori di quella stagione fu Ettore Scola, che rimane uno dei grandi cineasti italiani. Autore, sceneggiatore, all’inizio spesso non accreditato, aiuto regista prima e regista dopo. Dalla leggendaria lettera di Totò e Peppino a Che strano chiamarsi Federico ha attraversato con ironia la storia del cinema italiano. Scorrere la sua filmografia è, davvero, un po’ come scorrere la storia del cinema e del Paese.
Ho il piacere di ricordarlo con la figlia Silvia Scola, spesso al suo fianco anche sul set, che con la sorella Paola ha raccontato il padre prima nel documentario Ridendo e scherzando – Ritratto di un regista all’italiana, poi nel libro “Chiamiamo il babbo”. La prima domanda me la fa lei a me “Come va il gomito?”, ma poi passiamo subito al cinema.
Per te che regista era Ettore Scola?
La mia risposta è, ovviamente, un po’ di parte, ma è stato un regista molto peculiare. Perché era nato come sceneggiatore, come umorista e disegnatore al “Marc’Aurelio”, una rivista satirica negli anni del Fascismo e poi nel dopo guerra fino ai primi anni Cinquanta, dove aveva incontrato tutti i grandi sceneggiatori Flaiano, Maccari, Age e Scarpelli, con cui si era legato andando così scrivere più di settanta film.
Aveva una grande cultura personale, a scuola andava benissimo anche se poi non arrivò mai a laurearsi, e diventò in breve tempo uno sceneggiatore molto bravo e affermato. Quando esordì alla regia, spinto da Vittorio Gassman per il quale aveva scritto una sceneggiatura che avrebbe dovuto realizzare un altro regista, mantenne questo sguardo da narratore. Uno scrittore di cinema.
Tutte le preoccupazioni che attanagliano la maggior parte dei registi in fase di sceneggiatura, il taglio, le inquadrature, la posizione della macchina da presa, a lui interessavano di meno. Mio padre si concentrava sui personaggi, sulla storia. Diceva scherzando che il set era “un incidente di percorso” nella realizzazione di un film, anche se poi seguiva ogni singola fase della lavorazione. Gli piaceva molto il montaggio che, se ci pensiamo, è un’altra forma di scrittura del film.
Un percorso dettato dall’esigenza di raccontare il proprio Paese con un occhio critico. Di illuminare delle realtà piuttosto sconosciute e di solito scomode. Per quella generazione di autori la prima spinta era sempre civica e politica. Si doveva e si poteva lasciare una riflessione negli spettatori al di là di due ore di intrattenimento e di risate. Facevano una commedia sociale, di costume, un po’ più impegnata. Con un doppio livello. Un livello di svago e di evasione e poi un livello di critica al Paese con i problemi del lavoro, della disoccupazione, della povertà.
Scelsero di veicolare il loro essere autori impegnati, perché anche nella vita lo erano, attraverso la commedia che era una forma di cinema più popolare rispetto ai film più direttamente politici, film di registi che mio padre ammirava moltissimo come Rosi, Petri, come tutti i film di Volonté, e anche quelli di Maselli, anche se Citto veicolava il suo sentire politico attraverso storie diverse, pensiamo a Storia d’amore, non riconducibile ad un cinema cosiddetto militante.
Loro, i maestri della “commedia all’italiana”, erano militanti con quest’altra cifra, sia stilistica, sia narrativa. Venendo tutti dall’umorismo e dalla satira era più semplice, per loro, raccontare quelle stesse storie vere, con quella stessa forza che aveva avuto il Neorealismo, strappando una risata. Capirono che quei temi potevano essere trattati anche attraverso i toni della commedia, pur mantenendo il valore di critica sociale e di provocazione. Genere che portò al cinema tanta gente.
Una situazione molto diversa da quella di oggi…
Una riflessione fatta anche con mio padre. Ci sono bravissimi autori che portano avanti una loro coerente filmografia. C’è una cinematografia molto varia, ma molto poco attenta al Paese, forse più attenta ai problemi personali, psicologici, intimisti, un ripiegamento più sull’autore che sui grandi temi.
Questa distanza ha fatto si che anche film molto belli e profondi, non hanno avuto grande importanza nella storia del nostro Paese. I film di De Sica, di Monicelli, di mio padre hanno costituito un pezzo di storia d’Italia, un compendio. Quasi come la letteratura. Hanno accompagnato gli italiani non solo nella consapevolezza di loro stessi, ma anche nel sapere cosa fosse una Repubblica democratica, nel raccontare la democrazia, nel raccontare di quanto la natura degli italiani fosse distante dalla democrazia stessa.
Si è sempre detto che l’Italia non ha avuto una “Rivoluzione francese” e quindi quella borghesizzazione dei valori progressisti non sono mai passati. Noi siamo passati dalla “civiltà rurale” al “boom economico” senza nessun tipo di formazione, di coscienza politica. Eravamo un Paese molto diviso.
Quindi il cinema negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, ha avuto una funzione di progresso culturale e sociale degli italiani, che si rispecchiavano nei protagonisti del film. Con un pensiero, una spinta, un cammino. Criticare il Paese, nelle speranza di cambiarlo. Anche solo nei comportamenti o nella crescita linguistica. Poi purtroppo, come dice Vittorio Gassman in C’eravamo tanto amati: “volevamo cambiare il mondo, il mondo ha cambiato noi”. Era il 1977 e le cose non sono migliorate.
Il cinema ha poi perso quella funzione. Oggi ci sono film bellissimi in cui però è difficile ravvisare un tema politico, anche laterale, sotterraneo. Ripeto bellissimi, ma lasciano meno impatto sul pubblico.
Penso ad esempio ad Una giornata particolare, non era solo un film. Raccontava si due quotidianità semplicissime, ma soprattutto mostrava al Paese un altro modo di trattare le donne e un altro modo di concepire l’omosessualità. Un’opera a cui ripensi soprattutto, e lo vediamo anche in questi giorni, se quei problemi nella cultura di tanti italiani rimangono.
Mio padre diceva che se i grandi capolavori che hanno parlato di problemi sociali, come Le mani sulla città o Una giornata particolare, restano attuali c’è un problema; non per il grande merito degli autori, ma per il demerito della società che quei problemi non li ha risolti.
Molti dei suoi titoli sono entrati nell’immaginario collettivo e nel lessico quotidiano, penso a Riusciranno i nostri eroi…, C’eravamo tanto amati, Brutti, sporchi e cattivi, Una giornata particolare. Nel libro “Chiamiamo il babbo” parlate di quattro capolavori e mezzo. Mi piacerebbe che tu ricordassi “il mezzo” e sapere se c’è un suo film cui sei più legata?
I quattro capolavori sono C’eravamo tanto amati, Brutti, sporchi e cattivi, Una giornata particolare, La famiglia, il mezzo è un corto di nove minuti intitolato 1943-1997. Una dichiarazione d’amore per il cinema come salvezza contro le brutture del mondo.
Nel film un bambino scappa dal rastrellamento del ghetto, il 16 ottobre 1943, una SS lo ricorre, ma il piccolo si rifugia senza essere visto in una saletta cinematografica che proietta un cinegiornale LUCE. Sul grande schermo iniziano così a scorrere immagini di film che hanno fatto la storia del cinema italiano, da Roma città aperta a La tregua. Quando si accendono le luci il protagonista, ormai anziano (identico perché era il nonno del bambino), accoglie col sorriso un ragazzino nero entrato di corsa nello stesso cinema, anche lui in fuga.
Molto toccante. Realizzato come fosse un grande film, con mio padre in stato di grazia.
Mentre il film a cui sono più legata è anche il film che mi piace di più perché penso che contenga tutti i suoi temi, Brutti, sporchi e cattivi. La sua opera più particolare come genere e stile, anche se mio padre diceva di aver fatto un unico lungo film, ispirata ad Accattone uscito quindici anni prima. Gli venne, infatti, l’idea di vedere che fine avessero fatto le borgate raccontate da Pasolini, col boom economico arrivato e con quello che lo stesso poeta chiamò “genocidio culturale” già assorbito dal sottoproletariato ormai avvolto dal mito della ricchezza. Il tutto reso unico da un protagonista straordinario, Nino Manfredi, disposto per difendere il suo milione ad ammazzare la famiglia.
Ettore Scola è stato spesso raccontato come un “umanista nel cinema italiano”, penso che Brutti, sporchi e cattivi sia il suo film più poetico e completo, in cui affiorano tutti i suoi temi umanisti, anche per l’attenzione mostrata verso l’essere umano, le sue contraddizioni e fragilità.
Personalmente, inoltre, sono molto legata anche a Che strano chiamarsi Federico, una delle sceneggiature più complicate da scrivere in assoluto. Spesso si pensa che i docufilm siano i più semplici, ma nella realtà si devono scrivere con il limite e la risorsa di avere a che fare col materiale di repertorio. Una commistione tra pezzi di finzione e immagini di repertorio.
A mio padre venne commissionato il film per raccontare l’amico Federico Fellini per i venti anni dalla morte. Inizialmente non voleva perché per lui Fellini oltre che amico, era un mito. Si erano conosciuti ai tempi del “Marc’Aurelio” e dopo vignette e disegni erano passati alla sceneggiatura. Fellini con Vittorio Metz e Marcello Marchesi che scrivevano per Macario; Scola, di undici anni più giovane, sempre per il duo Metz e Marchesi che scrivevano per i nuovi comici del momento: Tino Scotti, Carlo Dapporto, Totò. E poi l’incontro con Ruggero Maccari con cui fece coppia fissa per i film di Antonio Pietrangeli, di Luigi Zampa e di Dino Risi per il quale poi scrisse anche con Agenore Incrocci e Furio Scarpelli, poi noti come Age e Scarpelli, tra gli altri Il sorpasso e I mostri. Scriveva anche sei sceneggiature all’anno, mentre Fellini era ormai passato alla regia, chiamato a dirigere il suo Lo sceicco bianco, inizialmente scritto da Fellini stesso, anche lui all’epoca solo sceneggiatore, per Michelangelo Antonioni.
Per questo mio padre era riottoso a mettersi in gioco per raccontare l’amico Federico. Alla fine si fece convincere e fu un bel viaggio anche se avevamo pochi mesi, vista la scadenza del ventennale. Ricordo che dopo aver scritto metà sceneggiatura, bella anche perché un po’ autobiografica, mio padre iniziò a girare con mia sorella Paola come aiuto regista, mentre io continuavo a scrivere nel camerino, la scena che magari si sarebbe dovuta girare nel pomeriggio. Era tutto in itinere.
Ne ho un ricordo personale angoscioso, ma particolarmente soddisfacente. Alla fine, infatti, fummo tutti molto contenti di quel Fellini raccontato da Scola. Anche mio padre. Fu il suo ultimo film a coronare degnamente una grande carriera.
Citavi prima Francesco Rosi e Elio Petri, Citto Maselli e Pier Paolo Pasolini fino ad arrivare a Federico Fellini. C’è stato un regista a cui Ettore Scola si è ispirato più di altri?
Non Fellini che per mio padre era un grande amico, ma anche un mito. Il suo modello era Vittorio De Sica. Da sempre aveva sognato di diventare un regista come lui. Fin da ragazzino. Abitava nel quartiere Esquilino e un giorno nel 1948, quando aveva sedici anni, andando a scuola lo incontrò sul set di Ladri di biciclette a piazza Vittorio, mentre stavano girando la scena del mercato delle biciclette. Ebbe subito una fascinazione per De Sica che sussurrava, parlava pianissimo, molto diverso dall’iconografia del regista “caciarone” col megafono. Ebbe una prima illuminazione e negli anni successivi rimase il suo idolo, inarrivabile ovviamente, capace di unire lo sguardo politico a quello poetico e umano.
A cui ha dedicato C’eravamo tanto amati…
Glielo dedicò anche perché morì durante la lavorazione del film. Mio padre aveva chiesto sia a Fellini sia a De Sica di interpretare loro stessi. Fellini per rifare la celebre scena de La dolce vita nella fontana di Trevi, De Sica come punto di riferimento del critico interpretato da Stefano Satta Flores che dedica, o meglio spreca, la sua vita per inseguire il grande regista. Un mito che era appunto quello di mio padre. Talmente grande che Italo Calvino definì Vittorio De Sica “il più grande scrittore del Novecento”.
Ha diretto attrici e attori straordinari. C’era uno con cui era legato anche fuori dal set?
Quasi tutti. Alberto Sordi lo incontrò da ragazzino negli anni Quaranta. Era amico di Fellini. Mio padre scrisse per lui numerose scene comiche per la radio: da “I compagnucci della parrocchietta” a “Il teatrino di Alberto Sordi”, trasmesso dalla RAI nel 1952, passando per il personaggio di Mario Pio. Nacque così un sodalizio professionale, si trovarono subito molto bene insieme (basti pensare a Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?, nda), e un’amicizia che è rimasta molto profonda per tutta la vita. Erano proprio amici al punto che Alberto ha fatto da testimone al matrimonio di mio padre. Veniva a trovarci a casa e per me era come uno zio matto, che ci faceva fare sempre un sacco di risate.
Un altro grande amico di mio padre è stato Marcello Mastroianni, molto legato e molto assiduo, loro si vedevano tanto fuori dal set e tanto anche quando non lavoravano insieme. E poi c’era Vittorio Gassman, per lui non so quante sceneggiature abbia scritto mio padre, prima di farci quella decina di film come regista.
Ti direi loro tre in particolare, ma era molto amico anche con Ugo Tognazzi, anche se si vedevano di meno, però si sentivano, e, ovviamente, con Nino Manfredi. Con i “colonnelli” fece tanti film come regista e molti di più come sceneggiatore. Si conoscevano dagli anni Cinquanta e frequentavano abitualmente la nostra casa.
Per mio padre l’amicizia era un valore molto importante anche sui set, a partire dalla troupe, che non a caso era composta sempre dagli stessi: da Armando Trovajoli che era il suo musicista a Luciano Ricceri che era lo scenografo. Di direttori della fotografia ne ha avuto più d’uno, penso a Franco Di Giacomo a Luciano Tovoli che hanno fatto diversi film con lui. Insomma Scola ci teneva molto ad avere una grande complicità e amicizia anche sul set, ovviamente anche con gli attori, perché essendoci un rapporto di conoscenza, bastava molto meno per farsi capire. Anche con il macchinista, con gli elettricisti, con le maestranze (oggi finalmente premiate con La pellicola d’oro). Aveva appreso appieno il primo consiglio che gli dette De Sica “se ti vuoi far sentire non alzare mai la voce”, ne fece tesoro e le atmosfere sui set di mio padre erano sempre rilassate e dopo il ciak attraversate da una certa sacralità. C’era quasi un microcosmo che si attivava e tutti davano il meglio di se. Ne ho visti tanti di set, di solito i registi durante le riprese sono molto tesi e oberati dalle mille incombenze che gravano su di lui, tempi, soluzioni, decisioni da prendere all’impronta, tutti fattori ansiogeni che mio padre gestiva serenamente e penso che quest’atmosfera nei suoi film si senta.
Tornando a questi grandissimi attori e mettendoli un po’ a confronto con quelli di oggi, emerge una diversità. Loro erano persone normali che il successo lo subivano più che esserne narcisisticamente gratificati. Non facevano quel lavoro per mettersi in mostra. Erano, chi più chi meno, disponibilissimi. Sordi fino all’ultimo sorrideva a tutti, firmava migliaia di autografi con una pazienza. Dava retta a tutti. Una volta entrammo io e lui in un bagno, un fotografo voleva entrare con lui proprio nel gabinetto. Lo spinsi via mentre Alberto sorrideva. Io mi arrabbiai e lui sorridendo mi disse “Silvia al pubblico devo tutto, come potrei sottrarmi”. Nessuno di loro si credeva un “padre eterno”, come gli influencer di oggi, ma nella realtà lo erano.
Ricky Tognazzi mi raccontava che a casa di Ugo la porta era sempre aperta per chiunque…
Erano incredibili e sì, avevano un modo forte di vivere l’amicizia. Erano sempre insieme anche con i figli. Gentili anche con noi bambini e, soprattutto, erano simpaticissimi, ironici con intelligenza. Dei “cazzari”. E in quel clima i momenti conviviali erano fondamentali. Non solo perché erano amici e godevano nel mangiare assieme, ma perché in quei tavoli, in quei pranzi, in quelle cene, nascevano idee, spunti. E nessuno era geloso delle proprie idee, le condividevano, si moltiplicavano. Mio padre diceva spesso “non bisogna mai essere gelosi delle idee, solo la loro circolazione crea altre idee, fa crescere le tue, le porta avanti”. Se un’idea la tieni nascosta resta asfittica.
Un’impostazione forse nata dalla redazione del “Marc’Aurelio” dove tutti portavano le loro idee da discutere collegialmente e tra loro erano “ferocissimi”. Il confronto e i contrasti portavano avanti. Dalla discussione nasceva una sintesi. La tesi, l’antitesi, la sintesi.
Discutevano moltissimo e davano importanza al dubbio. Un modo di collaborare e di far nascere film nuovi.
Anche il sistema della produzione era diverso. All’epoca c’erano quasi dei “mecenate”. Era il produttore che rischiava la sua casa, la sua villa, per produrre un film e stava a lui cercare di rientrarci. Erano magari dei “pizzicagnoli”, dei commercianti piuttosto ignoranti, anche De Laurentiis che nasce poverissimo e poi si è acculturato, ma tutti con la stessa grande passione per il cinema e per i giovani autori.
Oggi un produttore non rischia più nulla di suo, ma prima aspetta di aver venduto il diritto d’antenna, la piattaforma, la distribuzione, il passaggio televisivo all’estero. Solo dopo aver avuto tutte queste entrate, inizia a investire in un film. Di suo non rischia più un centesimo. Si è ribaltato completamente il processo creativo e produttivo.
A quelle tavolate parlavano molto di cinema, ma anche di credo politico. C’erano comunisti, socialisti, democristiani, liberali, tutti proiettati verso il progresso a sinistra del proprio Paese. Chiamiamoli progressisti.
A proposito di politica, Ettore Scola ha fatto parte di un “governo ombra” del PCI e nelle sue opere c’è appunto molta politica, dagli emarginati che oggi grazie al film chiamiamo “brutti, sporchi e cattivi”, ai lavoratori. Penso anche a Trevico-Torino – Viaggio nel Fiat-Nam, sulla condizione dei lavoratori emigrati dal sud a Torino…
… che ebbe una grande difficoltà a vedere la luce nonostante mio padre fosse già un regista affermato. Non ci fu un solo produttore disposto a finanziare quel docufilm ante litteram che si schierava apertamente contro l’avvocato Agnelli. Fu auto-prodotto in 16 mm con pochi soldi e una troupe ridottissima e lo distribuì solo l’Unitelefilm che era la casa di produzione del PCI, in 4 copie per poche proiezioni in sala. Ti lascio immaginare. Oggi Trevico-Torino compie 50 anni, è stato restaurato e recentemente proiettato al Molise Film Festival in una serata in cui si è discusso di questi cinquanta anni di emigrazione. E anche qui i problemi sono rimasti gli stessi.
Per le sue posizioni coerenti e decise si scontrò con Silvio Berlusconi.
Prima Agnelli, poi Berlusconi. Tutti se li è fatti.
Scelse di non fare più film per Berlusconi in quanto Presidente del Consiglio. Questo perché lo stesso aveva detto che la sua democraticità si misurava col fatto che la Medusa produceva film di “comunisti come Scola”. A questo punto il comunista Scola che stava facendo un nuovo film con la Medusa, dopo queste dichiarazioni che lo vedevano come “ago della bilancia”, decise di non farlo.
Ci mise sempre la faccia. Molto coerente e rigoroso, rischiando in prima persona. Era un po’ donchisciottesco. Se credeva in qualcosa, i suoi interessi, i suoi film passavano in secondo piano. Battaglie che, con Citto e pochi altri, ha sempre portato anche all’interno dell’ANAC, l’Associazione Nazionale Autori Cinematografici. La battaglia politica era primaria. Un misto di rigore e tempra morale che, forse, nasceva dal dopoguerra e dalla responsabilità che sentivano di una ricostruzione culturale, se non economica, del proprio Paese.
La politica faceva quindi parte della sua vita e del suo cinema. Nei suoi film era parte del tessuto narrativo, ma ha realizzato anche documentari dichiaratamente militanti, Un altro mondo è possibile, Porto Alegre. Opere collettive. E il cinema è l’arte collettiva per eccellenza.
Ha vinto a Cannes, trionfato ai David, ma nonostante le numerose candidature, non ha mai vinto l’Oscar. Che tu sappia questa cosa gli è mai “pesata”?
No. Mio padre non aveva alcun piacere a ricevere i premi che, tra l’altro, diceva erano “tutti chiodi sulla bara”. Quando li riceveva, più erano grandi più li usava come “ferma porta”. Abitavamo in una casa in via Bertoloni molto grande e c’era molta corrente. Ad ogni porta c’era un César, una Grolla. Altri erano in terrazzo in mezzo alla piante, perché gli piaceva vederli degradare col tempo. Mai esposti. Solo i David di Donatello, ne aveva otto, li teneva in alto nella sua libreria.
L’Oscar meno che mai visto che era il riconoscimento americano. Ovviamente se l’avesse vinto gli avrebbe fatto piacere, ma più per il film che per lui. Fu candidato quattro volte per Una giornata particolare, I nuovi mostri, La famiglia e Ballando ballando, e al quarto tentativo mia madre Gigliola, al suo ritorno, comprò un modellino di quelli snodati, lo dipinse tutto d’oro e glielo mise col “gesto dell’ombrello”. L’abbiamo messo, traslando, in Che strano chiamarsi Federico come se fosse stata un’idea di Maccari per l’Oscar non preso da Fellini, ma fu un’idea di mia madre e nel vedere quel modellino mio padre rise molto. Fu quello il suo Oscar.
A proposito, pensando anche al titolo del suo film, che famiglia era la famiglia Scola?
Una famiglia degli anni Sessanta. La povertà se la ricordavano tutti e due, sia mia madre sia mio padre, e penso che questo, nel nostro modo di vivere il boom, abbia influito. Non c’è mai stato sfarzo, non ci sono mai state barche, non ci sono mai stati atteggiamenti o oggetti che facevano “status symbol”. Era una famiglia normale anche nei rapporti, nelle dinamiche e nel modo di vivere. Per esempio io, in particolare, il successo di mio padre lo vivevo molto male, benché non fosse attore era comunque conosciuto e qualunque passeggiata finiva che lo fermavano in venti, chiedendo autografi che lui “contestava” anche perché molto schivo, sottraendo del tempo che lui dedicava a me.
Era meridionale, nato appunto a Trevico in provincia di Avellino, ma nonostante il suo progressismo e la sua mentalità aperta era un uomo del sud, con noi figlie molto geloso dei nostri fidanzati. La sua cultura lo portava a non esibirla troppo la gelosia, a rispettarci, però, come raccontiamo nel libro, tutti i nostri fidanzati venivano presi in giro. Gli affibbiava dei soprannomi terribili, poi questi sparivano e lui ironizzava “Peccato, era tanto carino”.
Una famiglia anche molto unita e mio padre ha sempre avuto la capacità di non essere mai autoritario, di non imporsi mai, ma di esserci sempre. La nostra famiglia era una “tribù”, il contrario di un “clan”, chiunque poteva farne parte, chiunque veniva ammesso. Inclusi gli amici. Per esempio Pif, ci siamo conosciuti solo per il film Ridendo e scherzando, quando ha scoperto che la domenica ci vedevamo, i miei genitori, mia sorella ed io con le nostre rispettive famiglie, ci chiamava e si aggiungeva sempre volentieri, per il clima che si respirava e per il modo di comunicare molto trasversale, anche attraverso le generazioni. Ad un bambino non veniva detto “stai zitto”, prevaleva la curiosità che li portava a parlare tanto anche con noi bambini. C’è sempre stato un clima di inclusione, mai di chiusura e di esclusione.
Questo tipo di famiglia molto aperta, e quindi il rapporto di complicità e di amicizia ha fatto sì che io abbia potuto lavorare con mio padre, scrivere sceneggiature con lui. Una cosa per noi naturale, eravamo abituati a parlare in un rapporto di grandissimo amore, ma anche di critica e di dibattito.
Per tuo padre hai scritto, tra gli altri, Il viaggio di Capitan Fracassa con un meraviglioso Pulcinella interpretato da Massimo Troisi. Oggi c’è un soggetto che ti piacerebbe fargli raccontare e dirigere?
Un soggetto preciso no, però un tema si: i ragazzi di oggi. Perché lui, contrariamente a me, aveva una grandissima fiducia nei giovani. A me quella di oggi sembra un’epoca terribile, mi sembra non abbiamo prospettive, non abbiano l’impegno politico, la lettura, la cultura, che gli manchino delle cose che per me sono state fondamentali, mentre lui, che aveva un grandissimo ottimismo, avrebbe trovato lo spirito giusto. Negli ultimi anni era molto amareggiato dalla politica e dal PD in particolare, ma nelle nuove generazioni ha sempre avuto fiducia.
redazionale
Immagini tratte da: immagine in evidenza foto da www.articolo21.org e foto di Silvia Scola, foto 1 Screenshot del film Ridendo e scherzando – Ritratto di un regista all’italiana; foto 2 tratta dalla registrazione; foto 3, 8 Screenshot del film C’eravamo tanto amati; foto 4 Screenshot del film Una giornata particolare; foto 5 Screenshot del film 1943-1977; foto 6 Screenshot del film Brutti, sporchi e cattivi; foto 7 Screenshot del film Che strano chiamarsi Federico; foto 9 Screenshot del film Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?; foto 10 Screenshot del film Il commissario Pepe; foto 11 Screenshot del film Trevico-Torino – Viaggio nel Fiat-Nam; foto 13 Screenshot del film I nuovi mostri; foto 13 Screenshot del film La famiglia
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